domenica 28 febbraio 2021

Nuova scoperta a Pompei: ritrovato un carro da cerimonia



Articolo da Il Fatto Storico

Poco al di fuori delle mura di Pompei, gli archeologi hanno fatto una scoperta unica in Italia. Per la prima volta è stato trovato un pilento, una carrozza a quattro ruote utilizzata dalle matrone romane nei giorni di festa, come ai matrimoni. Il veicolo è quasi integro, miracolosamente sfuggito agli scavi clandestini. Si trovava nel portico di una villa dove nel 2018 in una stalla erano emersi i resti di 3 cavalli (di cui uno riccamente bardato) e gli scheletri di due uomini l’anno scorso.

Il commento di Massimo Osanna

«È una scoperta straordinaria per l’avanzamento della conoscenza del mondo antico», ha dichiarato Osanna, direttore uscente del parco archeologico. «A Pompei sono stati ritrovati in passato veicoli per il trasporto, come quello della casa del Menandro, o i due carri rinvenuti a Villa Arianna (uno dei quali si può ammirare nel nuovo Antiquarium stabiano), ma niente di simile al carro di Civita Giuliana. Si tratta infatti di un carro cerimoniale, probabilmente il pilentum noto dalle fonti, utilizzato non per gli usi quotidiani o i trasporti agricoli, ma per accompagnare momenti festivi della comunità, parate e processioni. Mai emerso dal suolo italiano, il tipo di carro trova confronti con reperti rinvenuti una quindicina di anni fa all’interno di un tumulo funerario della Tracia (Grecia settentrionale). Uno dei carri traci è particolarmente vicino al nostro anche se privo delle straordinarie decorazioni figurate che accompagnano il reperto pompeiano. Le scene dei medaglioni che impreziosiscono il retro del carro rimandano all’eros (satiri e ninfe), mentre le numerose borchie presentano eroti. Considerato che le fonti antiche alludono all’uso del piletum da parte di sacerdotesse e signore, non si esclude che potesse trattarsi di un carro usato per rituali legati al matrimonio, per condurre la sposa nel nuovo focolare domestico. Se l’intera operazione non fosse stata avviata grazie alla sinergia con la Procura di Torre Annunziata – con la quale è stato sottoscritto un protocollo di intesa per il contrasto al fenomeno criminale di saccheggio dei siti archeologici e di traffico dei reperti e opere d’arte – avremmo perso documenti straordinari per la conoscenza del mondo antico».

Lo scavo

Il carro si trovava sotto un portico a due piani, a lato di una corte. L’edificio era ancora completo del solaio in legno di quercia e delle travi di sostegno. Una porta dava accesso alla stalla, dove nel 2018 sono stati trovati i resti di tre cavalli. Dopo aver rimosso il solaio, il 7 gennaio gli archeologi si sono imbattuti nei primi pezzi di ferro del carro sotto una coltre di sedimenti di ceneri vulcaniche (cinerite). Settimane di duro lavoro, stando attenti alla fragilità dei materiali, hanno portato alla luce il carro ancora integro. Fortunatamente né i muri intorno erano crollati, né i tombaroli lo avevano trovato. «Pompei continua a stupire con le sue scoperte, e sarà così ancora per molti anni con venti ettari ancora da scavare. Ma soprattutto dimostra che si può fare valorizzazione, si possono attrarre turisti da tutto il mondo e contemporaneamente si può fare ricerca, formazione e studi, e un giovane direttore come Zuchtriegel valorizzerà questo impegno», ha dichiarato il Ministro della Cultura Dario Franceschini.

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Fonte: Il Fatto Storico

Autore: redazione Il Fatto Storico

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Articolo tratto interamente da
 Il Fatto Storico


Citazione del giorno



"Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l'oppressore, non la vittima."

Elie Wiesel


venerdì 26 febbraio 2021

La lotta di Samir continua

Samir Flores (frame de video) 01


Articolo da Re:Common

Samir Flores Soberanes era un contadino, un fabbro, un insegnante, un padre e uno zapatista. Il suo attivismo in opposizione al Proyecto Integral Morelos gli è costato la morte, avvenuta giusto due anni fa, alcuni giorni dopo una sua dichiarazione pubblica in cui faceva i nomi delle imprese coinvolte nel mega-progetto infrastrutturale.

Un’opera gigantesca, altamente energivora e inquinante composta da un gasdotto, una centrale a gas e una serie di parchi industriali che stravolgeranno le radici contadine dell’area, nello stato del Morelos, estraendo risorse e restituendo danni ambientali e danni alla salute, oltre che alterare i delicati equilibri comunitari.

Lo stato di Morelos è la terra natale di Emiliano Zapata e il legame tra l’esperienza del primo zapatismo e le lotte contadine per la terra rappresentavano una memoria viva nelle giornate dell’attivista messicano.

Nel 2013 Samir fondò Radio Amiltzinko, l’arma più efficace che ha unito nel corso degli anni le lotte contro il Proyecto Integral Morelos. Da una piccola comunità, quella di Amilchingo, la resistenza all’opera si è diffusa a macchia d’olio a tutto lo stato di Morelos e ai confinanti Puebla e Tlaxcala, toccati dalla mega-infrastruttura. In realtà l’opposizione ormai non è più solo al singolo progetto, ma all’intero sistema estrattivista. Un lotta diventata simbolo e ispirazione in Messico come in Europa.

Il Proyecto Integral Morelos, fortemente voluto dal governo messicano, è stato promosso dalle imprese spagnole Abengoa, Elecnor ed Enagas e dall’italiana Bonatti, responsabile dei “rapporti con le comunità” e incaricata della costruzione del gasdotto Tula-Tuxpan.

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Fonte: Re:Common


Autore: 
Filippo Taglieri


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Articolo tratto interamente da Re:Common

Photo credit Los Tejemedios, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons


A Juliette Drouet di Victor Hugo


A Juliette Drouet

Faccio tutto ciò che posso
perché il mio amore
non ti disturbi,
ti guardo di nascosto,
ti sorrido quando non mi vedi.
Poso il mio sguardo
e la mia anima ovunque
vorrei posare i miei baci:
sui tuoi capelli,
sulla tua fronte,
sui tuoi occhi,
sulle tue labbra,
ovunque le carezze
abbiano libero accesso.

Victor Hugo


Dipinto del giorno

 


La colazione dei canottieri di Pierre-Auguste Renoir



Pollice su e giù della settimana

 

Uomo disperso nel Pacifico: vivo dopo 14 ore, grazie ad una boa tratto da Chi scrive non muore mai




giovedì 25 febbraio 2021

La nostra è un’epoca di compromessi

 


"La nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di male minore. I visionari vengono derisi o disprezzati e «gli uomini pratici» governano la nostra vita. Non cerchiamo più soluzioni radicali ai mali della società, ma miglioramenti; non cerchiamo più di abolire la guerra, ma di evitarla per un periodo di qualche anno; non cerchiamo di abolire il crimine, ma ci accontentiamo di riforme penali; non tentiamo di abolire la fame, ma fondiamo organizzazioni mondiali di carità".

Maria Luisa Berneri



L’importanza del verde urbano per il benessere mentale

Articolo da Scientificast.it

Un breve viaggio attraverso la letteratura che indaga la correlazione fra spazi verdi e riduzione dello stress e come la realtà virtuale può aiutarci a questo scopo.

È un altro sabato di lock-down: i bar e i cinema sono chiusi, i musei anche, di andare a trovare gli amici neanche a parlarne. Dopo una settimana passata al chiuso o davanti al computer sentite il bisogno di uscire ed immergervi nella natura, che sia il parco cittadino, il fiume, le montagne, o magari anche solo i giardinetti dietro casa. Se vi sembra che la vista degli alberi, l’odore dell’erba e il cinguettio degli uccellini possano in qualche modo rinfrescarvi la mente e diluire un po’ lo stress accumulato, ci sono ottime notizie.

Diversi studi negli ultimi decenni hanno infatti investigato la relazione fra gli spazi verdi e il benessere mentale. Nonostante i risultati siano spesso a favore di una correlazione positiva tra questi due elementi, risalire alle sue cause non è scontato. A rendere ingarbugliata la vicenda c’è il fatto che ognuno degli studi ha utilizzato condizioni sperimentali, task, tempistiche e ambientazioni diverse, oltre ad aver misurato parametri diversi: dalla percezione soggettiva di varie emozioni, ai livelli di attenzione, fino a vere e proprie misurazioni corporee come la concentrazione di cortisolo nella saliva, lo stato del sistema immunitario, l’attività cardiaca o cerebrale.

Laddove i risultati differiscono parzialmente uno dall’altro, capire il perché di queste differenze è un rompicapo. È forse perché uno studio ha utilizzato soggetti donne e un altro soltanto uomini? O un gruppo di volontari scelti a caso invece che soggetti ansiosi/depressi? E poi: fa differenza testare gli effetti sulla riduzione dell’ansia del prato di un college e quelli di una foresta? Le misurazioni sono state fatte anche durante o soltanto dopo il task (da sedere o passeggiare in vari ambienti, ad attività più complesse) in questione? Senza contare che, purtroppo, non sempre questo tipo di studi è ben controllato o randomizzato. Per fare un esempio, in alcuni casi i vari soggetti di cui è stata analizzata la reazione fisiologica a diversi contesti (come potrebbero essere un bosco, la città e uno spazio al chiuso) erano stati esposti alle varie condizioni sempre nello stesso ordine, rendendo difficile osservare l’effetto “indipendente” di ogni contesto. 

Un tentativo di mettere ordine in questa giungla lo trovate qui. L’articolo in questione è una metanalisi, cioè una pubblicazione in cui si confrontano tutti gli studi effettuati negli anni precedenti su un argomento e si cerca di estrarre la significatività statistica complessiva di ogni risultato, al netto delle problematiche di cui si diceva prima. Il messaggio conclusivo – per farla molto, molto breve – è che sì, a parità di attività, stare immersi nella natura piuttosto che in un ambiente urbanizzato qualcosa di buono all’umore lo fa, ma ancora non sappiamo bene il perché, e c’è comunque bisogno di studi meglio controllati.

In ogni caso, mentre mi avventuravo in questa selva di articoli di psicologia, salute pubblica e urbanistica, mi sono imbattuta in uno studio del 2013, anch’esso non del tutto scevro di limitazioni tecniche, come si vedrà fra poco, ma che ho trovato particolarmente curioso e interessante, sia per le metodiche utilizzate sia per la nuova prospettiva che offre su che cosa vuol dire “stare nella natura”. 

Per parlarne, però, bisogna prima di tutto sapere che cos’è un CAVE (spoiler: è un ambiente immersivo per la realtà virtuale, costituito in pratica da uno stanzino sulle cui pareti vengono proiettate delle immagini in grado di cambiare in risposta ai movimenti dell’utente, il quale indossa occhiali 3D e cuffie), e in cosa consiste un Trier Social Stress Test, o TSST. Mai sentito? In breve, è un test psicologico che prevede l’esposizione a una serie di situazioni sociali potenzialmente stressanti. In un esperimento di TSST al partecipante viene prima detto che ha 5 minuti per prepararsi a un colloquio di lavoro di 5 minuti di durata e gli si forniscono penna e bloc notes, quindi le note gli vengono sottratte subito prima del colloquio, e infine il malcapitato si ritrova di fronte alla “commissione di esperti” che dovrà valutarlo. I commissari sono istruiti a non mostrare nessuna espressione facciale o reazione vocale alle sue parole: soltanto il membro più anziano parlerà in caso nel candidato si fermi prima del tempo, incitandolo a usare tutti i 5 minuti. Questa parte è poi seguita da altri 5 minuti di prova di aritmetica “a voce”, sempre davanti alla commissione: il partecipante deve contare all’indietro in step di 13 a partire da un numero casuale come 1022. Ogni volta che fa un errore deve ricominciare da capo. Anche in questo caso, i membri della commissione rimangono totalmente impassibili. 

Come potete immaginare, lo scopo del TSST è quello di provocare uno stato di stress acuto nel partecipante, e questo può avere vari obiettivi. In particolare, nel nostro studio con il CAVE, in cui sia il TSST che la commissione sono virtuali, il TSST è usato come strumento per confrontare il potenziale di diverse esperienze “ristorative”, di 40 minuti di durata ognuna, a seguito di esso. I partecipanti allo studio sono infatti stati divisi in tre gruppi: per alcuni al TSST segue un periodo di permanenza nello stesso stanzino, in silenzio e con tutti i proiettori spenti, per un altro gruppo il CAVE si trasforma in una foresta virtuale le cui immagini sono proiettate sui muri, e per un terzo gruppo alle immagini della foresta si accompagnano anche i suoni della foresta (rumore d’acqua e canti di uccelli). I livelli di cortisolo nella saliva sono misurati a intervalli regolari, così come l’attività cardiaca e il respiro. 

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Fonte: Scientificast.it

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Articolo tratto interamente da 
Scientificast.it


Comunicazione di servizio



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Proverbio del giorno

 

Impara l’arte e mettila da parte.



mercoledì 24 febbraio 2021

Appello di Non Una Di Meno verso l'8 marzo 2021

sciopero


Comunicato da NonUnaDiMeno 

8 marzo 2021: Sciopero globale femminista e transfemminista. Essenziale è il nostro sciopero, essenziale è la nostra lotta!

Negli ultimi anni abbiamo vissuto lo sciopero femminista e transfemminista globale come una manifestazione di forza, il grido di chi non accetta di essere vittima della violenza maschile e di genere. Abbiamo riempito le piazze e le strade di tutto il mondo con i nostri corpi e il nostro desiderio di essere vive e libere, abbiamo sfidato la difficoltà di scioperare causata dalla precarietà, dall’isolamento, dal razzismo istituzionale, abbiamo dimostrato che non esiste produzione di ricchezza senza il nostro lavoro quotidiano di cura e riproduzione della vita, abbiamo affermato che non siamo più disposte a subirlo in condizioni di sfruttamento e oppressione.

A un anno dall’esplosione dell’emergenza sanitaria, la pandemia ha travolto tutto, anche il nostro movimento e la nostra lotta, rendendoli ancora più necessari e urgenti. Lo scorso 8 marzo ci siamo ritrovatə allo scoccare del primo lockdown e abbiamo scelto di non scendere in piazza a migliaia e migliaia come gli anni precedenti, per la salute e la sicurezza di tutte. È a partire dalla consapevolezza e dalla fantasia che abbiamo maturato in questi mesi di pandemia, in cui abbiamo iniziato a ripensare le pratiche di lotta di fronte alla necessità della cura collettiva, che sentiamo il bisogno di costruire per il prossimo 8 marzo un nuovo sciopero femminista e transfemminista, della produzione, della riproduzione, del e dal consumo, dei generi e dai generi. Non possiamo permetterci altrimenti. il prossimo 8 marzo sarà sciopero femminista e transfemminista, della produzione, della riproduzione, del e dal consumo, dei generi e dai generi.

Dobbiamo creare l’occasione per dare voce a chi sta vivendo sulla propria pelle i violentissimi effetti sociali della pandemia, e per affermare il nostro programma di lotta contro piani di ricostruzione che confermano l’organizzazione patriarcale della società contro la quale da anni stiamo combattendo insieme in tutto il mondo. Non abbiamo bisogno di spiegare l’urgenza di questa lotta. Le tantissime donne che sono state costrette a licenziarsi perché non potevano lavorare e contemporaneamente prendersi cura della propria famiglia sanno che non c’è più tempo da perdere. Lo sanno le migliaia di lavoratrici che hanno dovuto lavorare il doppio per ‘sanificare’ ospedali e fabbriche in cambio di salari bassissimi e nell’indifferenza delle loro condizioni di salute e sicurezza. Lo sanno tutte le donne e persone Lgbt*QIAP+ che sono state segregate dentro alle case in cui si consuma la violenza di mariti, padri, fratelli. Lo sanno coloro che hanno combattuto affinché i centri antiviolenza e i consultori, i reparti IVG, i punti nascita, le sale parto, continuassero a funzionare nonostante la strutturale mancanza di personale e di finanziamenti pubblici aggravata nell’emergenza. continuassero a funzionare nonostante la strutturale mancanza di fondi.

Lo sanno le migranti, quelle che lavorano nelle case e all’inizio della pandemia si sono viste negare ogni tipo di sussidio, o quelle che sono costrette ad accettare i nuovi turni impossibili del lavoro pandemico per non perdere il permesso di soggiorno. Lo sanno le insegnanti ridotte a ‘lavoratrici a chiamata’, costrette a fare i salti mortali per garantire la continuità dell’insegnamento mentre magari seguono i propri figli e figlie nella didattica a distanza. Lo sanno lə studenti che si sono vistə abbandonare completamente dalle istituzioni scolastiche, già carenti in materia di educazione sessuale, al piacere, alle diversità e al consenso, sullo sfondo di un vertiginoso aumento delle violenze tra giovanissimə. Lo sanno le persone trans* che hanno perso il lavoro e fanno ancora più fatica a trovarlo perché la loro dissidenza viene punita sul mercato. A tuttə loro, a chi nonostante le difficoltà in questi mesi ha lottato e scioperato, noi rivolgiamo questo appello: l’8 marzo scioperiamo! Abbiamo bisogno di tenere alta la sfida transnazionale dello sciopero femminista e transfemminista perché i piani di ricostruzione postpandemica sono piani patriarcali.

A fronte di uno stanziamento di risorse economiche per la ripresa, il Recovery Plan non rompe la disciplina dell’austerità sulle vite e sui corpi delle donne e delle persone LGBT*QIAP+. Da una parte si parla di politiche attive per l’inclusione delle donne al lavoro e di «politiche di conciliazione», dando per scontato che chi deve conciliare due lavori, quello dentro e quello fuori casa, sono le donne. Dall’altra non sono le donne, ma è la famiglia – la stessa dove si consuma la maggior parte della violenza maschile, la stessa che impedisce la libera espressione delle soggettività dissidenti ‒ il soggetto destinatario dei fondi sociali previsti dal Family Act. E da questi fondi sono del tutto escluse le migranti, confermando e mantenendo salde le gerarchie razziste che permettono di sfruttarle duramente in ogni tipo di servizi. Così anche gli investimenti su salute e sanità finiranno per essere basati su forme inaccettabili di sfruttamento razzista e patriarcale. Miliardi di euro sono poi destinati a una riconversione verde dell’economia, che mira soltanto ai profitti e pianifica modalità aggiornate di sfruttamento e distruzione dei corpi tutti, dell’ecosistema e della terra.

Poco o nulla si dice delle misure contro la violenza maschile e di genere, nonostante questa sia aumentata esponenzialmente durante la pandemia, mentre il «reddito di libertà» è una risposta del tutto insufficiente alla nostra rivendicazione dell’autodeterminazione contro la violenza, anche se dimostra che la nostra forza non può essere ignorata. Questo 8 Marzo non sarà facile, ma è necessario. Lo sciopero femminista e transfemminista non è soltanto una tradizionale forma di interruzione del lavoro ma è un processo di lotta che attraversa i confini tra posti di lavoro e società, entra nelle case, invade ogni spazio in cui vogliamo esprimere il nostro rifiuto di subire violenza e di essere oppressə e sfruttatə. Questa è da sempre la nostra forza e oggi lo pensiamo più che mai, perché ogni donna che resiste, che sopravvive, ogni soggettività dissidente che si ribella, ogni migrante afferma la propria libertà fa parte del nostro sciopero.

Il 30 e 31 una prima tappa verso l’8 marzo, nel corso della quale ci siamo incontrat* in gruppi divisi per tematiche per costruire le prime tappe dello sciopero femminista ed il 6 febbraio l’Assemblea per discutere collettivamente e indicare quali sono per noi terreni di lotta nella ricostruzione pandemica.

Proprio oggi che il nostro lavoro, dentro e fuori casa, è stato definito «essenziale», e questo ci ha costrette a livelli di sfruttamento, isolamento e costrizione senza precedenti, noi diciamo che “essenziale è il nostro sciopero, essenziale è la nostra lotta!”.

Non Una Di Meno


Repubblica democratica del Congo: una terra senza pace


Articolo da Il Caffè Geopolitico

Editoriale L’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, Luca Attanasio, è stato ucciso con il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo durante una missione umanitaria nel Nord Kivu. Oggi più che mai è fondamentale conoscere la complessità del mondo per costruire la pace e il Paese centrafricano è un esempio terribile di dolore e speranza.

La Repubblica democratica del Congo non è un Paese per analisti improvvisati. Nessun luogo del mondo lo è, a essere sinceri, ma la RDC con i suoi 2,3 milioni di chilometri quadrati è un complesso intrico geopolitico che non può essere sbrigliato da osservatori casuali o da articoli che riportano in un mosaico scomposto un patchwork di fonti. Conoscere il panorama africano è fondamentale per il futuro dell’Italia, proprio nell’accezione più profonda e drammatica della sopravvivenza del nostro Paese nella scena internazionale.

L’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, che sono stati uccisi mentre viaggiavano in un convoglio umanitario con il Programma alimentare mondiale, erano nella RDC proprio per oltrepassare alcune delle grandi muraglie che dividono il mondo, per tessere una rete di cooperazione, pace e sviluppo tramite la comunità internazionale e anche tramite l’Italia, che ha una grande storia di solidarietà internazionale, spesso a rischio per l’imbarbarimento del dibattito sugli esteri e per l’ingombro delle minuzie di palazzo. Migliaia di italiani in tutto il globo lavorano con ruoli e modalità diverse per migliorare la vita di milioni di persone, per fornire strumenti e per creare opportunità proprio là, laggiù, “a casa loro”, senza pietismo e senza paternalismo. Ieri l’Italia ha avuto testimonianza di che cosa sia quella “casa”. Per questo non possiamo permetterci dibattiti fugaci, sedicenti analisti distratti, generici esperti di Africa gettati allo sbaraglio – perché tanto il Continente è tutto nero.

Senza entrare nel merito delle indagini, sulle quali potremmo solo riportare fonti di seconda o terza mano, gli aspetti principali sui quali dovremmo riflettere sono due. Il primo è la situazione nella RDC, che nelle regioni orientali sta subendo un costante peggioramento. Il luogo dell’agguato, vicino a Goma, capitale del Nord Kivu, e in prossimità della riserva di Virunga, è costellato dalle basi di molti gruppi armati, di varia estrazione. È vero che esistono delle sigle ben precise e riconoscibili, ma non dobbiamo pensare al quadro dell’insorgenza in Africa come a una rete di singoli soggetti monolitici. Esiste un mondo magmatico e in continua evoluzione nel quale i vari gruppi si compenetrano, si confondono, si adattano alle circostanze, operando ora da mercenari, ora da bracconieri, ora da jihadisti. Le stesse dirigenze dei gruppi non sono compatte, come – per restare in ambito congolese – nel caso delle Allied Democratic Forces (ADF), che in parte hanno aderito allo Stato Islamico, costituendone la provincia Africa centrale (ISCAP), e in parte hanno mantenuto obiettivi locali. Il gruppo, responsabile nel solo 2020 di almeno 800 morti, opera sin da metà anni Novanta in Uganda, nella RDC e nella regione dei Grandi Laghi.

Il terrorismo islamico, tuttavia, non è l’unica minaccia nello scenario. Il Kivu settentrionale e meridionale, al confine con Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania (lungo il Lago Tanganica) è in uno stato costante di conflitto da decenni. Fu proprio nella città di Goma che nel 1998 partirono le prime scintille della Seconda Guerra del Congo (detta anche Grande Guerra Africana), che coinvolse formalmente 8 Paesi del Continente e che ancora non è del tutto risolta. Secondo alcune stime gli eventi bellici e i suoi strascichi avrebbero provocato almeno 5,5 milioni di morti e altrettanti sfollati. La guerra, che si è sovrapposta a tensioni e crisi già gravi, ha moltiplicato gli attori nella regione, che la MONUSCO (Missione ONU per la stabilizzazione nella RDC) ha stimato in oltre cento. Tra questi le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR), miliziani hutu coinvolti nel genocidio del 1994 e sostenuti dall’allora Presidente Laurent-Désiré Kabila contro Ruanda, Burundi e Uganda, intervenuti a loro volta a supporto dei tutsi del Kivu. Proprio le FDLR sono state accusate dal Governo di Kinshasa per l’attacco al convoglio dell’ambasciatore Attanasio. Nel Kivu agiscono poi le eterogenee milizie Mai-Mai dei signori della guerra, ma la regione è stata presa di mira in passato anche dal Lord’s Resistance Army di Joseph Kony, responsabile di oltre 100mila vittime e del rapimento di più di 50mila bambini. Il tutto mentre la RDC traversa una complessa crisi istituzionale, con il presidente Félix Tshisekedi, eletto nel 2018, che ha rotto l’alleanza di Governo con il partito del predecessore Joseph Kabila, ancora molto potente.


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Fonte: Il Caffè Geopolitico


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Articolo tratto interamente da Il Caffè Geopolitico 



Giustizia sociale

Sandro Pertini1

"Per me libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà. Ecco, se a me socialista offrissero la realizzazione della riforma più radicale di carattere sociale, ma privandomi della libertà, io la rifiuterei, non la potrei accettare. [...] Ma la libertà senza giustizia sociale può essere anche una conquista vana. Mi dica, in coscienza, lei può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero. Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è la libertà che intendo io."

Sandro Pertini

Tratto da | Intervista - Centro Espositivo Sandro Pertini

Photo credit Presidenza della Repubblica [Attribution], via Wikimedia Commons

martedì 23 febbraio 2021

Mozilla ha rilasciato Firefox 86

Firefox 86 introduce la protezione totale dai cookie.

Link diretto: https://www.windowsblogitalia.com/2021/02/download-firefox-86-windows-changelog/


Modello Big Pharma, quando gli interessi economici prevalgono sulla salute


Articolo da Valori

Il modello di business di Big Pharma, basato sulla massimizzazione dei profitti,  sulla ricerca biologica delegata alle start-up, sul privilegiare le cure rispetto ai vaccini, rappresenta da sempre un problema. Sociale, sanitario, economico ed etico. Ma, in una fase come quella attuale, assume i contorni della potenziale tragedia. Le aziende, non è una novità, preferiscono lavorare sulle terapie. Meglio ancora su terapie per malattie croniche. Se si avessero dubbi, a riguardo, basta riavvolgere il nastro della vicenda dell’AIDS. 

Per Big Pharma meglio evitare l’arrivo dei vaccini: il caso dell’HIV

Per tale malattia gli investimenti sulla ricerca per un vaccino sono sempre stati minimi. Tanto che l’UNAIDS, il Programma delle Nazioni Unite sull’HIV, qualche anno fa in un comunicato durissimo mise Big Pharma di fronte alle proprie responsabilità, accusandola di non investire nella ricerca sul vaccino per un puro calcolo d’interesse. Le persone infettate dal virus sarebbero state costrette ad assumere per tutta la vita le terapie prodotte dalle stesse aziende multinazionali. Così, la ricerca sul vaccino ha potuto contare solo sul (poco) denaro proveniente da Stati o fondazioni. La ragione è semplice: per Big Pharma – e per l’intero indotto sanitario – evitare l’arrivo dei vaccini significa garantirsi entrate programmabili, su parecchi anni, da mettere a bilancio. Delimitando al contempo la popolazione di riferimento: quella dei Paesi ricchi, gli unici in grado di pagare quelle cure. 

Creare un’azienda farmaceutica pubblica…

Allo stesso modo, alcuni anni fa le istituzioni europee avevano chiesto di potenziare la ricerca per fronteggiare potenziali pandemie. Senza ricevere però alcuna risposta dalle multinazionali. La domanda che ne discende è perciò: quali strumenti hanno, oggi, gli Stati per orientare la ricerca e i settori su cui essa si concentra? Ebbene, la realtà è che non ne hanno assolutamente nessuno. È per questo che occorre porsi l’obiettivo di cambiare paradigma. E l’unico modo per farlo è creare un’azienda farmaceutica pubblica su scala europea. 

… per orientare la ricerca verso la tutela della salute (di tutti)

Un simile organismo garantirebbe brevetti pubblici per tutti. Ma, soprattutto, orienterebbe la ricerca verso la tutela della salute nel suo complesso. Privilegiando la prevenzione (inclusi i vaccini) rispetto alle cure (i farmaci). Senza dimenticare che potrebbe lavorare anche su patologie che colpiscono un numero limitato di pazienti (cioè con un mercato potenziale insufficiente agli occhi delle industrie private) o che si concentrano in fasce di popolazione povere (non in grado perciò di pagare).

In questo senso, la pandemia attuale ha messo in discussione il paradigma della medicina degli ultimi 50 anni, secondo il quale l’aumento dell’aspettativa di vita dipende quasi esclusivamente dallo sviluppo di nuovi medicinali, mentre la prevenzione è ridotta ai minimi termini e gli equilibri tra la natura e gli esseri viventi sono ignorati. In futuro dovremo affrontare sempre più agenti infettivi figli di un sistema di sviluppo insostenibile e che arrivano a noi tramite zoonosi. Serve perciò soprattutto una medicina attenta alla salute collettiva e preventiva, più che orientata quasi unicamente alla cura.

Pubblico e privato: nella medicina due approcci opposti

Il problema è che la logica di Big Pharma va nella direzione opposta. D’altra parte, quando le aziende private intervengono nella salute, hanno successo se crescono i malati e le malattie. Quando è il pubblico ad intervenire, ha successo se crescono la salute e il benessere. Perché diminuiscono cure, ricoveri, consulti medici. E le casse pubbliche, di conseguenza, risparmiano. Sono due approcci inconciliabili, diametralmente opposti l’uno all’altro. 

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Fonte: Valori


Autore: 
Vittorio Agnoletto

Licenza: Licenza Creative Commons
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Articolo tratto interamente da 
Valori


Gino Strada sul vaccino cubano




"Cuba produce l’unico vaccino anti Covid pubblico: finanziato, sviluppato e prodotto interamente dallo Stato, diventando l’unica nazione autonoma in tutto il mondo. Inoltre si prepara a distribuire entro sei mesi cento milioni di dosi nei Paesi che non hanno le risorse, avviando la più colossale campagna di solidarietà internazionale della storia dell’umanità. Bizzarro che proprio un paese comunista, con tutti i limiti e le contraddizioni da superare, sia lo Stato più evoluto del mondo."

Gino Strada



Voli di Antonia Pozzi


Voli

Pioggia pesante di uccelli
su l’albero nudo:
così leggermente vibrando
di foglie vive
si veste.

Ma scatta in un frullo
lo stormo,
l’azzurro Febbraio
con la sera
sta sui rami.

E’ gracile il mio corpo,
spoglio ai voli
dell’ombra.

Antonia Pozzi


Musica: si separano i Daft Punk

Daftpunklapremiere2010


Articolo da MelodicaMente

Dal 1993 ad oggi, la musica elettronica è stata segnata senza alcun dubbio dalla presenza dei Daft Punk. Il duo, composto dai dj e produttori parigini Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter, ha annunciato lo scioglimento il 22 febbraio con un video pubblicato su YouTube.

I Daft Punk, oltre che per la loro musica, si sono contraddistinti per il fatto di non aver mai mostrato il loro volto. Con indosso le loro maschere da robot, hanno deciso di dire addio al grande pubblico. In “Epilogue” li troviamo insieme per l’ultima volta, nel deserto, prima di esplodere. Per molti, lo scioglimento dei Daft Punk corrisponde alla fine di un’era, iniziata col successo di “Homework” nel 1997. L’ultimo album dei Daft Punk, invece, è uscito nel 2013 ed è intitolato “Random Access Memories”. È lo stesso album che contiene il tormentone “Get lucky”, diventato un vero e proprio fenomeno, una delle canzoni più coverizzate e di successo degli ultimi anni.

Il video su YouTube

Il video pubblicato dai Daft Punk per comunicare il loro scioglimento, non è niente di diverso rispetto a quanto il duo ha fatto nel corso di questi anni. “Epilogue”, che intanto è al primo posto delle tendenze su YouTube, contiene una scena muta del film “Electroma” del 2006. Sul finire del video, che dura quasi 8 minuti, compare la scritta “1993-2021”, ovvero l’anno di inizio dei Daft Punk e quello dello scioglimento. In molti hanno sperato, almeno per qualche secondo, che si trattasse di una trovata pubblicitaria per lanciare un nuovo album, ma non è così. Kathryn Frazier, rappresentante del duo, ha confermato a Pitchfork che i Daft Punk si sono sciolti, anche se non ha precisato i motivi dello scioglimento.

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Fonte: 
MelodicaMente 

Autore: Sally


Licenza: Licenza Creative Commons
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Articolo tratto interamente da 
MelodicaMente

Photo credit James Whatley, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons


Il lago Baikal

Baikal, Russia from Nikolay Khlebinsky on Vimeo.

Photo e video credit Nikolay Khlebinsky caricato su Vimeo - licenza: Creative Commons


Bryce Canyon

Bryce Canyon from Yannick Calonge on Vimeo.

Photo e video credit Yannick Calonge caricato su Vimeo - licenza: Creative Commons


lunedì 22 febbraio 2021

Citazione del giorno

"Cercate di lasciare questo mondo un po' migliore di come l'avete trovato."


 Robert Baden-Powell


Avviso ai lettori!




Pubblico questo post, per avvisarvi che in questi giorni sono molto impegnato. Mi scuso se non riesco a passare nei vostri blog e per la mancanza di aggiornamenti.

Grazie a tutti, per la vostra attenzione.


giovedì 18 febbraio 2021

Hikikomori in aumento con la pandemia

 


Articolo da Ambientebio 

Sin dalla fine degli anni ’90 (Saito, 1998), è stata descritta in Giappone una particolare condizione psicologica che riguarda soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti e che è stata definita hikikomori, letteralmente ritiro sociale.

“Il fenomeno degli hikikomori è destinato ad aumentare e a cronicizzarsi. Quando riapriranno le scuole molti non torneranno sui banchi, altri non usciranno nemmeno quando la pandemia lo permetterà”: è questa la previsione di Marco Crepaldi, psicologo e fondatore di Hikikomori Italia, associazione nazionale nata con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema dell’isolamento volontario.

Le richieste del governo affinché il pubblico rimanga a casa ed eviti di riunirsi in gruppi per prevenire la diffusione del virus ha avuto un effetto negativo sugli hikikomori che stanno cercando di tornare nella società, ma anche una sempre maggiore chiusura in altre persone.

Che cos’è la sindrome hikikomori?

Tale condizione si caratterizza per un rifiuto verso la vita sociale e scolastica o lavorativa per un periodo di tempo prolungato di almeno 6 mesi e una mancanza di relazioni intime ad eccezione di quelle con i famigliari più stretti.

I giovani hikikomori possono mostrare il loro disagio in vario modo: restare chiusi in casa tutto il giorno, oppure uscire solo di notte o di prima mattina quando hanno la certezza di non incontrare conoscenti, oppure ancora fingere di recarsi a scuola o al lavoro e invece girovagare senza meta per tutto il giorno.

Il fenomeno è stato spesso associato all’internet addiction, ma gli studi mostrano che solo nel 10% dei casi è stato riscontrato anche questo tipo di dipendenza. In realtà al momento è stata trovata solo una correlazione tra i comportamenti di ritiro sociale e alcuni sintomi dell’internet addiction (Wong, 2015), ma ancora non è stato condotto uno studio che permetta di stabilire una relazione causale tra i due fattori.

A partire dalla descrizione dettagliata del fenomeno operata dallo psichiatra Saito (1998), numerosi studi sono stati condotti in Giappone per capire le cause che sarebbero all’origine del manifestarsi di questo protratto rifiuto sociale. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate innanzitutto le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza di disturbi psicopatologici associati, come ad esempio la depressione.

Da un punto di vista sociologico, invece, si sono indagati soprattutto i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo, e ad un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali e sociali su cui si basa la cultura tradizionale giapponese. L’ipotesi che ne è scaturita è quindi che questi giovani, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler sempre primeggiare sia a scuola che al lavoro, non si sentano all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscano quindi rinchiudersi in casa per evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.

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Fonte: Ambientebio

Autore: 
Gino Favola

  
Licenza: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.


Articolo tratto interamente da Ambientebio 



Perché scrivo?



"Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O Anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile."

Fabrizio De André



Le barriere coralline rischiano di scomparire in tutto il mondo

 



Articolo da  Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile - ASviS

Secondo un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, lo sbiancamento dei coralli sta avvenendo più velocemente del previsto. Se non si corre ai ripari, nello scenario peggiore scompariranno entro il 2034.  10/02/21

Entro la fine di questo secolo tutte le barriere coralline del mondo saranno soggette a fenomeni di grave sbiancamento. A dirlo è il rapporto “Projections of future coral bleaching conditions using IPCC CMIP6 models” dell’Unep, il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, che ha analizzato il fenomeno e ipotizzato due scenari futuri. Il documento è stato pubblicato alla fine del 2020 e aggiorna il rapporto Unep 2017 attraverso nuove proiezioni.

Ci sono stati tre grandi eventi globali di sbiancamento dal 1998, l’ultimo è iniziato nel 2014 e si è concluso nel 2017. Questo ultimo evento, insolitamente lungo, rappresenta ciò che le proiezioni del modello climatico utilizzato nel Rapporto suggeriscono possa diventare la norma nei prossimi due decenni. Lo sbiancamento dei coralli è legato alle alte temperature oceaniche. Quando le acque diventano troppo calde, i coralli, minuscoli animali che secernono carbonato di calcio per proteggersi, espellono le microscopiche alghe simbiotiche chiamate zooxantelle, che risiedono nei loro tessuti e perdono il loro colore, sbiancando.

I coralli sono animali tenaci, esistono da centinaia di milioni di anni e si sono adattati ai cambiamenti climatici. Si tratta di uno degli ecosistemi sottomarini più iconici e importanti del nostro pianeta, in grado di nutrire un quarto di tutte le specie marine e fornire cibo, sussistenza e attività ricreative ad almeno un miliardo di persone nel mondo. La maggior parte delle barriere coralline non è ancora mappata e per tenere sotto controllo questo drammatico fenomeno, Vulcan, un'organizzazione filantropica, sta collaborando con l’Unep per sviluppare l’Allen Coral Atlas, l'atlante che utilizza la tecnologia satellitare per creare immagini ad alta risoluzione dei coralli, che vengono poi elaborate in mappe dettagliate. Le mappe catturano le caratteristiche e consentono agli scienziati e alle comunità di confrontare come si è evoluta nel tempo la salute delle barriere coralline.

Il Rapporto, realizzato su modelli climatici aggiornati, esamina lo sbiancamento considerando due dei recenti “Shared socioeconomic pathways” (Ssps), percorsi socioeconomici condivisi, scenari di cambiamenti globali che considerano le emissioni di gas serra e le diverse politiche climatiche messe in campo. I due scenari ipotizzati sono Ssp5-8,5 e Ssp2-4,5.

Ssp5-8,5 è il percorso che rappresenta i tassi attuali e la relativa crescita delle emissioni. È considerato lo scenario peggiore, presuppone che non esista una politica climatica o che questa non sia efficace. Ssp5-8,5 rappresenta un'economia mondiale in crescita fortemente dipendente dai combustibili fossili. Ssp2-4,5 è, invece, uno scenario ambizioso ma plausibile. È un percorso “di mezzo” in cui le emissioni continuano ad aumentare fino alla fine del secolo, raggiungendo tra 65 Gt CO2 e 85 Gt CO2, con un conseguente riscaldamento di 3,8 - 4,2 ° C. Questo scenario è stato scelto perché più realistico se si raggiungessero livelli di riduzione delle emissioni maggiori rispetto a quelli determinati dopo l’Accordo di Parigi.

Nel primo scenario, quello più aggressivo, tutte le barriere coralline sbiancheranno entro fine secolo, con un grave sbiancamento annuale (annual severe bleaching, asb), che si verificherà in media entro il 2034, nove anni prima rispetto alle previsioni pubblicate utilizzando modelli climatici più vecchi. Il fenomeno di sbiancamento grave, sottolinea il Rapporto, varia notevolmente da Paese a Paese. Sei dei 20 Paesi con le più grandi barriere coralline hanno più del 25% di rifugi temporanei, zone con asb proiettato dopo il 2044. Tra questi Paesi ci sono Indonesia (35%), Australia Occidentale (70%), Bahamas (26%), Madagascar (30 %), India (37%) e Malesia (47%). Al contrario, 13 dei 20 Paesi con le maggiori barriere coralline hanno più del 25% di aree che sperimenteranno condizioni gravi di sbiancamento annuale relativamente presto (tra questi, Filippine, Isole Salomone, Fuji, Cuba e Arabia Saudita). Nel secondo scenario, quello di mezzo, il grave sbiancamento annuale potrebbe arrivare nel 2045, 11 anni dopo rispetto allo scenario peggiore.

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Fonte: Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile - ASviS 


Autore: 
Tommaso Tautonico

Licenza: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.


Articolo tratto interamente da Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile - ASviS 



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