lunedì 3 ottobre 2022

Guerre e popoli in fuga



Articolo da Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

Dedicato alle vittime delle stragi del 3 e del 11 ottobre 2013  ed alle migliaia di persone sepolte nel cimitero Mediterraneo, due stragi per le quali la magistratura non ha ancora individuato tutti i responsabili.

1. Nazionalismi, guerre e popoli in fuga. La esternalizzazione delle frontiere per impedire l’esercizio effettivo del diritto di asilo con l’accesso al territorio di uno Stato sicuro.

La progressiva diffusione dei nazionalismi, seguita alla caduta del muro di Berlino e l’avvento di un economia globalizzata fondata su un liberismo sfrenato, che ha reso sempre più forti le differenze di ricchezza, su scala nazionale ed internazionale, oltre ai correlati disastri ambientali che hanno compromesso l’equilibrio dell’ecosistema in numerose regioni del mondo, hanno inasprito le politiche migratorie, mentre è cresciuto il numero di persone costrette a lasciare il proprio paese per cercare altrove protezione. Di fronte a questi fenomeni di sistema, vissuti come perenne emergenza, gli Stati europei, e l’Italia in particolare, hanno adottato politiche di sbarramento e prassi di respingimento collettivo che hanno svuotato il diritto di accedere ad un territorio sicuro, garantito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 a protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per i respingimenti collettivi eseguiti nel 2009 verso la Libia (caso Hirsi), l’Italia e altri paesi europei hanno preferito seguire la via della esternalizzazione, affidando alle autorità militari di paesi terzi, che non rispettano i diritti umani,  il ruolo di raggiungere le imbarcazioni in navigazione verso le coste europee e quindi bloccarle riportando nei punti di partenza i migranti che cercavano di salvare la loro vita e quella dei loro familiari, tra questi il numero crescente minori, talvolta bambini di pochi anni.

2. La militarizzazione del Mediterraneo per il contrasto dell’immigrazione irregolare. L’agenzia europea Frontex. L’operazione IRINI.

L’Unione Europea non è stata capace di dotarsi di una politica comune nella gestione delle frontiere esterne Mediterraneo. Allo stesso modo è mancata una politica estera comune capace di imporre nei confronti dei paesi terzi principi di diritto e prassi operative che fossero effettivamente rispettosi dei diritti umani. Si è preferito concentrare tutti gli sforzi in quella che viene comunemente definita come guerra  contro l’immigrazione illegale, senza alcuna preoccupazione per i conflitti interni che nel frattempo dilagavano in tutti gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo e in quelli immediatamente prospicienti. Sotto la spinta di una martellante campagna mediatica si è praticata una vera e propria guerra contro il diritto al soccorso delle persone in fuga dagli Stati di transito, messe in mare su imbarcazioni sovraccariche e fatiscenti da trafficanti senza scrupoli che potevano contare della copertura delle milizie private, collegate ad organizzazioni criminali, e dei gruppi militari ufficiali che controllavano il territorio. Malgrado un Regolamento Europeo (n 656 del 2014) stabilisse per l’agenzia Europea Frontex precisi doveri di salvataggio e l’assoluto rispetto delle Convenzioni internazionali a salvaguardia dei diritti fondamentali della persona, le prassi operative delle missioni impegnate nelle missioni di questa agenzia, a partire dal 2018, si sono orientate verso la mera collaborazione con i Paesi terzi per la segnalazione delle imbarcazioni da intercettare in mare e ricondurre nei punti di partenza.

Le operazioni militari europee Eunavfor Med (Sofia) che avrebbero dovuto a contrastare il traffico di droga, di armi e in modo subordinato, anche di esseri umani ,si sono risolte in attività di mera sorveglianza sul traffico commerciale, senza un’effettiva partecipazione a operazioni di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, nelle quali pure numerose navi militari europee erano presenti, mentre le imbarcazioni dei migranti cercavano comunque di sfuggire alle motovedette libiche e di raggiungere le coste europee.

Le motovedette libiche hanno intercettato e riportato indietro decine di migliaia di persone ogni anno, ed il numero delle vittime è cresciuto in modo esponenziale, non per l’aumento delle persone in fuga dalla Libia o dalla Tunisia, ma per le prassi di abbandono in mare, rivolte a favorire le intercettazioni in acque internazionali da parte delle guardie costiere dei paesi nordafricani.

Da ultimo l’operazione militare europea Eunavfor Med denominata IRINI, presente nel Mediterraneo centrale,  si è limitata ad attività di mero controllo di navi commerciali che trasportavano armi o altri beni sotto embargo diretti verso le coste libiche senza procedere ad attività di ricerca e salvataggio come pure si sarebbe dovuto svolgere in base alle Convenzioni internazionali ed ai Regolamenti europei di portata vincolante per gli Stati e per tutte le navi militari battenti bandiera europea.

3. Gli accordi bilaterali e la invenzione di una zona Sar “libica”.Le Missioni militari italiane all’estero con particolare riferimento alla Libia. Il ruolo delle organizzazioni non governative.

A partire dagli accordi stipulati nel 2004 e nel 2007, da diversi governi italiani con l’autorità di Tripoli, l’Italia ha assunto un ruolo di coordinamento, accertato anche dalla magistratura, delle attività della sedicente Guardia Costiera Libica. Ruolo che adesso è stato assunto dalle autorità turche dopo che nel 2020 Erdogan ha inviato cospicui mezzi militari e anche assetti navali a difesa del governo provvisorio di Tripoli sotto attacco da parte dell’esercito del generale Haftar.

Il Memorandum d’Intesa Italia Libia del febbraio del 2017 firmato da Gentiloni e da Minniti  è adesso sotto scadenza è potrebbe essere rinnovato automaticamente entro il 2 novembre del corrente anno se l’Italia non comunicherà l’intenzione di recedere. Il voto sulle missioni militari italiane all’estero, con la complicità del PD, ha di fatto anticipato la proroga del Memorandum sul quale anche il nuovo Parlamento esprimerà un voto favorevole. Appare evidente come il nuovo premier in pectore Giorgia Meloni non sia nelle condizioni di modificare questa politica di esternalizzazione, anche a fronte della impraticabilità della sua proposta elettorale di “blocco navale”, che urta contro i dettami basilari del diritto internazionale. La creazione di centri hotspot in Libia appare difficilmente conciliabile con gli standard minimi adottati dalla Comunità internazionale in materia di diritti umani, e sembra anche impraticabile alla luce della situazione sul campo, in un paese ancora diviso tra milizie che si combattono senza esclusione di colpi. Le proposte del senatore Salvini, circa il ripristino dei decreti sicurezza da lui varati nel 2019, cozza in modo frontale con le decisioni più recenti della giurisprudenza e in particolare della Corte di Cassazione che hanno affermato l’obbligo di soccorso in mare anche a carico delle autorità statali, la qualificazione della Libia come Paese terzo “‘non sicuro” e la non punibilità delle condotte di salvataggio posta in essere dalle organizzazioni non governative.

Si può tuttavia attendere che, proprio a fronte di questa giurisprudenza, le nuove autorità di governo italiano, prima di introdurre per decreto legge inasprimenti normativi, ritornino alle pratiche di fermo amministrativo per bloccare le porti il più a lungo possibile le navi delle ONG. Anche se una recente sentenza della Corte di Giustizia ha drasticamente limitato il potere delle autorità marittime nell’imporre controlli a discrezione e procedere quindi al fermo amministrativo delle navi solo per avere queste soccorso un numero troppo elevato di naufraghi. Vedremo quanto si riuscirà a contrastare queste prassi amministrative e questi nuovi provvedimenti di legge con il richiamo al Diritto del’Unione Europea ed alle Convenzioni internazionali. In ogni caso l’Italia rischia l’apertura di procedure di infrazione, come si è verificato con la Polonia e con l’Ungheria.

Potrebbero anche verificarsi nuovi episodi di criminalizzazione delle attività di soccorso con la incriminazione degli operatori umanitari che hanno salvato vite umane in mare. Di fronte a questi rischi occorre che le organizzazioni non governative abbiano una comunicazione più efficace rivolta direttamente all’opinione pubblica italiana, comunichino in tempo reale le attività di salvataggio e gli eventuali rifiuti di soccorso da parte degli Stati, e si dotino di legal team che possono contrastare tempestivamente con la massima energia, e dunque con denunce tempestive, le eventuali attività di contrasto dei soccorsi umanitari, come la chiusura dei porti, poste in essere in passato dalle autorità italiane.
A partire dalle stragi di migranti per abbandono in mare e dagli attacchi che potranno rivolgersi in futuro nei confronti delle organizzazioni non governative, bisognerà mettere in evidenza tutte le violazioni del diritto internazionale  e del diritto europeo che le autorità italiane potranno commettere il nome di una malintesa prevalenza del diritto nazionale sulle fonti internazionali. Una questione oggetto di propaganda nel corso delle elezioni più recenti, con gli avvertimenti rivolti all’Europa dalla Meloni  al grido di “la pacchia e’ finita”. Avvertimenti del tutto inutili, perché ormai l’Europa ha dimostrato di non sapersi dotare di una politica estera comune e di non riuscire ad adottare neppure una politica migratoria di gestione delle frontiere esterne, al di là del supporto economico e militare ad operazioni puramente repressive come quelle affidate all’ agenzia Frontex ed alle missioni Eunavfor Med IRINI. Senza nessuna attenzione per i diritti umani violati nei paesi di transito e per le vite in mare in pericolo nelle acque del Mediterraneo centrale, la rotta migratoria più pericolosa del mondo.

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Fonte: Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

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Articolo tratto interamente da 
Associazione Diritti e Frontiere – ADIF


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