Articolo da Valigia Blu
Uno degli effetti di questo lungo periodo di emergenza è l’entrata
nel lessico quotidiano di termini che hanno a che fare con la salute
psicologica, l’espressione delle emozioni, i disturbi mentali. La
preoccupazione per l’impatto psicologico della pandemia e delle
emergenze da essa scaturite (sanitaria, economica, educativa, sociale)
ha portato nella prima ondata a dare vita a iniziative talvolta
estemporanee di comunicazione, di ricerca o di intervento che non si
sono ripetute con la stessa assiduità nella seconda ondata.
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Non è neppure mancato il linguaggio consueto fatto di allarmi e
stigma che, se da un lato strumentalizzava il disagio psicologico allo
scopo di raccogliere attenzioni pubbliche o politiche, dall’altro
continuava a contrastarne la legittimità, rendendo sempre più invisibile
chi già da prima della pandemia affronta condizioni neuropsicologiche o
psichiatriche. Questo meccanismo ha messo anche nell’ombra il lavoro
eccezionale dei – troppo pochi - servizi di psicologia del nostro
sistema sanitario nazionale che hanno saputo adattarsi ai nuovi bisogni
di cura.
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«Sia nella prima che nella seconda ondata abbiamo attivato percorsi
orientati ai pazienti COVID-19, ai familiari e agli operatori», ha
raccontato a Valigia Blu Elena Vegni, Professore Ordinario di
Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Scienze della Salute
dell’Università degli Studi di Milano e direttrice dell’Unità Operativa
Complessa di Psicologia Clinica dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano.
«Compito essenziale degli psicologi in ospedale è anche curare chi
cura», ha aggiunto Giulia Lamiani, ricercatrice in Psicologia Clinica
del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di
Milano e consulente dell’Unità Operativa Complessa di Psicologia Clinica
dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano. Entrambe le strutture
dell’ASST sono diventate ospedali COVID-19.
Vegni e Lamiani hanno anche partecipato al gruppo di lavoro multidisciplinare che ha definito
le indicazioni e le checklist per assicurare una modalità strutturata
di comunicazione tra operatori sanitari e familiari dei pazienti in
isolamento, seguendo il principio “che il tempo dedicato alla
comunicazione deve essere inteso come un momento di cura”.
Con loro abbiamo ripercorso l’esperienza clinica e di ricerca per
fare anche il punto sull’impatto psicologico della pandemia di
SARS-CoV-2 sulle persone che si sono ammalate di COVID-19, sui loro
familiari, sugli operatori sanitari e sulla popolazione generale.
«Nella prima ondata, la scelta degli interventi da attuare, ad
esempio l’introduzione dei dispositivi digitali nei reparti, era
derivata da una percezione clinica e aveva coinvolto i pazienti in
ospedale, i loro familiari e gli operatori sanitari (medici, infermieri,
OSS). Tra le due ondate sono stati condotti i controlli medici e
psicologici per i pazienti dimessi e sono state aperte le altre attività
ambulatoriali che erano sospese da marzo. La seconda ondata è stata più
intensa perché sono stati riattivati i percorsi per i pazienti
COVID-19, per i familiari e per gli operatori oltre al mantenimento
delle attività per i pazienti con altre condizioni. Questa seconda
ondata è stata più complessa in termini logistici, basti pensare ai
cambi di vestizione per recarsi dai pazienti COVID-19 a quelli non
COVID-19 (cardiologici, oncologici, ecc.)», riassume la professoressa
Vegni . «Ma gli interventi ora si basano sull’esperienza di lavoro».
I pazienti COVID-19 e le sequele psicologiche
In una recente revisione delle manifestazioni psichiatriche e
neuropsichiatriche associate alle gravi infezioni da coronavirus che ha
preso in considerazione la SARS esordita nel 2002, la MERS del 2012 e
l’attuale COVID-19, Jonathan Rogers e collaboratori concludono che “se
l'infezione da SARS-CoV-2 segue un decorso simile a quello da SARS-CoV o
da MERS-CoV, la maggior parte dei pazienti dovrebbe guarire senza
soffrire di malattie mentali. SARS-CoV-2 causa delirium in una
percentuale significativa di pazienti nella fase acuta”. Secondo gli
autori, tuttavia, i medici devono essere consapevoli del rischio che a
lungo termine le persone che si sono ammalate di COVID-19 possano
manifestare depressione, ansia, affaticamento, disturbo post-traumatico
da stress e sindromi neuropsichiatriche più rare.
In una lettera alla rivista Psychological Medicine, il gruppo di lavoro sulla neurologia e la neuropsichiatria della COVID-19 che aggiorna, attraverso il blog dedicato,
tutte le nuove pubblicazioni sul tema, chiarisce che, al momento, è
difficile accertare una relazione causale tra la gravità della COVID-19 e
lo sviluppo del disturbo post-traumatico. In questa fase è necessario
identificare i potenziali fattori di rischio, per individuare i pazienti
più vulnerabili e intervenire tempestivamente. Secondo James Badenoch e
gli altri autori della lettera, finora, sono stati ipotizzati diversi
meccanismi per spiegare come insorga il disturbo post-traumatico nei
pazienti con COVID-19: “I fattori biologici e ambientali possono
svolgere un ruolo, anche nei casi di COVID-19 lieve o moderata”.
Inoltre, diversi studi stanno dimostrando “che il disturbo
post-traumatico da stress può essere una complicazione del delirium” che
ha un’alta prevalenza nei pazienti COVID-19, non solo in quelli
ricoverati in terapia intensiva. Sarà, quindi, da studiare se “il
delirium è associato a una maggiore probabilità di trauma psicologico a
lungo termine nel contesto specifico della COVID-19”.
La professoressa Vegni conferma che «i pazienti che escono
dall’esperienza medica Covid continuano i controlli psicologici, e
talvolta anche in seguito ad un ricovero non complicato, non solo dopo
aver affrontato le condizioni più gravi, presentano una sintomatologia
di tipo post-traumatico». Nella prima ondata le modalità stesse del
ricovero e il distacco dai familiari «sono stati avvertiti come
irrealtà», che ha riguardato anche «l’elaborazione di lutti complicati:
persone ricoverate alle quali moriva un congiunto ammalato».
«Noi c’eravamo» ricorda Vegni, con le persone che guarivano e con le
tante che non ce l’hanno fatta: «Le persone non sono morte da sole,
potevano contare sullo sguardo di un soggetto vicariante». Nella seconda
ondata, continua, «c’è stata una sorta di normalizzazione: come se
fosse dato per scontato che chi muore di COVID-19 muore drammaticamente
senza i propri familiari. Si incontra di più la rabbia, la rassegnazione
anticipatoria».
Sia nella prima che nella seconda ondata è apparso chiaro quanto
l’attività in presenza, nelle camere di degenza, diventasse «mandatoria o
addirittura psicologicamente irrinunciabile perché il paziente si
confronta con la paura di morire e il totale isolamento. C’è bisogno di
una presenza, anche se questa modalità di interazione è complicata e
faticosa perché si è bardati. Il paziente altrimenti rimane da solo per
tutto il giorno e per tanti giorni, in alcuni casi con il casco in
testa, e questo è destruente». Anche il passaggio di documenti
all’interno della stanza di degenza per autorizzare una procedura medica
avviene con tutte le cautele e le distanze, a rendere ancora più
incombente la sensazione di pericolo.
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Fonte: Valigia Blu
Autore: Tiziana Metitieri
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Articolo tratto interamente da Valigia Blu