Le diseguaglianze non sono in quarantena
“Siamo tutti sulla stessa barca”. La
pandemia del coronavirus è spesso trattata come un mostro cieco e sordo,
che non fa differenza di sesso, colore e classe sociale.
Niente di più falso. L’accesso
alla sanità privata e la possibilità di vivere la quarantena imposta in
case su tre piani per due persone e ville con piscina, la possibilità di
essere rassicurati giornalmente da un medico che risponde a ogni nostra
chiamata non è un privilegio universale, e soprattutto fa emergere
contraddizioni preesistenti che sfruttano la quarantena per esplodere.
“Andrà tutto bene”, “ci siamo dentro insieme”.
Approfondendo, anche le
preoccupazioni e i pensieri costanti durante questa emergenza sanitaria
sono diverse e emblematiche: la maggior parte delle famiglie italiane
percepisce la paura di non poter pagare l’affitto, le bollette, la
spesa, i libri di scuola ai propri figli quando si tornerà alla vita
normale, come più forte della paura del contagio. Per tante lavoratrici e
tanti lavoratori, a tutto questo si affianca proprio la paura di andare
a lavoro, per questo fin da subito abbiamo preteso la chiusura di tutte
le attività non essenziali, ottenuta infine dai sindacati dei
lavoratori nonostante le resistenze di Confindustria e di una parte
della maggioranza. Intanto però, nelle aree più colpite dal virus, in
cui i contagi tra chi lavora nei servizi essenziali continuano a
crescere, a chi è ancora sano vengono imposti turni massacranti: è il
caso non solo di chi lavora nella sanità, ma anche di chi tiene aperti i
supermercati, di chi garantisce i trasporti…
Si chiede a gran voce un ritorno alla normalità, ma siamo sicuri di aver bene in mente la “normalità”?
Si auspica il ritorno ad un’Italia
con più di 5 milioni di persone in povertà assoluta, in cui muoiono 3
persone al giorno sul posto di lavoro, con la convinzione che la paura
di rimanere senza cibo o senza tetto siano causate dall’emergenza e non siano in effetti l’emergenza stessa, quella che però resta costante.
Stessa normalità nella quale è
stato “normale” e “fondamentale” tagliare 37 miliardi negli ultimi anni
alla sanità, continuando ad attingere ai fondi per la ricerca e la
formazione come fossero fondi illimitati, come se si trattasse di
soprattutto settori trascurabili, e non, come l’emergenza ha dimostrato,
di importanza nazionale.
Il numero crescente di morti
viene quindi presentato esclusivamente come una conseguenza del virus,
quando è evidente come sia anche la conseguenza di trent’anni di
politiche sbagliate.
In questa quarantena ci stiamo
rendendo conto dell’importanza di una casa, di un tetto, per la
differenza che comporta passare un mese chiuso in 30 metri quadri e in
100, di che portata fossero realmente i tagli alla sanità e alla ricerca
che in questi anni abbiamo sentito nominare, facendo spesso l’errore di
immaginarli lontani e astratti; ci stiamo rendendo conto di quanto la
socialità sia importante e di quanto l’isolamento porti a conseguenze
sociali, economiche e psicologiche devastanti e di come sia necessario,
ora più che mai, essere comunità e provare a immaginare un paese diverso
e con meno disuguaglianze, un paese in cui gli investimenti strategici
non siano quelli militari, ma quelli nella ricerca, nella sanità, nella
formazione.
Anche a distanza, rompiamo l’isolamento
Ma da quanto siamo in isolamento?
Oggi diventa più che mai
fondamentale trovare una risposta a questa domanda, una risposta che non
è inquadrata in un limite temporale che sta ai decreti del governo, una
risposta che forse deve andare a cercare la sua complessità più
indietro e che deve necessariamente partire da altri presupposti che
vanno ben oltre l’emergenza del Covid-19.
Lo smantellamento dello stato
sociale, di cui oggi scontiamo tutte le conseguenze mentre la pandemia
rischia di mettere in ginocchio il sistema sanitario del nostro paese,
si intreccia con politiche ventennali (non ultime Buona Scuola e Jobs
Act) il cui risultato è stato produrre frammentazione, precarietà
esistenziale e individualismo. La competitività è diventato sempre più
un dogma costante all’interno di tutti gli spazi che viviamo, dai luoghi
della formazione a quelli del lavoro, e all’interno dei quali siamo
educati all’isolamento sociale, al ricambiare la menzogna con la
menzogna e l’odio con l’odio e che impara, a vedere i nostri compagni di
banco o i colleghi ad una scrivania di distanza come gli avversari
nella scalata verso la possibilità di “realizzarsi”. Possibilità che
sempre più coincide con la semplice garanzia dei diritti fondamentali,
ormai percepibili quasi come “privilegi”.
Un quadro complesso che ci pone
in una posizione di solitudine inevitabile, come se non ci potesse
essere una chiave di lettura differente della società, magari del tutto
nuova, magari diametralmente opposta alle condizioni materiali esistenti
in cui pare siamo incastrati. E
allora l’isolamento non è iniziato qualche settimana fa con la prima
delle tante dirette del premier, l’isolamento è una condizione di vita a
cui siamo obbligati.
Ci può essere una risposta diversa?
Collettivamente però possiamo
riuscire a costruire un’opzione diversa e in questi giorni su tanti
territori del nostro paese soggetti organizzati provano ad interrogarsi
su quale potrebbero essere le risposte d’alternativa, evidentemente
differenti dalla beneficenza che fanno i grandi complici al Cotugno di
Napoli piuttosto che al San Raffaele di Milano, delle risposte
complessive rispetto al quadro compiuto che ci da la possibilità di
leggere questa emergenza sanitaria.
I soggetti organizzati che stanno
costruendo queste opzioni all’interno delle loro città stanno provando a
mettere in piedi dei circuiti che riescano a porre in contraddizione
complessivamente il sistema fallace e che riescano a dare una risposta
su un periodo che va oltre quello dell’emergenza del coronavirus.
Non riusciremo a debellare questo
virus se ognuno di noi agisce da solo: per questo occorre portare
attenzione a tutti quei fenomeni sociali (come flash mob, dirette
partecipate su instagram) che si stanno sviluppando in questi giorni,
nel tentativo di creare una nuova rete, ritenuta sempre più
indispensabile per affrontare questo cruccio comune. È da questa e altre
considerazioni parallele che ribadiamo ancora più ad alta voce quella
necessità che da sempre esprimiamo nei nostri quartieri e nelle nostre
piazze, quando riconosciamo nel collettivo lo strumento per sortire di
problemi che altrimenti ci sembrano troppo grandi per essere mai
affrontati.
È in queste situazioni che scopriamo
la necessità di una dimensione collettiva, che sia quella del nucleo
familiare, ai tempi della quarantena domestica; quella di un collettivo
scolastico, all’interno delle mura delle nostre scuole; l’organizzazione
sindacale, nelle fabbriche.
Ma quando tutto questo manca,
quando manca il lavoro, quando non c’è la possibilità di organizzarsi a
scuola, quando la casa non è un luogo sicuro, come garantiamo
solidarietà?
Il nostro posto è all’interno
delle nostre città, dove proviamo ad essere protagonisti in un ambiente
abbastanza piccolo da permetterci di farci valere, ma al contempo
abbastanza grande da essere un calderone eterogeneo di diverse criticità
e diverse opportunità.
Ma da dove cominciamo?
Non c’è bisogno di un occhio
esperto per riuscire a fare una piccola analisi del contesto sociale
delle nostre città, certamente non tutti i quartieri vivono le stesse
questioni, non tutti i quartieri sono rappresentati allo stesso modo, ed
è questa la funzione che svolgiamo nelle nostre città, creare
solidarietà e mutualismo in quelle parti della città che ne hanno
davvero bisogno. Questi sono gli strumenti che ci permettono di essere
operativi anche in un periodo così complesso come quello del
Coronavirus, creando reti di solidarietà che riesca a coinvolgere i
quartieri della città nella vita di tutti i giorni, riuscendo a farci
garanti di un modello di vita diverso da quello imposto dalla società.
Un mondo dove non è la beneficenza ad assolvere ai bisogni delle fasce
di popolazioni meno abbienti, ma dove a partire dal mutualismo si
costruiscono risposte dal basso e attraverso il conflitto si rivendica
il welfare per tutti.
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Fonte: Rete della Conoscenza
Autore: redazione Rete della Conoscenza
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Articolo tratto interamente da Rete della Conoscenza