Articolo da La Città Futura
Non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che solo “il manifesto”
abbia dato notizia della pubblicazione nel 2016 dell’importante libro
del biologo evolutivo statunitense Rob Wallace intitolato Big Farms Make Big Flu
(“Grandi fattorie producono grandi malattie”), cui è seguita l’edizione
in spagnolo nel 2020. Se così fosse, sarebbe un’ulteriore conferma
dell’approccio semplicistico e interessato con cui i paesi a capitalismo
avanzato intendono far fronte all’attuale pandemia, sorta
successivamente all’emergenza di altre pandemie non meno pericolose ma
che hanno toccato meno i nostri paesi. Ricordiamo che negli ultimi 20 si
sono registrate 4 pandemie, alcune non ancora spente; del resto, il
cosiddetto virus della spagnola (in realtà “americana” come tutte le
cose buone) è ancora circolante.
Rob Wallace insegna nell’Università del Minnesota e da circa 25 anni studia le relazioni tra il modello produttivo capitalistico e l’insorgere di nuovi agenti patogeni.
Un argomento che dovrebbe essere al centro del nostro interesse, ma che
viene accantonato perché ci si vuole convincere che i vaccini – solo
quelli ammessi e scelti sulla base di precisi interessi politici ed
economici – sono la panacea delle pandemie, nonostante la loro effettiva
protezione, i loro possibili effetti dannosi, il loro funzionamento
presentino ancora tanti buchi neri su cui far luce. Inoltre, bisogna
aggiungere che le scienze mediche hanno sviluppato il concetto di iatrogenesi
per confrontarsi con gli eventuali danni indesiderati provocati dai
farmaci o dagli interventi medici. Ma di questi tempi di iatrogenesi è
meglio non parlare.
Toccando
questi temi oggi cruciali il libro di Wallace chiama direttamente in
causa le grandi corporazioni le quali, avendo spodestato ovunque i
piccoli agricoltori con la loro feroce concorrenza, dominano la
produzione del cibo di cui ci nutriamo e la sua commercializzazione in
ogni parte del globo. Aggiungo: fornendoci cibo insapore e di cattiva
qualità che peggiora le condizioni del nostro organismo e ci rende
ancora più esposti agli attacchi degli agenti patogeni, favorendo per
esempio l’insorgere dell’obesità.
Andando
più nello specifico e approfondendo questo legame tra affezioni
dell’organismo e ambiente circostante, come fa notare Ernesto Burgio,
sarebbe più opportuno definire questi fenomeni sindemia. Si tratta di una nozione coniata da un antropologo medico, Merrill Singer, negli anni ’90, con la quale si intende “indicare
tutta una serie di condizioni morbose “concomitanti” – con particolare
riferimento alle “malattie non trasmissibili”, quali in primis affezioni
cardiocircolatorie e tumori –, nonché un insieme di situazioni e variabili “socio-economiche” (densità demografica, livello di istruzione, indice di povertà etc.) e “climatologico-ambientali”
(cambiamenti climatici, riscaldamento globale, deforestazione,
desertificazione etc.)”. Tutti aspetti che dovrebbero essere tenuti in
conto “ai fini di una corretta lettura e interpretazione dei dati
relativi all’andamento e all’evoluzione di qualsivoglia “malattia
infettiva”, a maggior ragione ove la stessa assumesse una diffusione
globale, come nel caso della “pandemia da Srs-CoV-2”.
Sullo
sfondo della riflessione di Rob Wallace sta proprio questo principio
fondamentale, richiamato da altri biologi marxisti e che può essere
espresso anche con queste parole: noi viviamo in un complesso ecosistema
all’interno del quale sin dai primordi abbiamo interagito col mondo
naturale, trasformandolo, e nello stesso tempo quest’ultimo opera su di
noi modificando le capacità del nostro organismo di reagire agli input a
esso esterni, ma interni al suo modo di vivere.
Insomma, la vicenda umana è costituita dalla storia dei diversi sistemi
di relazioni che abbiamo stabilito con la natura; sistemi che
ovviamente sono mediati dai rapporti che gli esseri umani stabiliscono
tra di loro nei diversi contesti storici e sociali.
In questa prospettiva, la natura non costituisce un elemento esterno
alla storia umana, giacché essa fa pienamente parte dei sistemi sociali e
ha subito un lunghissimo processo di addomesticamento (il nostro grano è
assai diverso da quello usato dagli uomini preistorici). Ne consegue
che anche le malattie non sono un fenomeno esclusivamente
naturale, hanno indubbiamente anche un carattere sociale, in quanto
dipendono dall’intervento umano sulla natura,
sono poi correlate al diverso tipo di attività lavorative che svolgiamo
(per questo esiste, per esempio, la medicina del lavoro), alle nostre
abitudini alimentari, alle nostre scelte culturali, oltre che a fattori
genetici etc.
A questo
punto vorrei citare un passo di Karl Marx e non per richiamarmi a una
sorta il principio di autorità, di cui si sente il bisogno per dare un
fondamento solido al proprio ragionamento, ma perché quanto ha scritto
ci aiuta a comprendere la questione della relazione tra dimensione ecologica e dimensione economico-sociale.
Queste sono le celebri parole del Moro: “… il lavoro è un processo che
si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della
propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico
fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le
potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto
le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe,
mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma
usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura
fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua
propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il
giuoco delle loro forze al proprio potere”.
Secondo Tiziano Bagarolo
“Il concetto di «ricambio organico» è di straordinaria modernità; esso
equivale all’idea di metabolismo della natura, fatto di cicli di materia
e di flussi di energia, sostrato delle mutue relazioni fra le specie e
fra esse e ambiente circostante, quale è proprio della moderna
ecologia”. Inoltre, tale nozione mostra che Marx non era affatto
insensibile ai temi ecologici [1].
Se
questo discorso poteva valere per le forme più primitive di economia, è
ancora più fondato nella situazione attuale, nella quale gli spazi
selvaggi della natura si stanno riducendo vistosamente, in cui gli umani
in 50 anni hanno provocato la scomparsa di 50 specie animali, in cui
gli animali selvatici rappresentano solo il 4% degli esseri viventi,
quelli allevati il 60%, senza parlare poi di tutti i complessi problemi
ecologici che prefigurano un possibile esito catastrofico. L’espansione
economica sempre più intensa a partire dagli albori dell’industrialismo
e il conseguente incremento demografico prima generalizzato, ora
concentrato nel Sud Globale, hanno fatto sì che i limiti della biosfera
siano stati ampiamente superati e che l’equilibrio tra il cosiddetto
ricambio organico si sia spezzato,
lasciandoci impotenti dinanzi alle conseguenze inattese scatenate da
questi fenomeni grandiosi e terribili, tra i quali dobbiamo annoverare
la febbrile attività del cosiddetto Big Food. Quest’ultimo ha il suo confratello nel conglomerato della Big Pharma.
Wallace
collega la diffusione di nuovi patogeni, provenienti dal mondo naturale,
che possono colpire in maniera anche grave gli umani, al cosiddetto “salto di specie”, il quale diventa possibile in certe condizioni artificialmente create
e che concernono sia il mondo animale che quello vegetale. Ma quali
sono queste condizioni che innescano quegli malefici circuiti attraverso
i quali si muovono i patogeni sino a diventare pandemici grazie alla
velocità degli spostamenti resa possibile negli ultimi decenni?
I fenomeni in questione sono l’agricoltura intensiva e la deforestazione,
entrambe risultato della volontà da parte degli investitori di
accumulare sempre maggiori profitti. L’agricoltura intensiva non
riguarda solo l’allevamento degli animali
(in particolare polli e maiali, ma anche i salmoni), costretti a vivere
in terribili condizioni igieniche, a mangiare tutto il tempo, chiusi in
piccole gabbie, nutrendosi al contempo dei loro stessi escrementi e
quotidianamente curati con antibiotici in modo che non si infettino
mettendo così a rischio i futuri guadagni. È ormai noto che quando gli
animali da allevamento ricevono una grande quantità di antibiotici, è
plausibile l’insorgere di batteri resistenti che restano presenti nella
carne cruda e che possono finire sulla nostra tavola, alterando la
qualità del nostro cibo e impedendoci di difenderci da essi.