Articolo da Wired
Mentre la Camera era assediata dal fracasso di Matteo Salvini, di
Giorgia Meloni e dei saluti romani fra teste rasate e croci celtiche,
Facebook purgava Casapound, Forza Nuova e le loro propaggini giovanili o locali.
Oltre ai profili di responsabili e dirigenti, chiamiamoli così, da
Gianluca Iannone a Simone Di Stefano fino a Roberto Fiore. Non è stata
una decisione improvvisa ma il frutto di un lungo lavoro di
approfondimento nato non solo dalle segnalazioni degli utenti e dalle
denunce ma anche dalle numerose inchieste (giornalistiche e no) che
negli ultimi anni hanno portato a galla la mappa dell’avvelenamento
neofascista online. Contraltare delle attività di questi gruppi offline,
fuori dal social network. Dunque, stesso trattamento che era toccato ad
Alba Dorata in Grecia o ad altre formazioni britanniche (British
National Party e Britain First fra queste):
si chiude.
Fiore, già condannato per banda armata e associazione sovversiva, parla con piglio da autore di romanzi distopici di “
polizia politica di Zuckerberg”. Di Stefano di “
censura e abuso”. Tutti pronti a scomodare la
libertà d’espressione di
fronte a chi esplicitamente si rifà all’ideologia fascista, a chi ha
condotto attacchi e aggressioni (per Forza Nuova 240 denunce e dieci
arresti fra 2011 e 2016), a chi persegue l’odio e la discriminazione
come grammatica pseudopolitica e spesso manifesto di azione concreta.
Il punto è che il fascismo non è un’opinione.
Ma qui, addirittura, non si arriva neanche a quel tipo di giudizio: si
resta sul metodo, più che sul merito, garantisce la piattaforma per
spiegare le sue decisioni.
Al contrario, il messaggio che la galassia nera cerca di far passare è che il colosso hi-tech
fa quello che vuole,
intervenendo nella vita politica e democratica di un paese e
compromettendola. Ma nelle parole, nelle attività e nelle scelte di quei
gruppi
non c’è nulla di democratico. C’è, al contrario, la rispondenza molto precisa all’identikit di chi non è ben accetto su Facebook secondo gli
Standard della comunità perché appunto incita all’odio: “
Qualsiasi
associazione di almeno tre persone organizzata con un nome, un segno o
simbolo e che porta avanti un’ideologia, dichiarazioni o azioni fisiche
contro individui in base a caratteristiche come la razza, il credo
religioso, la nazionalità, l’etnia, il genere, il sesso, l’orientamento
sessuale, malattie gravi o disabilità”. Insomma, mettetevi l’anima in pace: il social non sta facendo come gli pare. Sta solo
applicando le sue regole in modo più preciso e pervasivo. Il problema è che non l’ha fatto per troppo tempo. E continua a non farlo con tutti.
Non fasciatevi la testa da garantisti costituzionali, non ci sarà
nessuno più avanti a subire lo stesso trattamento, non c’è nessun
tecnoregime digitale all’orizzonte. Dopo, non toccherà a nessun altro,
sempre che non incroci quei temi e non li esponga in quei termini.
Facebook non può senz’altro essere considerata un’azienda come un’altra,
su questo non c’è alcun dubbio: per molti mercati è il luogo dove si
forma un bel pezzo dell’opinione pubblica. E la
discrezionalità di cui dispone il gruppo è da tempo al centro dei
crucci dei regolatori:
può davvero agire da sola nella gestione dei contenuti, come e in che
misura può rinunciare alle sue responsabilità editoriali? E chi dovrebbe
fornirle il perimetro in cui agire senza precipitare nella censura?
Le questioni che rimangono aperte sono tre. E in qualche modo è
proprio il blitz contro quelle pagine e quei profili a sollevarle in
modo lampante. La prima:
serve più trasparenza. Facebook dovrebbe rilasciare un rapporto completo che indichi con chiarezza
chi, cosa e perché è stato chiuso.
Possiamo immaginarlo, ovviamente, ma per tenere l’operazione su un
fronte strettamente legato ai contenuti d’odio, più che all’ideologia di
partenza (che pure non meriterebbe cittadinanza, in questo paese),
servirebbe un approccio più preciso.
La seconda: all’ideologia di partenza dovrebbe invece pensarci lo Stato,
sciogliendo quelle organizzazioni
come prevedono la Costituzione e le leggi Scelba e Mancino, d’altronde
confortate da una quantità di sentenze di condanna ma anche, ahinoi, da
una
giurisprudenza bifronte che ha concesso ampio margine di manovra a gruppi e gruppuscoli intorno al principio del “
rischio concreto” di ricostituzione del Partito nazionale fascista.
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Fonte: Wired
Autore: Simone Cosimi
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Articolo tratto interamente da Wired