«
Un’attività fondata su
comportamenti rivolti al bene di tutta l’umanità lega indissolubilmente
ognuno di noi alle conseguenze che da essa derivano».
Lo scriveva Irena Krzyżanowska, più nota come Sendler, in una lettera
datata 3 maggio 2002 indirizzata a un gruppo di giovani ragazze del
Kansas che, appassionatesi alla sua storia, ne hanno promosso la
conoscenza con il progetto
Life in a jar – La vita in un barattolo.
Polacca
e cattolica, nata a Varsavia nel 1910 da una famiglia socialista, Irena
inizia la sua attività di opposizione alle persecuzioni antisemite già
dall’università dalla quale, per questo motivo, viene espulsa per tre
anni.
In qualità di assistente sociale nell’amministrazione
comunale, dal ’39 al ’42 contribuisce alla fuga di numerose famiglie
ebree residenti a Varsavia fornendo loro documenti falsi. Quindi, si
unisce al Consiglio di Aiuto degli ebrei fondato nel dicembre del 1942 e
meglio noto con lo pseudonimo Zhegota, un contenitore clandestino di
polacchi ma anche di ebrei appartenenti a schieramenti politici di
destra e sinistra, rimasto attivo fino a gennaio del 1945.
Assegnata
alla guida del Dipartimento per l’infanzia interno all’associazione
clandestina, Irena mette in salvo 2500 bambini, sottraendoli al destino
previsto per loro con la distruzione del ghetto di Varsavia, il più
grande ghetto europeo nel quale furono uccise 450.000 persone.
Ottenuto
un lasciapassare come infermiera addetta ai controlli per la diffusione
di epidemie, organizza sotto lo pseudonimo di “Jolanta” una rete di
soccorso interna al ghetto; indossa sempre una stella di David in segno
di solidarietà ma anche per potersi meglio confondere tra la gente.
«L’enorme
numero di bambini messi in salvo da Zhegota – scrive Irena nelle sue
lettere – andava catalogato e ricordato, nonostante l’enorme pericolo
che questo tipo di operazione comportava, perché era l’unico modo per
consentirne, a guerra finita, il ritorno alle famiglie d’origine e
perché basandosi sull’elenco in cui erano annotati gli indirizzi ai
quali ciascun bambino veniva destinato, potevano essere recapitati i
soldi per coprire le spese di soggiorno».
Le liste furono scritte
su sottili fogli nascosti, in un primo momento, in casa della stessa
Irena e poi trasferite in un barattolo sotterrato nel giardino di un
“contatto” della Sendler.
Diversi furono i sistemi adottati per la
fuga; i bambini venivano sedati e rinchiusi in un sacco per farli
sembrare morti di tifo; nascosti tra stracci sporchi di sangue
all’interno di ambulanze o, ancora, nascosti dentro casse di attrezzi
trasportate nel furgone di un tecnico del comune che teneva sul sedile
anteriore il suo cane addestrato ad abbaiare in presenza di soldati
nazisti, così da coprire il pianto dei piccoli.
Una volta
“liberati”, i bambini venivano affidati a famiglie residenti nelle
campagne, mandati in conventi cattolici o ancora presso preti che li
nascondevano nelle canoniche.
«Dopo la fine del conflitto – scrive
Irena -, ho affidato gli elenchi a Adolf Berman, tesoriere di Zhegota
che a guerra conclusa divenne presidente del Comitato ebraico di aiuto
sociale.
Egli, con l’aiuto degli attivisti a lui subordinati,
prelevò i bambini dagli istituti polacchi gestiti da ordini cattolici o
dalle famiglie private che li nascondevano. Il mio ruolo si esaurì
sostanzialmente qui; non ricordo i loro nomi e loro non seppero mai il
mio, dopo tutto, ciò fu indispensabile per la sicurezza di tutti. Per
loro io ero solo “Auntic Jolanta”».
Le misure di sicurezza furono
necessarie e fondamentali. Infatti, nell’ottobre del 1943, Irena venne
arrestata dalla Gestapo e pesantemente torturata; ciò non bastò però, a
farle rivelare il segreto suo e di migliaia di bambini.
La rete
della resistenza polacca riuscì a far fuggire Irena, ormai condannata a
morte, corrompendo i soldati tedeschi e facendo scrivere il nome della
Sendler tra i prigionieri già messi a morte.
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Fonte: Enciclopedia delle donne
Autore: Michela Lugli
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Articolo tratto interamente da Enciclopedia delle donne