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Il disastro della Val di Stava fu un'inondazione di fango che si verificò il 19 luglio 1985 nella val di Stava in Trentino e provocò la morte di 268 persone. L'inondazione fu causata dal cedimento degli argini dei bacini di decantazione della miniera di Prestavel, che causò la fuoriuscita e discesa a valle di circa 180000 m³ di fango, che travolsero violentemente l'abitato di Stava, nel comune di Tesero. È stata una delle più grandi tragedie industriali della storia italiana.
La miniera di Prestavel
La miniera di Prestavel è situata sulle pendici meridionali dell'omonimo monte, nel massiccio di Santa, sovrastante la valle di Stava. Venne sfruttata in modo saltuario fin dal XVI secolo per la produzione di galena argentifera. Nel 1934 venne accertato l'interesse estrattivo di alcuni filoni di fluorite, minerale utile in ambito siderurgico, nell'ottica, nella produzione di ceramica e particolarmente nell'industria chimica. La miniera fu gestita dopo la seconda guerra mondiale e fino al 1966 dal Gruppo Montecatini, poi diventato Montedison, dopodiché subentrarono i gruppi EGAM ed Eni. Dal 1980 al 1985 fu gestita dalla società Prealpi mineraria.[2]
L'estrazione di fluorite avveniva col metodo di flottazione, che consentiva di ottenere il minerale con un altissimo grado di purezza: l'escavato veniva dapprima macinato e quindi "lavato" con acqua e altre sostanze, così da separare il minerale dallo scarto, che veniva ridotto a una fanghiglia molto lenta (95% di acqua), il cui smaltimento avveniva tipicamente attraverso un procedimento di decantazione, da attuare in un apposito bacino; progressivamente il sedimento si depositava sul fondo e l'acqua "ripulita" poteva essere scaricata a valle[3].
I bacini di decantazione
Per poter meglio effettuare quest'ultima parte del procedimento, nel 1961 la Montecatini comprò alcuni terreni pubblici e privati al di sopra dell'abitato di Stava, in località Pozzole, a 400 metri dalla miniera, sui quali chiese e ottenne di poter creare una "discarica", ovvero un bacino di decantazione alimentato captando l'acqua del torrente Stava. La Forestale e il Genio Civile diedero il via libera: l'argine di tale bacino, dai progetti iniziali, si sarebbe dovuto limitare a un terrapieno di 9 m, così da non costituire una diga (che per le leggi italiane del tempo era tale solo se alta almeno 10 m) e non dover quindi sottostare ai relativi requisiti costruttivi e di sicurezza[3].
L'installazione del bacino presentò fin da subito elementi di criticità: il terreno era infatti acquitrinoso, presentava una pendenza media del 25% ed era pericolosamente vicino ad aree abitate (lontane appena 800 metri in linea d'aria e 150 metri a livello di quota). Nondimeno, poiché il terrapieno non era legalmente qualificato come diga, il bacino non fu mappato né al catasto, né nei piani urbanistici, ove la zona di Pozzole era registrata come "area agricola di interesse secondario"[3].
Questa ambiguità permise inoltre di effettuare innalzamenti dell'argine senza dover rispettare particolari requisiti e permessi: ciò si rese necessario poiché i 9 m iniziali, al ritmo con cui veniva sfruttata la miniera (e complice il fatto che vi venivano sversati residui provenienti anche da altri siti estrattivi sprovvisti di proprie discariche), si riempirono nel giro di meno di 3 anni. Al rilevato furono quindi aggiunti altri strati, fino a superare i 25 m entro il 1971, anno in cui ci si rese conto di essere arrivati ai limiti[3][4].
Fin dal 1969 la Fluormine (società del gruppo Montedison che gestiva la miniera) iniziò quindi a creare un secondo bacino di decantazione, impostandone l'argine di base a monte del primo bacino, senza ancoraggio e senza drenaggi[4]; cinque anni dopo, nel 1974, l'allora sindaco di Tesero, Giuseppe Zanon, espresse le proprie perplessità al distretto minerario della Provincia di Trento, che dispose l'effettuazione di una verifica di stabilità, la quale fu però affidata alla stessa Fluormine[3].
Come accertato successivamente, la verifica (eseguita nel 1975) fu fatta in modo superficiale, ma la perizia del tecnico incaricato trovò ugualmente che la pendenza dell'argine del bacino superiore fosse «eccezionale» e la stabilità fosse quindi «al limite»[5]; la società concessionaria comunque rassicurò il Distretto minerario, che riportò al Comune la fattibilità dell'ampliamento «con le dovute cautele». Di fatto si procedette unicamente a ridurre la pendenza dell'argine, il cui accrescimento fu comunque ragguardevole: nel complesso, tra bacino inferiore e superiore, si arrivò a superare i 50 m di sbarramento, con un contenuto di materiale fino a 300 000 m³. Nuovamente, a tutto ciò non fece riscontro alcuna adeguata mappatura del sito di decantazione[3][4].
I bacini rimasero in uso ininterrottamente fino al 1978, poi non furono più alimentati fino al 1982, quando riprese lo sversamento di fanghi sia da Prestavel che da miniere di altre località[4].
I primi cedimenti
Nel gennaio 1985 una delle condutture che drenavano l'acqua dal bacino superiore, sepolta sotto uno spesso strato di sedimenti, cedette per il peso eccessivo e iniziò a perdere acqua; ciò, unito all'ulteriore rottura (causata dal freddo) di un tubo che collegava i due bacini, creò un accumulo di liquido alla base dell'argine superiore, che finì per provocare una piccola frana. Poco dopo, a maggio, si ruppe un tubo che correva sotto l'argine inferiore, creando una sorta di voragine che iniziò a fare da "scarico"; i tecnici manutentori intervennero tappando il buco con cemento e sabbia[3].
La catastrofe
Alle ore 12:22:55 del 19 luglio 1985 l'argine del bacino superiore cedette e crollò sul bacino inferiore, che cedette a sua volta. La massa fangosa composta da 180 000 m³ di sabbia, limo e acqua scese a valle a una velocità di quasi 90 chilometri orari spazzando via persone, alberi, abitazioni e tutto quanto incontrò fino a che non raggiunse la confluenza con il torrente Avisio; l'ondata lasciò dietro di sé una coltre di fango spessa da 20 a 40 cm, coprente un'area di 435.000 m² circa, per una lunghezza di 4,2 km. Poche fra le persone investite sopravvissero.
I soccorsi furono immediati ed efficienti ma pochissimi furono i feriti e le persone estratte vive dalle macerie: la violenza e la velocità della colata di fango non avevano concesso scampo. 267 morirono sul colpo e solo una ragazza estratta ancora in vita dalle macerie di uno degli alberghi di Stava sopravvisse per pochi giorni.
Il numero esatto dei morti del disastro di Stava fu accertato solo un anno dopo la catastrofe. Molte salme infatti non poterono essere riconosciute e fu quindi necessario ricorrere alla dichiarazione di morte presunta. Il tempo di attesa, richiesto per consentire tale dichiarazione (normalmente di 5 anni, a partire da prima dichiarazione di scomparsa) fu in questo caso ridotto con decreto legge a 1 anno[6]. Nel primo anno successivo alla catastrofe il numero delle vittime fu quindi stimato in quello delle salme riconosciute (197) più quello delle dichiarazioni di scomparsa (72), cioè 269. Un anno dopo il disastro fu possibile avere il numero esatto delle dichiarazioni di morte presunta, che risultarono essere 71. Da questo elenco venne infatti depennata la dichiarazione di scomparsa di un cittadino francese del quale non fu poi dichiarata la morte presunta.
I corpi delle vittime della val di Stava furono tutti recuperati grazie all'impegno di migliaia di soccorritori che lavorarono per più di tre settimane lungo la val di Stava e lungo il torrente Avisio fino al bacino idroelettrico di Stramentizzo. A causa di tale circostanza non tutti poterono essere riconosciuti. In seguito al disastro molte vittime furono riportate ai luoghi di origine, in 64 diversi cimiteri d'Italia. I 71 per i quali non fu possibile il riconoscimento rimasero a Tesero, nel cimitero monumentale delle vittime della val di Stava adiacente alla chiesa di San Leonardo.
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