lunedì 29 luglio 2024
Voglia di vacanze
Nelle azzurre sere d’estate di Arthur Rimbaud
Nelle azzurre sere d’estate
Nelle azzurre sere d’estate, me ne andrò per i sentieri,
graffiato dagli steli, sfiorando l’erba nuova:
trasognato, ne sentirò la frescura sotto i piedi,
e lascerò che il vento mi bagni la testa nuda.
Non parlerò, non penserò a niente:
Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
E andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro.
Arthur Rimbaud
Maduro ha vinto le elezioni presidenziali venezuelane
Articolo da Altrenotizie
Con il 51,20% dei voti, Nicolás Maduro Moro ha vinto le elezioni presidenziali venezuelane e si è confermato alla guida del Paese. Una vittoria fondamentale per Caracas, molto importante per l'America Latina nel suo complesso e significativa per lo scenario internazionale. La destra, che vedeva insieme conservatori e reazionari ed era rappresentata da una figura dal passato criminale e dal presente opaco, ha comunque ottenuto un risultato significativo, frutto del combinato disposto di una cultura politica annessionista storicamente presente nel Paese e di anni di difficoltà economiche causate dall'embargo occidentale.
L'affluenza alle urne del 59% degli aventi diritto spiega bene l'importanza della posta in gioco e la totale incompatibilità delle proposte in campo: da un lato il percorso chavista e bolivariano del Paese, che ne garantisce l'indipendenza e la sovranità nazionale; dall'altro il rientro nell'orbita statunitense, che ne delinea la dipendenza strategica da Washington.
La vittoria di Maduro appare ancora più importante a causa dell'impari competizione elettorale in Venezuela. Da una parte il PSUV e altre aree della sinistra e dall'altra la destra sostenuta dall’Occidente Collettivo, pesantemente coinvolto nella competizione elettorale. La continua ingerenza di americani e spagnoli, con il solito codazzo ansioso di ex fantocci latinoamericani, è stata la rappresentazione vacillante di uno scontro politico che era ed è tuttora molto serio. Uno scontro tra ipotesi opposte che ora, a urne chiuse e a conti fatti, lascia sul terreno alcune considerazioni e alcuni insegnamenti.
Il primo è per il popolo bolivariano, che attraverso anni di tenace resistenza ha mostrato al mondo come resistere e sconfiggere la più grande potenza economica, politica, militare e mediatica del mondo. Non ci sono abbastanza righe per descrivere il continuo e illimitato furto di beni venezuelani all'estero, il sequestro di aziende e risorse, depositi e titoli. Non c'è stato limite all'espressione di un blocco che non solo ha impedito l'accesso ai mercati internazionali sia per le importazioni che per le esportazioni, ma ha anche conosciuto dimensioni di extraterritorialità piegate solo dalla solidarietà di Paesi non soggetti agli ordini della Casa Bianca. Per sostenere questo assetto mefistofelico, si è scatenata l'insolenza delle accuse e l'infamia delle menzogne, con cui l'odio per la sovranità popolare è stato trasformato in “pressione democratica”. È questa l'essenza stessa della politica statunitense nei confronti del Venezuela, che si è infranta ieri, consumando un'altra sconfitta subita da un altro nemico e su un altro palcoscenico.
Una nuova sconfitta di Washington
La seconda lezione è per gli Stati Uniti: non c'è dubbio che l'impatto globale del voto venezuelano nella regione metta in seria difficoltà gli obiettivi degli Stati Uniti, producendo una nuova sconfitta per l'impero a sud dei suoi confini. Una sconfitta che però, per ragioni sia circostanziali che prospettiche, acquista un valore molto forte. In Venezuela, infatti, si giocava una parte fondamentale del piano di riconquista dell'intera America Latina. Evocato dalla Generale Laura Richardson, capo del Comando Sud delle Forze Armate statunitensi e proconsole degli Stati Uniti in Ecuador, Perù, Argentina e Cile, nei giorni scorsi è venuto alla luce un ipotetico Piano Marshall per l'America Latina che sarebbe allo studio della Casa Bianca. Ma, interpretando la logica storica del modello, è chiaro che il Piano Marshall è solo una forma descrittiva edulcorata di un piano di riconquista del subcontinente.
Non deve sembrare strano che sia un generale dell'esercito statunitense a dettare la linea d'azione dell'impero, è semmai l'unica cosa coerente e credibile dell'intero piano. Che non nasce dall'intenzione di contribuire alla lotta contro la povertà ma, semmai, di limitare le politiche sociali che la riducono alterando i processi redistributivi a danno dei poderosi. Lo scopo più grande è quello di intervenire direttamente nelle economie latinoamericane e riportarle nella sfera di influenza di Washington.
Dopo la presa di fatto dell'Ecuador, trascinato con la forza nella bandiera a stelle e strisce, la conquista per procura dell'Argentina, l'acquiescenza del Perù e la immutabile alleanza del Cile quale che sia l’inquilino della Moneda, la vittoria in Venezuela avrebbe permesso agli USA di tornare con forza a monopolizzare risorse e mercati che indubbiamente non sono più di loro esclusiva competenza. Ciò è dovuto al peso economico di uno dei maggiori giacimenti mondiali di petrolio, acqua, minerali e biosfera di valore strategico, nonché al suo status politico di Paese leader nel processo di emancipazione, trasformazione e liberazione latinoamericana.
Il prossimo obiettivo sarebbe stata la Bolivia (su cui sono già state fatte le prove generali di sovversione golpista) e poi Nicaragua e Cuba, pensando così di chiudere con l'ALBA e di fare il pieno di quelle terre rare e di quei prodotti agricoli ed energetici di cui il gigante decadente ha disperatamente bisogno per cercare di sostenere il confronto con la Cina e gli altri Paesi nemici dell'impero mettendo ancora una volta gli artigli nel “cortile di casa”.
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Fonte: Altrenotizie
Autore: Fabrizio Casari
Licenza: Creative Commons (non specificata la versione)
Articolo tratto interamente da Altrenotizie.org
Quando non ho avuto...
"Quando non ho avuto più niente da perdere, ho ottenuto tutto.
Quando ho cessato di essere chi ero, ho ritrovato me stesso.
Quando ho conosciuto l’umiliazione ma ho continuato a camminare, ho capito che ero libero di scegliere il mio destino."
venerdì 26 luglio 2024
C’è una parte dell’umanità...
Una scossa di terremoto di magnitudo 4.0 ha colpito l'area dei Campi Flegrei
Una scossa di terremoto di magnitudo 4.0 ha colpito l'area dei Campi Flegrei, una delle zone vulcaniche più monitorate e studiate in Italia. La scossa, avvertita anche a Napoli e sull'isola di Procida, ha avuto luogo alle 13:46 ora locale, con un epicentro localizzato a circa 2 km dal comune di Bacoli e a una profondità di 4 km.
Nonostante l'intensità della scossa, non sono stati segnalati danni significativi alle strutture o lesioni alle persone, grazie anche alla pronta risposta della Protezione Civile e ai protocolli di sicurezza ben consolidati nella regione. Tuttavia, l'evento ha suscitato preoccupazione tra la popolazione.
La gente sa solo criticare
"Se ingrassi, ti giudicano.
Se dimagrisci, ti credono malata.
Se vesti bene, sei vanitosa.
Se vesti male, sei sciatta.
Se piangi, fai pena.
Se dici la tua, sei arrogante.
Se ti giustifichi, sei problematica.
La gente sa solo criticare, quindi fregatene, rimani quella che sei e lascia che gli altri parlino!"
Vanessa Incontrada
Photo credit Raphael Mair, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Ho resistito alla fame, ho lavorato nei campi, sono sopravvissuto alle guerre...
"Ho resistito alla fame, ho lavorato nei campi, sono sopravvissuto alle guerre, ho giocato a calcio a piedi nudi, non ho avuto un'educazione e molte altre cose, ma oggi, con quello che guadagno dal calcio, posso aiutare la mia gente. Ho costruito scuole, un ospedale, offriamo vestiti, scarpe, cibo alle persone che vivono in estrema povertà. Inoltre, do 70 euro al mese a tutte le persone in una regione molto povera del Senegal. Non ho bisogno di vantarmi di auto di lusso, ville eleganti, viaggi, e tanto meno di aerei, preferisco che la mia gente riceva un po' di quello che la vita mi ha dato".
Sadio Mané
Photo credit Fars Media Corporation, CC BY 4.0, da Wikimedia Commons
Comunicazione di servizio
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Ogni volta che vuoi giudicare qualcuno...
“Ogni volta che vuoi giudicare qualcuno, cammina prima per tre lune nei suoi mocassini.” Dobbiamo diventare dei grandi camminatori, non credi? Camminare, camminare e camminare ancora, uno a fianco dell’altro, scambiandoci le scarpe, uno nelle scarpe dell’altro. Camminare pensando al giorno in cui siamo venuti al mondo e a quello in cui ce andremo. Camminare accanto alla fragilità, nella nudità, senza toghe, senza indici levati. Dobbiamo camminare per costruire un mondo la cui base non siano più il giudizio e il pregiudizio, ma l’umiltà e la comprensione.
La riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario
Articolo da Volere la luna
Il tema della riduzione dell’orario di lavoro, tra le rivendicazioni portanti del movimento operaio nella fase della sua ascesa, torna oggi sulla scena del dibattito politico. Si tratta, se vogliamo, di un ritorno ancora in tono minore, relegato a un ruolo ancilllare rispetto alla più pressante e visibile questione del salario minimo, e accolto dalla maggioranza con un mix di duro scetticismo e compiaciuta benevolenza. Eppure, alle diverse sperimentazioni sulla riduzione portate avanti da varie realtà aziendali si aggiungono negli ultimi mesi tre proposte di legge [C. 142 Fratoianni-Mari (AVS), C. 1000 Conte et al. (M5S). C. 1505 Scotto et al. (PD)], depositate dalle opposizioni, che si sono ritagliate un primo spazio nell’agenda dei lavori del Parlamento. I presupposti di questo ritorno sono almeno in parte nuovi, e si collocano nella scia dell’eco mediatica del fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”. Al di là della dimensione quantitativa e della sua reale portata economica, l’emergere di quello che è stato definito un nuovo rifiuto del lavoro ha messo in luce l’insostenibilità delle condizioni occupazionali di molti lavoratori e lavoratrici, segnalando una necessità di cambiamento che ad oggi appare difficilmente procrastinabile, se non pagando costi elevatissimi in termini di benessere individuale e collettivo.
Esistono, e sono ormai consolidate, numerose argomentazioni che chiariscono l’opportunità di un intervento in tal senso. Una prima possibile conseguenza positiva della riduzione dell’orario è la possibilità di redistribuzione del lavoro, su cui si regge la storica idea di lavorare meno per lavorare tutti, che è probabilmente l’argomentazione più nota nel discorso pubblico e quella intuitivamente più inattaccabile, dal momento che offre la quadratura del cerchio per risolvere il problema della disoccupazione, maschile così come femminile, e del benessere dei lavoratori e delle lavoratrici. Certamente esistono limiti ed elementi di complessità connessi a questa apparentemente semplice equazione, ma le esigenze di redistribuzione del lavoro rimangono quantomai attuali alla luce dello sviluppo tecnologico, e la riduzione dell’orario continua a rappresentare il miglior strumento per soddisfarle.
Un secondo elemento a supporto è sicuramente l’incremento della produttività, che ricerche autorevoli hanno dimostrato in modo molto solido. Le ragioni a cui questo aumento è dovuto sono duplici. Per tutti vale il fatto che una minor stanchezza fisica e mentale permette ritmi maggiori e concentrazione più elevata. Nel caso di alcuni lavori, prevalentemente riconducibili all’ambito delle professioni creative, vale poi una ulteriore dimensione: alcune delle competenze utili vengono infatti maturate al di fuori dell’ambiente di lavoro e nella sfera familiare e amicale, e spesso le intuizioni nascono in ambienti del tutto distanti dagli uffici o dalle fabbriche.
Una terza dimensione rilevante ha a che fare con la salute e il benessere dei lavoratori. Da anni ormai è acclarata la crescita delle patologie legate all’iperlavoro, e ne sono noti i costi sociali ed economici. I ritorni, dunque, andrebbero oltre il livello del benessere individuale: la riduzione dell’orario potrebbe comportare vantaggi per tutte le parti in causa, ivi compresi datori di lavoro e sistemi di welfare. Non solo, un altro elemento da considerare è certamente quello drammaticamente attuale degli infortuni sul lavoro, fortemente connesso alla dimensione dell’orario (in termini di durata complessiva ma anche di turni) e la cui rilevanza è riconosciuta anche dall’UE, la quale lega espressamente orario e sicurezza. Restando nell’ambito della salute e del benessere, più complessa appare la relazione con il cosiddetto burnout, fenomeno definito in letteratura con riferimento alle sue tre componenti principali: esaurimento delle energie fisiche o mentali, cinismo, che si sviluppa come risposta emotiva o “cuscinetto protettivo”, e inefficacia professionale, reale o percepita. Come evidenzia uno studio dello European Trade Union Institute, il fenomeno è sì legato alla lunghezza della giornata lavorativa e al tempo trascorso a lavoro, ma è anche dovuto alla pressione professionale e alla tensione alla performance. Come vedremo a breve, se l’accorciamento dell’orario non si accompagna a una corrispondente riduzione dei carichi di lavoro, il rischio è che il minor tempo a disposizione risulti paradossalmente in un maggior stress, e anche in una minor produttività. Perché ciò non accada, è necessario che la riduzione si accompagni a un aumento dei lavoratori, e dunque a una redistribuzione dei carichi.
Ulteriori elementi a supporto vanno infine nella direzione di fornire una risposta a grandi trasformazioni sociali. Si pensi ad esempio ai nessi individuati con il problema del climate change, che alimentano retoriche estremamente attuali. Semplificando, due sono le argomentazioni: la prima è che il modello dell’overwork genera consumi insostenibili (ad esempio cibi confezionati e pasti pronti), la seconda è che un maggior tempo di svago incentiva modelli di consumo con minor impatto ambientale. Analogamente, la riduzione dell’orario comporterebbe una riduzione delle disuguaglianze in generale e di quelle di genere in particolare: per effetto della redistribuzione dei posti di lavoro nel complesso, ma anche abbassando le barriere di ingresso nel mercato del lavoro per chi ha carichi di cura e promuovendo l’impegno maschile nella cura.
La presenza di queste ricadute individuali e collettive (il perché della riduzione) è però profondamente legato al “come”, ovvero al disegno di policy di un intervento legislativo in tal senso. La semplice modalità della sperimentazione attraverso incentivi sporadici alle aziende che attuano la riduzione (presente in alcune delle proposte citate e utilizzata nel noto caso islandese), ad esempio, presuppone implicitamente un contesto economico e una cultura del lavoro che favoriscano pratiche di “contagio” e diffusione. Non è un caso, quindi, che si sia rilevata particolarmente efficace in contesti come quelli dei paesi scandinavi. Il caso italiano presenta invece uno scenario opposto, caratterizzato da un numero di ore lavorate particolarmente elevato e da una diffusa precarizzazione del mercato del lavoro. In questo senso, sarebbe necessario un approccio più comprensivo di riforma delle norme in materia di orario, adatto non tanto ad accompagnare e sostenere un cambiamento in atto, quanto piuttosto di innescare una transizione. Un simile approccio scongiura il rischio che l’intervento (economico) pubblico si limiti a sostenere le realtà che già autonomamente avevano considerato l’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro, alimentando di fatto le differenze. La questione sullo sfondo è infatti quella dell’equità distributiva di un possibile intervento pubblico, e della necessità di scongiurare effetti perversi in termini di disuguaglianze.
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Fonte: Volere la luna
Autore: Sandro Busso
Licenza: Creative Commons (non specificata la versione)
Articolo tratto interamente da Volere la luna
D’estate il turismo di massa soffoca le città europee
Articolo da Basta!
Questo articolo è stato tradotto automaticamente. La traduzione rende il senso dell’articolo, tuttavia consigliamo di leggere il testo originale su Basta!
In Spagna, con l’avvicinarsi dell’alta stagione, in molte città si sono svolte manifestazioni contro il turismo eccessivo, che causa inquinamento, disturbo ed esclusione della gente del posto. La stampa indipendente fa eco a queste questioni scottanti.
Ogni giorno Barcellona accoglie decine di migliaia di turisti. L'anno scorso, 15 milioni di viaggiatori hanno visitato la capitale catalana. “È una delle città al mondo che ha sofferto di più della sovrappopolazione turistica ” , spiega El Salto. E l'aumento dei prezzi delle case non è l'unica conseguenza, spiegano i media.
“L’impronta ecologica di decine di migliaia di voli ogni anno, una crescente domanda d’acqua che aggrava la siccità cronica in Catalogna, il degrado degli spazi naturali o il declino della qualità dei posti di lavoro sono alcune delle conseguenze di un modello pensato per i ricchi visitatori, scrive il giornalista Martín Cúneo. L'espulsione di residenti e imprese dal quartiere da parte di residenti stranieri con forte potere d'acquisto, appartamenti turistici e catene multinazionali – la famosa gentrificazione – è un altro degli effetti denunciati. »
Questo fenomeno non riguarda solo la città catalana. In tutta la Spagna, con l’avvicinarsi dell’estate e quindi della stagione turistica, si sono levate voci contro il turismo eccessivo e le sue conseguenze. elDiario.es si è recato a Palma, sull'isola di Maiorca, dove “il movimento di turisti che vanno e vengono è costante” . E non tutti i visitatori dormono in alloggi legali: almeno il 37,6% delle residenze turistiche viene affittato “illegalmente, senza avere i permessi necessari” .
Risposte diseguali e mancanza di risorse
Per la gente del posto la situazione è diventata “insopportabile” . Un abitante di Palma racconta: “Ho dovuto vendere il mio appartamento, abitavo al decimo piano e ogni giorno nell'ascensore salivano quattro o cinque turisti contemporaneamente. Quindi quando si è rotto, abbiamo dovuto camminare fino in cima. Sul tetto quindici o venti persone facevano festa, giorno e notte. Noi vicini ci siamo scandalizzati, ma altri proprietari hanno preferito continuare ad affittare i loro appartamenti ai turisti. »
Le Isole Baleari hanno poche risorse per combattere questi affitti redditizi ma illegali. “Ogni isola ha i propri funzionari incaricati di impedire ai turisti di affittare appartamenti che dovrebbero andare alla popolazione residente: Maiorca ha 20 ispettori, Ibiza nove, Minorca sette e Formentera aspetta di averne uno”, dicono i media indipendenti in un altro articolo. Ciò equivale a un ispettore ogni 495.000 visitatori, calcola il sito spagnolo.
Il 6 luglio si è svolta una manifestazione a Barcellona, che ha fatto eco alle lotte in altre parti del paese – dalle grandi città alle isole, comprese le zone costiere – per chiedere un cambiamento radicale del modello. Le organizzazioni dietro la mobilitazione chiedono un aumento della tassa di soggiorno, la fine della pubblicità per il turismo di massa o addirittura la limitazione dei permessi per l'alloggio turistico.
Un mese prima, il Comune aveva già annunciato un passo in questa direzione: “Fino a 10.100 appartamenti turistici scadranno le loro licenze entro novembre 2028. Il Comune di Barcellona ha deciso di non rinnovare nessuna di queste licenze dato il grave problema di accesso ai di cui soffre la città ”, ha scritto El Salto.
Ma le risposte variano a seconda della regione. Mentre "il governo andaluso prevede 21,5 milioni di visite nonostante la stanchezza sociale", titolano i media spagnoli, e anche città come Malaga e Cadice si sono ampiamente mobilitate contro il turismo e per il diritto alla casa, la regione non sembra interessata al problema. Al contrario, "Arturo Bernal, ministro andaluso del Turismo, della Cultura e dello Sport, ha dichiarato che "è assurdo attaccare la principale attività economica del nostro territorio", riferendosi al movimento popolare contro la saturazione delle città. »
“Il turismo di massa è diventato un mostro”
Le voci spagnole risuonano con quelle di altri paesi. In Italia Il Manifesto parla dei laghi lombardi e delle loro piene di turisti che “disturbano la vita e il delicato ecosistema dei piccoli centri” . Le auto invadono i villaggi, l’inquinamento, i problemi di gestione dei rifiuti e l’aumento delle microplastiche nelle acque dei laghi si aggiungono all’aumento dei prezzi e ai disagi per la gente del posto. I Comuni perdono residenti. “Così, tra le code per il caffè e quelle per il gelato, le comunità si spopolano e scompare il sentimento della convivenza. »
A marzo il corrispondente europeo del quotidiano britannico The Guardian ha analizzato le strategie delle principali città europee contro l'overtourism. "Il turismo di massa sta distruggendo la nostra città ", Jon Henley dice di aver sentito molte volte. Scrive il giornalista: “È un ritornello che sentiamo nelle città storiche d’Europa, da Praga a Barcellona, da Atene ad Amsterdam. Il turismo di massa, incoraggiato dai consigli comunali affamati di denaro a partire dalla crisi del 2008 e alimentato da voli economici e affitti di camere online, è diventato un mostro.»
Dall'aumento delle tasse di soggiorno ai prezzi fissi per l'ingresso nelle città, passando per la limitazione delle crociere o campagne dissuasive volte a “disturbare” categorie di turisti (come gruppi di giovani venuti a far festa), osservando le modalità più o meno efficaci dei vicini potrebbe dare idee agli spagnoli… e a tutti gli altri.
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Fonte: Basta!
Autore: Emma Bougerol
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Articolo tratto interamente da Basta!
Ancora richiami sulla libertà di espressione in Italia
Articolo da CILD
È stato pubblicato il 24 luglio il Rule Of Law Report 2024 della Commissione Europea, un documento che racconta di quale sia la situazione del rispetto dello Stato di Diritto nell’Unione e nei singoli stati membri e nei paesi candidati.
A questo percorso annuale di revisione aveva partecipato anche la nostra Coalizione, curando il capitolo sull’Italia del Rule of Law Report realizzato dalla Civil Liberties Union for Europe (Liberties), un vero e proprio rapporto ombra che offre uno sguardo indipendente su ciò che avviene in Europa sul terreno dei diritti e delle libertà.
Un rapporto, quello a cui abbiamo collaborato, ampiamente citato nel capitolo sull’Italia del documento della Commissione Europea.
Per quanto riguarda la libertà di espressione, tema di cui CILD da qualche tempo si occupa, quello che emerge è fonte di preoccupazione (peraltro già espressa ed emersa nel Media Pluralism Monitor 2024). In particolare, per quanto riguarda la RAI, la Commissione Europea scrive che “sebbene esistano norme che mirano a garantire che i media del servizio pubblico forniscano un’informazione indipendente e pluralistica, ci sono persistono problemi legati all’efficacia del sistema di governance e di finanziamento”.
Un tema che avevamo già evidenziato in questo articolo, ricordando come la riforma Renzi del 2015 avesse portato ad una modifica della governance con una riduzione del pluralismo e un eccessivo accentramento di poteri nel ruolo dell’Amministratore delegato (di nomina governativa); mentre sul fronte del finanziamento, come la riduzione del canone e l’aumento dei trasferimenti dal governo alla Rai, ne potrebbe minacciare ulteriormente l’indipendenza.
Altro tema sollevato dal Rule of Law Report 2024 è l’accesso alle informazioni giudiziarie da parte dei giornalisti, la cui limitazione pone forti preoccupazioni sulla libertà di informare adeguatamente i cittadini. Inoltre viene segnalato l’immobilismo italiano nell’approvare una legge contro le SLAPP.Queste sono delle azioni legali che puntano a silenziare giornalisti e società civile, scoraggiando in particolare la pubblicazione di inchieste che possano riguardare persone o aziende particolarmente importanti e potenti.
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Fonte: CILD
Autore: Andrea Oleandri
Licenza:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Articolo tratto interamente da Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD)
Etiopia, un conflitto dimenticato
Articolo da Il Caffè Geopolitico
In 3 Sorsi – Il Tigrai vive ancora le conseguenze tragiche della guerra civile contro il Governo di Addis Abeba. Nonostante la pace di Pretoria del 2022, la regione tigrina sembra essere molto lontana dalla stabilità.
1. IL TIGRAI OGGI: QUASI DUE ANNI DOPO IL CONFLITTO
La guerra civile fra la regione etiope del Tigrai e il Governo di
Addis Abeba si è conclusa nel novembre del 2022, ormai due anni fa. La
situazione che vive il Tigrai da allora, tuttavia, è quella di un
territorio devastato dal conflitto, una guerra che ha lasciato
conseguenze importanti dal punto di vista sociale, economico e
umanitario.
Ancora occupata dalle forze armate eritree, schieratesi
durante le ostilità a favore del Governo etiope cappeggiato da Abiy
Ahmed, e responsabili di importanti violazioni dei diritti umani ai
danni della popolazione, il Tigrai fatica oggi a risollevarsi dalle
conseguenze della guerra civile. I combattimenti sul territorio hanno
infatti portato alla distruzione delle più importanti infrastrutture (come quella sanitaria), lasciando gli abitanti in una condizione di povertà e carestia diffusa.
A
peggiorare le già precarie condizioni della regione si sono aggiunte
nuove tensioni scoppiate ad aprile 2024 fra le forze armate del Tigrai e
quelle della regione di Amhara nel distretto di Raya Alamata, che hanno portato a circa 29mila sfollati.
Le ostilità fra le due regioni sono dovute principalmente a una contesa
territoriale del distretto, che prima della guerra civile contro Addis
Abeba era parte integrante della regione tigrina.
2. 2020-2022: LA TRAGEDIA UMANITARIA DELLA GUERRA CIVILE
La guerra del Tigrai è scoppiata nel settembre del 2020, in seguito a una escalation di tensioni con il Governo di Addis Abeba. Il conflitto che ne è derivato è stato catastrofico dal punto di vista umanitario, causando la morte di circa 600mila persone,
e portando a ripetute violazioni dei diritti umani ai danni dei civili.
L’alleanza e la partecipazione dell’Eritrea a favore del Governo
centrale etiope hanno inoltre peggiorato la situazione complessiva della
regione: le truppe di Asmara risultano infatti colpevoli di alcuni
massacri nella regione, fra i quali spicca quello di Zalambessa.
Nonostante
la Pace di Pretoria firmata nel 2022 da Addis Abeba e dal Tigrai, il
quadro di incertezza e di violenza è proseguito. Le truppe eritree, non
contente dell’accordo di pace, mantengono oggi la presenza nel Tigrai, protraendo le violenze sul territorio.
Inoltre, i rapporti fra il Governo centrale e la regione tigrina sono
rimasti tesi e non definiti. Il partito politico del Tigrai, il TPLF
(Tigray People’s Liberation Front), già privato nel 2021 della
possibilità di partecipazione alle elezioni e ufficialmente registrato
come organizzazione terroristica da Addis Abeba, mantiene ancora oggi
rapporti tesi con il Governo centrale. Infatti, nonostante dopo la Pace
di Pretoria non sia stato più considerato come organizzazione
terroristica, il partito principale del Tigrai non è ancora in grado di
partecipare alle elezioni nazionali, sebbene ci siano buone prospettive a riguardo per il futuro.
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Fonte: Il Caffè Geopolitico
Licenza:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
Articolo tratto interamente da Il Caffè Geopolitico
Le cose dei poveri di Marina Ivanovna Cvetaeva
Le cose dei poveri
Le cose dei poveri. Forse la stuoia
è una cosa? Ed è una cosa – quest’asse?
Le cose dei poveri – pelle e ossa,
tutta carne, soltanto angoscia.
Dove le hanno prese? All’aspetto – da lontano,
dal profondo. Non affaticare l’occhio.
Le cose dei poveri – come dal costato:
l’ha ritagliate dal torace.
Lo scaffale? Un caso. L’attaccapanni? Un caso.
Un caso pure – questo fantasma
di poltrona. Cose? No, sterpi e rami secchi –
tutto un bosco d’ottobre per intero.
Timida mobilia della miseria!
Quanto vale tutta insieme? Un niente!
Da tempo cosa – palesemente in cielo!
Guardare te – fa male.
Da te, come dalle piaghe, è difficile
la vista peccaminosa distogliere.
Sedia viennese – ma che c’entra Vienna –
Chi? Quando? – terribile cosa.
Dalla migliore di tutte – qui disonorata
sarebbe – la casa? Macchè! – la soffitta
vostra. Soltanto qui è divenuta cosa
la cosa. Per voi un sopracciglio insorto a punto”?” –
sì, questo. Davanti al cencio importuno, vedovile,
che cosa? – il sopracciglio in su! (come un occhialino –
il sopracciglio!) È bravo a interrogare col sopracciglio
l’occhio. Certe volte anche l’occhio è un – oggetto.
Così, certe volte, è vuoto esso ed è arido –
l’occhio femminile, meraviglioso, grande,
tanto che – paragonate! – sembra spirito –
la tinozza , il catino col turchinetto – anima.
Alla pari col catino e col setaccio.
Sì – al re! Sì – in tribunale!
Ognuno, qui chiamato poeta,
quest’occhio ha conosciuto su di sé!
Della miseria – timida masserizie!
Ogni coltello – conosciuto di persona.
Come una creatura – che aspetta il mattino,
con qualcosa qui – con tutto fuori della finestra –
quella vuota, quella che dà – sui sobborghi –
quelli – hai letto la cronaca dei furti?
Cose della pulizia e dell’onore
segno di riconoscimento: non le accettano come bagaglio.
Perché è debole nelle giunture,
perché va in pezzi sotto gli occhi,
perché su cento carri
non si potrebbe trasportare…
in lacrime –
perché non è un tavolo, ma marito,
figlio. Non un armadio, ma il nostro
armadio.
Perché i cuori e le anime
non si danno al deposito bagagli.
Le cose dei poveri – più scipite e più secche:
più scipite del tiglio, più secche dei ceppi.
Le cose dei poveri – semplicemente – anime,
e per questo bruciano così facile.
Marina Ivanovna Cvetaeva
Paesaggio Estivo di Antonio Machado
Paesaggio Estivo
Antonio Machado
Coloro che non imparano niente dai fatti sgradevoli...
Carl Gustav Jung
La maggior parte della popolazione...
“La maggior parte della popolazione non è molto intelligente, teme le responsabilità e non desidera niente di meglio che sentirsi dire cosa fare. A patto che i governanti non interferiscano con i loro comfort materiali e le credenze a loro care, è perfettamente felice di lasciarsi governare.”
Aldous Huxley
giovedì 25 luglio 2024
La causa palestinese
"La causa palestinese non è una causa solo per i palestinesi, ma una causa per ogni rivoluzionario, ovunque si trovi, come causa delle masse sfruttate e oppresse della nostra epoca."
Ghassan Kanafani
Ci sono cose che non smetteresti mai di guardare...
Le proteste degli studenti in Bangladesh
Articolo da Transform! Italia
La repressione del governo e gli attacchi da parte dei sostenitori del partito al potere hanno innescato una delle più grandi proteste contro la prima ministra Sheikh Hasina Wazed. Così le proteste pacifiche contro un controverso sistema di quote per i candidati a posti di lavoro governativi si sono trasformate in disordini a livello nazionale, con la richiesta di ritenere il governo responsabile della morte di almeno 150 persone, di migliaia di feriti e di centinaia di incarcerati. Gli scontri hanno fatto seguito a proteste violente simili prima delle elezioni nazionali di gennaio da parte degli oppositori di Hasina in risposta a quello che hanno definito il suo governo autoritario, e da parte dei lavoratori dell’industria tessile che chiedevano una retribuzione migliore in un contesto di elevata inflazione.
Domenica 21 luglio, dopo settimane (dal 5 giugno) di proteste pacifiche degenerate in violenza nella scorsa settimana, la Corte Suprema ha abolito la maggior parte delle quote (le ha ridotte, ma non le abolite), affermando che il 93% dei posti di lavoro pubblici saranno ora basati sul merito. Per diverse settimane studenti e persone comuni hanno protestato contro un sistema che prevedeva che più del 50% dei posti di lavoro pubblici fossero riservati a determinate categorie (figli e nipoti dei combattenti per l’indipendenza, 30%; donne, 10%; persone residenti nei distretti poveri, 10%; minoranze etniche, 5%; persone disabili, 1%), lasciando circa 3mila posti per i quali concorrono all’esame di servizio civile 400mila laureati, in questo paese dell’Asia meridionale di 170 milioni di abitanti dove la crescita dell’occupazione è stagnante (circa un quinto degli abitanti è senza lavoro o istruzione) e il costo della vita è aumentato vertiginosamente dopo la pandemia di CoVid-19. Gli impieghi nel settore pubblico sono ambiti perché sicuri e ben remunerati, in un paese dove la disoccupazione è dilagante, con il 40% dei giovani che non lavora né frequenta l’università. Il Bangladesh è una delle economie in più rapida crescita al mondo (con una media del 6% dal 2009), ma tale crescita non si è tradotta in posti di lavoro per i giovani laureati (800mila sono i neolaureati senza lavoro, mentre l’industria principale del paese è quella dell’abbigliamento per l’export1). Le stime suggeriscono che circa 18 milioni di giovani bengalesi sono in cerca di lavoro. I laureati si trovano ad affrontare tassi di disoccupazione più elevati rispetto ai loro coetanei meno istruiti. Inoltre, l’inflazione è intorno al 9,7 per cento, le riserve estere sono diminuite e il debito del paese è molto cresciuto: il Bangladesh si è indebitato soprattutto con la Cina per la costruzione di infrastrutture nell’ambito della Belt and Road Initiative (BRI) e nel gennaio dello scorso anno si è assicurato un piano di salvataggio di 4,7 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale dopo aver faticato a pagare le importazioni di energia, che hanno tagliato le sue riserve di dollari e alimentato l’inflazione. Un paese fragile, in gran parte sotto il livello del mare che molto spesso deve affrontare enormi disastri naturali2.
In particolare, le proteste sono scoppiate dopo il 5 giugno, quando l’Alta Corte aveva ordinato il ripristino della quota del 30% per i discendenti dei veterani che parteciparono alla guerra d’indipendenza dal Pakistan nel 1971. I manifestanti avevano chiesto l’abolizione di questa quota del 30%, sostenendo che favoriva gli alleati del partito al governo Awami League, che ha guidato il movimento indipendentista contro il Pakistan3. La Corte Suprema ha ordinato che la quota per i discendenti dei veterani sia ridotta al 5%, con il 93% dei posti di lavoro da assegnare in base al merito. Il restante 2% sarà riservato ai membri delle minoranze etniche, ai transgender e ai disabili4.
I leader studenteschi responsabili dell’organizzazione delle proteste hanno accolto con favore la decisione della Corte Suprema e lunedì le strade di Dhaka sono sembrate calme, ma hanno deciso di proseguire con le manifestazioni fino a quando le loro richieste chiave non saranno soddisfatte, compreso il rilascio delle persone incarcerate e le dimissioni dei funzionari responsabili delle violenze, tra cui il ministro degli Interni Asaduzzaman Khan, che secondo loro sono responsabili della violenza che ha causato la morte di almeno 150 persone5, mentre le autorità hanno detto che circa 300 agenti di polizia sono rimasti feriti.
Più del 70% dei decessi sono stati segnalati nella capitale Dhaka (megalopoli di 20 milioni di abitanti), dove le strade sono state disseminate per giorni dei resti di migliaia di colpi di gas lacrimogeni, granate assordanti, pallini di fucile, proiettili di gomma e pezzi di mattoni. A parte due poliziotti e due sostenitori del partito al potere (Awami League), tutti i deceduti sono studenti o persone comuni. I manifestanti hanno combattuto per giorni contro proiettili di gomma e veri con sassi, canne di bambù e pezzi di mattoni. Non c’erano solo poliziotti, ma dal lunedì 15 luglio anche persone legate al partito al potere e attivisti della Bangladesh Chhatra League, l’ala studentesca del partito Awami League del primo ministro Sheikh Hasina, che indossavano elmetti, avevano spranghe di ferro e sparavano proiettili veri contro di loro. Anche alcuni leader dell’opposizione si sono uniti alle proteste e hanno commesso atti di “vandalismo“, ma la caratterizzazione politica dei manifestanti da parte del governo è stata fuorviante: questa è stata una protesta della gente comune che è via via diventato un “movimento popolare molto più ampio” in un contesto di accuse di corruzione, mancanza di responsabilità, disuguaglianze crescenti e aumento del costo della vita.
È stato giovedì 18 luglio che la tensione è esplosa in una violenza mortale e gli attivisti hanno accusato la polizia di usare “forza illegale”. Migliaia di studenti si sono scontrati con la polizia armata a Dhaka. Durante gli scontri sono rimaste uccise 11 persone, tra cui un autista di autobus e uno studente, hanno riferito fonti della polizia. Ma l’agenzia di stampa AFP ha riferito che 39 persone sono state uccise nella scorsa settimana, 32 solo giovedì. I media locali hanno riferito che almeno 28 persone sono state uccise giovedì. Venerdì la violenza è continuata sotto il blocco totale di Internet e sono state uccise almeno 50 persone.
Con l’escalation della violenza, il governo ha imposto un coprifuoco e ordini di sparare a vista a partire da venerdì 19 luglio a mezzanotte per un periodo indefinito (rendendo di fatto illegale qualsiasi raduno di manifestanti), con intervalli intermittenti di due ore in modo che le persone potessero fare scorta di beni di prima necessità. Il giorno precedente aveva anche completamente bloccato Internet, portando a un blackout delle informazioni e all’interruzione della vita normale. Anche le attività economiche sono state completamente bloccate. La dogana del porto di Chattogram – che gestisce oltre l’80% delle esportazioni e importazioni del paese – non è stata in grado di sdoganare alcun container per cinque giorni. Dalla scorsa settimana le università sono rimaste chiuse (seppure occupate dagli studenti) e il Bangladesh è stato tagliato fuori dal mondo esterno a causa del blocco delle comunicazioni. La violenza ha continuato ad aumentare mentre la polizia ha utilizzato gas lacrimogeni, sparato proiettili di gomma e lanciato granate fumogene per disperdere i manifestanti che lanciavano pietre. Il governo ha anche schierato l’esercito per evitare che la violenza si diffondesse tra le accuse di uso eccessivo della forza da parte della polizia contro i manifestanti. Sabato i soldati sono stati visti pattugliare diversi punti centrali della città e altri quartieri. La dura repressione ha alimentato ancora più rabbia nei confronti del governo, spingendo i manifestanti ad andare oltre la richiesta di riforma delle quote per chiedere le dimissioni del governo. E hanno lanciato la Bangla blocade, un’iniziativa per paralizzare il paese bloccando autostrade, reti ferroviarie e quartieri all’interno delle città.
Sfidando il coprifuoco, migliaia di manifestanti, studenti e non, sono scesi in piazza sabato con cortei, bloccando strade e autostrade e dando fuoco a pneumatici e assi di legno in tutto il paese (in almeno 47 dei 64 distretti) e in diverse parti della capitale. A questo punto, la protesta non era più confinata tra gli studenti poiché la gente comune si è unita a loro spontaneamente da Mirpur a Dhaka. Poiché c’è rabbia repressa tra la gente comune sotto il regime autocratico di Sheikh Hasina, le persone hanno preso queste proteste guidate dagli studenti come una piattaforma per esprimere la loro insoddisfazione.
Fonte: Transform! Italia
Autore: Alessandro Scassellati
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Articolo tratto interamente da Transform! Italia