Articolo da Enciclopedia delle donne
Lidia Beccaria Rolfi è nata a Mondovì l’8 Aprile del 1925
in una famiglia di contadini, ultima di cinque fratelli. La sua
infanzia è trascorsa serena e, come lei stessa ricorda, imbevuta dalla
propaganda fascista.
Lidia frequenta le scuole magistrali ed è l’unica della famiglia a proseguire gli studi.
Con la promulgazione delle leggi razziali inizia ad avere i primi
dubbi: l’insegnante fa strappare le pagine delle antologie scritte da
autori ebrei e impone di ricomprare l’Atlante perché uno dei due autori è
ebreo. La situazione precipita: l’anno successivo scoppia la guerra.
Lidia accoglie con entusiasmo l’ingresso nel conflitto, ma la guerra
mostra presto il suo vero volto.
Due dei suoi fratelli vengono inviati sul fronte russo, dal quale tornano miracolosamente illesi.
I loro racconti rivelano le sofferenze dei soldati e le atrocità
tedesche verso i civili. È il crollo delle illusioni di Lidia. Nel 1943,
la portata del disastro militare è ormai chiara. Dopo l’8 settembre
inizia la dura repressione tedesca, con la complicità dei fascisti
repubblichini.
Nel frattempo, Lidia si diploma e riceve la prima nomina a maestra elementare nel
paese di Torrette di Casteldelfino, in Valle Varaita. Lei è ormai
cambiata e il rogo di Boves le toglie ogni dubbio: uno dei massacri di
civili innocenti compiuto come rappresaglia dall’esercito nazista il 19
settembre 1943 e poi tra il 31 dicembre 1943 e il 3 gennaio 1944 a
Boves, in provincia di Cuneo.
A diciotto anni diventa staffetta partigiana nella XV Brigata Garibaldi “Saluzzo”,
assumendo il nome di “maestrina Rossana”. Mostra coraggio e
determinazione, correndo rischi mortali. Nella sua casa costruisce le
bombe a mano che poi nasconde in una cassa sotto il letto.
Quando non è impegnata a scuola, tiene i contatti tra la valle e Saluzzo.
I rastrellamenti a tappeto dei nazifascisti iniziano i primi giorni di
marzo del 1944. Lidia torna a Mondovì dove rimane una decina di giorni
per poi rientrare a Casteldelfino e riprendere il suo lavoro a scuola.
La mattina del 13 marzo, in seguito alla delazione di una spia, viene
arrestata dalla Guardia Nazionale Repubblicana e condotta a Sampeyre
dove, dopo l’interrogatorio, subisce torture per un giorno e una notte,
terrorizzata dalle minacce di morte e portata davanti a un plotone di
esecuzione. Lidia resiste, subisce i tormenti con coraggio finché viene
consegnata alla Gestapo e imprigionata per un breve periodo a Saluzzo
per essere poi trasferita alle carceri Nuove di Torino. Saranno due mesi
di grandi angosce, senza contatti esterni, in una piccola cella
sovraffollata, alla mercé di aguzzini crudeli. L’attesa ha termine
quanto le viene comunicato che verrà inviata in Germania “per lavoro”.
Viste le condizioni in cui si trova, Lidia accoglie la notizia con
sollievo.
Nella notte tra il 25 e il 26 giugno del 1944 viene caricata su un carro bestiame insieme ad altre prigioniere.
Il treno viaggia per quattro giorni. Sia lei sia le compagne non
riescono a immaginare nulla di peggiore della vita passata nelle
carceri, con le ripetute torture e il timore di rappresaglie nei
confronti dei familiari. La sera del 30 giugno 1944 il treno si ferma
alla stazione di Furstenberg, nel Meckleburgo, a ottanta chilometri da
Berlino. La accolgono le SS, viene incolonnata e a piedi percorre i
quattro chilometri che la separano dalla destinazione. Un alto muro, un
portone, aperto, sormontato da torrette di guardia. Un gran numero di
donne in attesa di varcarlo. E Lidia entra, insieme alle sue tredici
compagne, nel campo di concentramento di Ravensbruck, l’unico lager
nazista per sole donne. Il loro è il primo gruppo di italiane non ebree a
essere internate.
L’impatto è terribile e viene raccontato con fredda lucidità nel libro scritto insieme ad Anna Maria Bruzzone: Le donne di Ravensbruck edito da Einaudi.
Prima incredula, Lidia scopre la brutalità nazista, la spietata
determinazione nel disumanizzare le prigioniere. Il bisogno primario del
cibo porta le persone a lottare fra di loro, i ricordi si
affievoliscono, la dignità, l’identità scompaiono, tutto si concentra
nella necessità di sopravvivere.
Il degrado fisico è rapido, a diciannove anni mostra un precoce invecchiamento: scompare
il ciclo mestruale, appaiono i primi capelli bianchi e il corpo si
riempie di piaghe per la mancanza di vitamine. Intorno, un universo di
desolazione e morte che la mente fatica a elaborare. Nel libro racconta,
con prosa asciutta ed essenziale, la lotta per non soccombere al freddo
e alla fame. È una detenuta comune, solo un corpo disponibile per i
lavori più massacranti, con le caposquadra che si accaniscono a colpi di
bastone.
Nella camerata avviene l’incontro con le deportate francesi,
con le quali stringe una forte amicizia che durerà anche dopo la
guerra. Le italiane sono guardate con diffidenza dalle altre internate,
perché appartengono a una nazione alleata della Germania. L’ostilità
cessa in seguito a un piccolo episodio: una di loro intona in francese
“Bandiera rossa” e Lidia, istintivamente, si unisce al canto in
italiano. Le partigiane francesi cambiano atteggiamento e la aiutano a
entrare nella fabbrica della Siemens, che si trova ai margini del lager e
dove le condizioni di vita sono appena migliori, ma sufficienti a non
soccombere. Lidia riesce a trovare i mezzi per scrivere, ruba della
carta in fabbrica e recupera, grazie ad alcune compagne, un album da
disegno e un mozzicone di matita. A rischio di severe punizioni, inizia
ad annotare quello che vede, esercita la mente al ricordo, elabora la
nostalgia di casa e il desiderio di scrivere e ricordare quello che sta
vivendo per tornare e raccontarlo.
Malgrado sia debilitata, pesa trentadue chili,
resiste all’ultima fatica quando le SS, di fronte all’avanzata russa,
costringono le prigioniere a marciare nel freddo, sotto la pioggia
battente e con pochissimo cibo. Sfinita, perde i contatti con le altre e
incontra fortunosamente un gruppo di internati militari italiani che la
assistono. Il 30 aprile 1945 i russi liberano le prigioniere e le
affidano agli americani.
Ma la liberazione rappresenta l’inizio di altre, nuove sofferenze:
sia gli americani sia gli inglesi si dimostrano insensibili nei
confronti delle deportate politiche, e non si fanno scrupolo di
dimostrare il loro disprezzo per queste donne che sospettano di aver
concesso favori sessuali ai nazisti. Le abbandonano a se stesse, senza
riconoscere loro nemmeno il diritto di ricevere i pacchi della Croce
Rossa.
Lidia sopporta tutto con grande forza d’animo.
Rimane a Lubecca, in un ex campo di prigionia, per tre mesi, finché la
protesta collettiva delle donne obbliga gli inglesi, responsabili del
campo, a disporre il loro ritorno. Un viaggio di quindici giorni per
sperimentare, con immensa amarezza, una accoglienza fredda e distante.
Tornata in patria, molti la giudicano poco più di una prostituta:
pregiudizi durati molto a lungo e molto diffusi, anche tra i partigiani
stessi. Gli sforzi di Lidia si infrangono contro un muro di
indifferenza.
Rientra nel giugno del 1945. Naturalmente lei nulla
sa degli sviluppi delle lotte partigiane e di tutto quanto era accaduto
in Italia prima della liberazione. Vuole sapere, va alle riunioni dei
vari partiti che si preparano per le elezioni, cerca di capire e di
partecipare. Dopo molti tentativi, nei quali cerca di raccontare le
sofferenze patite, si chiude in un mutismo triste, carico di una
diffidenza che avverte anche da parte della sua famiglia, che pure l’ha
riaccolta con gioia.
Il mutato clima politico degli anni successivi peggiora la situazione:
con la guerra fredda il nemico è diventato il comunismo, dei crimini
nazifascisti non si parla. La società italiana risulta ancora
contaminata dal passato fascista: burocrati, politici e personale
scolastico, compromesso con il passato regime, mantengono ruoli di
potere, spesso emarginando i testimoni scomodi. A lei viene impedito di
riprendere servizio nella scuola da un provveditore dal passato
fascista, rimasto al suo posto.
Vive isolata, a parte i contatti che tiene con le poche persone che hanno vissuto la sua stessa esperienza.
Ancora nessuno in Italia ha sentito parlare di Ravensbruck, citato solo
in un libro scritto da Lord Russell e pubblicato in Italia nel 1955: Il flagello della svastica.
Finalmente Lidia riesce a riprendere l’insegnamento, in paesini sperduti.
Anche qui viene guardata con diffidenza, controllata dalle autorità
scolastiche per il suo passato partigiano e la deportazione in Germania.
Entra in contatto con alcuni deportati con i quali riesce a confrontare
le esperienze vissute. Partecipa al primo congresso dell’Associazione
ex-deportati a Verona, nel gennaio del 1957. Nessuna donna sarà eletta
negli organi dirigenziali e permane il silenzio su Ravensbruck.
Nel secondo congresso, tenutosi a Torino nel dicembre del 1958,
si verifica un mutamento di indirizzo e Lidia entra a far parte del
consiglio nazionale. È la sola donna a parlare. La sala è piccola e le
persone che assistono non sono molte. Tra queste però ci sono numerosi
giovani, meno compromessi con il passato, sinceramente interessati alle
testimonianze pubbliche dei sopravvissuti ai campi nazisti, desiderosi
di sapere.
Incoraggiata dall’interesse riscontrato, Lidia raccoglie gli appunti
scritti di getto quando non aveva ancora vent’anni e li rielabora. È una
svolta. Consegue la laurea e inizia a insegnare all’Istituto magistrale
di Mondovì. Ora le è chiaro che il suo compito è quello di ricordare e
si trasforma in una testimone instancabile di un’epoca, di esperienze
profonde, sconvolgenti, incredibili.
Il suo impegno non viene mai meno, pur sofferente per i postumi della prigionia.
Instancabile, racconta ai giovani la propria storia, va nelle scuole e
promuove incontri. Per lei non esistono “ex deportate”, perché quella è
un’esperienza che non si può cancellare e ritiene essenziale far
conoscere alle nuove generazioni quegli avvenimenti.
Dobbiamo in gran parte a lei se conosciamo la realtà di Ravensbruck
e il destino delle donne prigioniere in quel campo. Centotrentadue mila
prigioniere, novantadue mila di loro morte, moltissime delle scampate
debilitate nel fisico e nella mente, molte sottoposte a crudeli
esperimenti medici.
Lidia Beccaria Rolfi sarà, dal 1958 fino alla sua morte – avvenuta nel 1996 – la rappresentante per l’Italia del Comitato internazionale di Ravensbruck.
Stringe un’intensa amicizia con Primo Levi, saldata dalla medesima
esperienza e dal profondo bisogno di tramandare la memoria alle future
generazioni. Il figlio Aldo racconta, in un intervento alla casa della
memoria di Milano il 26 febbraio 2016, che spesso Primo Levi la
chiamava: “ho bisogno di aria del campo”, le diceva.
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Fonte: Enciclopedia delle donne
Autore: Gianfranco Coscia
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Articolo tratto interamente da Enciclopedia delle donne