Articolo da Internazionale
Il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è una di quelle ricorrenze che si preferirebbe dimenticare o abolire, ma che al medesimo tempo ha il merito di rendere evidente la contraddizione di un fenomeno di durata secolare che, per essere portato a consapevolezza e assunto in tutte le sue profonde implicazioni politiche, ha bisogno di essere considerato un’“emergenza”.
È solo da una decina di anni che, a differenza di altre parti del mondo, nel nostro paese si è cominciato a parlare del carattere “strutturale” di una violenza che esplode in forme manifeste – maltrattamenti, stupri, omicidi, eccetera – ma che è inscritta in tutte le istituzioni della vita pubblica, nella cultura alta come nel senso comune, nell’atto stesso di nascita della polis, e annidata, per usare un’efficace espressione di Pierre Bourdieu, “nell’oscurità dei corpi”.
È stato necessario, e lo è ancora oggi, che nelle strade e nelle piazze di grandi città tornassero a manifestare per iniziativa di collettivi, gruppi femministi e lesbici, generazioni di donne che non hanno mai smesso dagli anni settanta di portare l’attenzione su un dominio particolare, fondamento di tutte le forme di oppressione finora conosciute e, allo stesso tempo, così sfuggente da confondersi con le relazioni più intime.
La libertà e l’autonomia spinte ai margini
È sicuramente un grande passo avanti il fatto che nel dibattito pubblico si cominci a nominare il risvolto oscuro, inquietante di legami amorosi, familiari, ritenuti “normali”, così come si può considerare una conquista di lente e pazienti battaglie del movimento delle donne l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni politiche e amministrative su questi temi.
Ma quando hanno fatto la loro comparsa provvedimenti legislativi volti a sensibilizzare, prevenire l’aggressività maschile, tutelare le vittime – penso al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, da poco approvato – a essere esautorate e respinte ai margini sono state proprio le donne che hanno lavorato anni nei centri antiviolenza, nelle scuole, nei centri di documentazione e nelle associazioni culturali, per far crescere libertà dove c’era soggezione, autonomia dove c’era adeguamento a modelli interiorizzati.
Ci sono molti modi per far fronte a un cambiamento di sensibilità, convinzioni, rapporti di potere, che lentamente si fa strada fuori dal privato, da esperienze dolorose vissute in solitudine o rimaste all’interno di gruppi e movimenti costretti a un andamento carsico e a rare, brevi esplosioni sulla scena pubblica. Quello più comune è accontentarsi di politiche inclusive che lasciano inalterato il sistema di valori che è stato messo in discussione.
Il 26 novembre si terrà a Roma una manifestazione promossa da una vasta rete nazionale i cui slogan “Io decido”, “Non una in meno” dicono della rabbia crescente di chi ha sopportato troppo a lungo gli ostacoli frapposti alla propria libertà, al proprio piacere – dalla violenza manifesta alle pressioni psicologiche, alla condanna morale. Non sarà un caso che con tanta tempestività papa Bergoglio conceda a nome della chiesa il perdono alle donne che abortiscono, considerate “assassine” da tutte le religioni e da tanti “rispettabili” governi del mondo. Si può dire che le folle oceaniche che si sono viste negli ultimi tempi colorare le piazze, dall’Europa all’America Latina, hanno lasciato il segno. Ma chi “perdonerà” gli uomini per aver imposto con un asservimento violento la loro sessualità procreativa, costretto le donne a mettere a rischio la loro vita, prima per assecondare i bisogni e desideri altrui, oggi per affermare i propri?
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Fonte: Internazionale
Autore: Lea Melandri
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Articolo tratto interamente da Internazionale