Articolo da La Città Futura
Il
Governatore della Banca d'Italia ha le idee chiare, a detta sua sarebbe
un errore aumentare i salari perché innescherebbero la spirale
salari/inflazione. Noi diciamo che ciò che si vuole tenere a bada sono i costi a carico delle imprese e quindi salvaguardare i profitti.
Questa inflazione è causata
dall'aumento del costo delle materie prime e dei prodotti energetici,
nonché dalla speculazione su tali merci, non certo dai salari, fermi da
decenni. Tenerli ancora fermi di fronte a un'inflazione al 10%
significherebbe ridurre i salari reali del 10%.
Il
Governatore non ha letto, o fa finta di ignorare, rapporti e relazioni
di economisti che attribuiscono l'arretratezza del sistema produttivo
italiano al disinvestimento del pubblico nell'economia, nella ricerca e
nei processi innovativi, argomenti già trattati, 20 anni fa, da Luciano
Gallino.
Accrescere i salari determinerebbe conseguenze solo negative sull'economia?
Ovviamente no, anzi si salvaguarderebbe il livello della domanda.
Pensare che il solo parametro da tenere in considerazione sia quello
della inflazione, di fronte a un'economia che è al di sotto dei livelli
precedenti la crisi del 2008, cioè ha perso 15 anni, sarebbe
semplicemente folle se non corrispondesse a precisi obiettivi di tutela
della classe capitalista. Davvero l'inflazione è il nemico numero uno?
Negli anni 60 e 70, con un inflazione a due cifre, il paese è progredito
e non solo i salari sono stati salvaguardati contro l'aumento del costo
della vita, ma sono cresciuti notevolmente in termini reali.
L'erosione del potere di acquisto di salari e pensioni è costante da oltre 30 anni. Sarebbe
sufficiente guardare alle statistiche dell'UE per comprendere come i
salari italiani siano stagnanti o aumentati assai poco al cospetto degli
altri paesi comunitari anche in rapporto al PIL.
L'erosione
del potere di acquisto è data da molteplici fattori: la dinamica al
ribasso dei contratti nazionali, la crisi del settore pubblico (sanità,
istruzione e inadeguatezza del welfare), i processi di privatizzazione e
delocalizzazione che, pensando di aiutare l'economia, hanno sollecitato
e favorito la spinta delle associazioni datoriali ad abbassare il costo
del lavoro.
Per il
Governatore esiste una sola strada da intraprendere ossia accrescere la
produttività senza aumentare il potere di acquisto dei salari, tenere a
bada l'inflazione ritenendo questa una misura sufficiente per famiglie e
imprese.
Le inefficienze del settore produttivo hanno origini lontane ossia da quando il pubblico ha cessato ogni funzione di traino. Quando sono iniziati i disinvestimenti nella ricerca e nell'innovazione
pensando che la sola precarietà e il contenimento dei salari avrebbero
avuto effetti benefici sulla crescita. Ma così non è stato. Eppure si
persevera nell'errore, o nel consapevole cinismo, seguendo una ricetta
rivelatasi fallimentare. Perché forse non è giusto considerare erronea
una scelta economica, quella neoliberista, destinata ad alimentare
profitti e margini speculativi per tenere in piedi un sistema in
continua crisi.
Per anni si è pensato che i processi di ristrutturazione apportati nella divisione ed organizzazione del lavoro avrebbero avuto effetti benefici. Per agevolarli sono stati distrutti tutti i meccanismi di adeguamento dei salari al costo della vita.
I padroni hanno chiesto di delocalizzare le produzioni e lo Stato ha
accolto le richieste senza ricorrere alla leva fiscale. Anzi i viaggi
dei governanti e dei presidenti della Repubblica sono stati occasioni
propizie per concludere accordi commerciali che prevedessero anche le delocalizzazioni.
Se
guardiamo alla spesa sanitaria sono proprio le Regioni che ricorrono a
convenzioni o hanno privatizzato innumerevoli prestazioni a registrare
costi maggiori per la tutela della salute.
Sarebbe
sufficiente visitare le sedi del Cnr per accorgersi della crisi della
ricerca senza dimenticare gli innumerevoli contratti precari a spingere
molti\e a migrare all'estero per una retribuzione dignitosa o
opportunità di carriera.
E l'ideologia del merito ha alimentato l'illusione di una sorta di selezione naturale dei più meritevoli,
ma i numeri chiusi per l'accesso alle università e le discriminazioni,
come del resto le disuguaglianze sociali sono cresciute e oggi risultano
fuori controllo.
Ci sono
poi gli assertori dell'idea della piena libertà del mercato assegnando
allo stesso il compito di decidere quali aziende siano capaci di
resistere alla concorrenza. Luoghi comuni belli e buoni. L'Ue li ha
smentiti decidendo di consentire, in questa fase eccezionale, gli aiuti
di stato alle imprese. Però non ha accolto due richieste complementari:
permettere la deroga al fiscal compact e/o attivare un apposito fondo
europeo. In assenza di entrambe le condizioni solo i paesi più forti, la
Germania in testa, potranno prestare questi aiuti in qyantità adeguata e i sistemi produttivi di Italia, Spagna ecc. rischieranno di essere fagocitati.
Pensiamo anche a come sarà possibile l'intervento statale per gli
ammortizzatori sociali, necessari in questa fase recessiva, di fronte a
un tasso di interesse elevato e a un debito che già sfiora il default.
Di fronte a questi problemi finanziari che senso ha tenere in piedi
numerose norme che alla fine hanno mantenuto in vita settori produttivi
obsoleti senza assicurare loro un'opportunità di riconversione? Si
sono assegnati aiuti pubblici ad aziende che nell'arco di pochi anni
hanno delocalizzato produzioni e licenziato la forza-lavoro.
Solo una forte volontà politica sarebbe stata capace di intervenire
ponendo limiti e obiettivi agli aiuti pubblici, ma così non è stato per
la subalternità dei Governi ai dettami dei poteri economici e
finanziari.
Rinunciando
al ruolo dello Stato di controllo e di indirizzo dell'economia a fini
sociali, favorendo solo il pareggio di Bilancio (introdotto in
Costituzione), i danni recati al sistema produttivo sono stati tali da
mortificare la domanda, deprimere i salari e distruggere anche settori
un tempo competitivi.
Le
privatizzazioni hanno impoverito il sistema produttivo e precarizzato il
lavoro (ergo abbattuto il potere di acquisto), i disinvestimenti
pubblici in materia di ricerca e innovazione hanno completato l'opera.
Ma questi processi non sarebbero stati vittoriosi senza la sconfitta del movimento operaio.
La debacle ha ricevuto l'insperato contributo dei sindacati
rappresentativi, determinanti nell'opera distruttrice. E a questi
strenui difensori del popolo è arrivato, quale merce di scambio, il
business della previdenza e della sanità integrative.
Il
mantra del principio autoregolatore del mercato è una narrazione
manipolatrice della realtà alla quale si sono piegati intellettuali,
giornalisti e perfino ampi settori del sindacato e della cosiddetta
“sinistra”.
La
produttività in Italia, come del resto i salari, sono in erosione per
ragioni per altro note: in 30 anni le buste paga italiane sono rimaste
invariate mentre il costo della vita è cresciuto, abbiamo perso potere d'acquisto mentre altri paesi europei accordavano aumenti contrattuali pari al doppio di quelli italiani.
Il
mercato necessita della visibile mano politica e di interventi per
assegnare maggiore potere all'impresa e depotenziare il conflitto del
lavoro contro il capitale come abbiamo del resto constatato sulla nostra
pelle.
La produttività non è cresciuta, il
sistema italiano ha puntato tutto sulla riduzione dei salari e sulle
delocalizzazioni investendo poco o nulla nella ricerca, nella
innovazione. Hanno ritenuto che, se
prima il pubblico faceva da traino per gli investimenti e i processi
innovativi, impoverendo il settore pubblico i privati si sarebbero
potuti sostituire in questo arduo compito. Ma ben presto ci siamo
accorti di quanto illusoria fosse questa speranza.
E invece
di cambiare rotta i Governi via via succedutisi hanno continuato con
politiche remissive e subalterne ai dettami padronali impoverendo la
ricerca e il settore pubblico e smantellando ogni iniziativa di
formazione in materia di lavoro.
In
sostanza siamo in presenza della solita ricetta neoliberista che pensa
di risolvere il problema dell'erosione del potere d'acquisto dei salari
chiedendo alla forza lavoro un aumento delle prestazioni e la supina
accettazione della flessibilità e della precarietà.
L'erronea
ricetta della Banca d'Italia di tenere solo a bada l'inflazione
pensando di far ripartire il potere d'acquisto dei salari, non è isolata
nel contesto europeo. In queste settimane il premier conservatore in
Gran Bretagna si muove nello stesso alveo; ha provato prima a limitare
il diritto di sciopero, trovando l'opposizione del sindacato. Intanto i
salari pubblici, incrementati del 5 per cento, continuano a perdere
potere di acquisto a causa dell'aumento nel frattempo del 10% del il
costo della vita. Ma l'attacco al diritto di sciopero non demorde e in
Parlamento, già nei prossimi giorni, porteranno il Public Order Bill,
un insieme di norme capestro con le quali il governo inglese proverà a
tacitare le lotte dei lavoratori che godono del consenso di metà della
popolazione.