martedì 4 gennaio 2022

Grecia: la criminalizzazione della solidarietà

 


Articolo da Progetto Melting Pot Europa

La situazione per i migranti in Grecia non fa più notizia, ma si può definire come una costante “emergenza”. Più i riflettori europei sono rivolti altrove, e più il governo greco fa da sé. Il risultato? Nulla di buono – né per i migranti, né per le ONG e i volontari internazionali e locali che cercano di rimediare alle mancanze, e alla violenza, dello stato.

Mentre aumenta il numero di rifugiati, provenienti soprattutto dall’Afghanistan, considerati “nemici” dai Taliban, il governo greco ha avviato la costruzione di nuovi campi sulle isole. I Multi-Purpose Reception & Identification Centre (MPRIC) sono finanziati dall’Unione Europea, in seguito alla chiusura dei precedenti e all’incendio di Moria (Lesvos). Il primo campo è stato aperto a settembre sull’isola di Samos e ha sancito l’inizio di una nuova fase nelle politiche migratorie greche: campi chiusi e video sorvegliati. La Commissaria europea per i diritti umani, Dunja Mijatovic, già a maggio aveva espresso preoccupazione, esortando il governo greco a riconsiderare la natura dei nuovi campi.

Non c’è stato verso: i nuovi campi hanno tutte le caratteristiche promesse dal governo: sono costruiti in zone remote, circondati da filo spinato, muniti di sistemi di videosorveglianza degni di un presidio militare: doppie porte, sbarre d’acciaio, filo spinato, cemento armato e scanner. Mentre il governo dichiara che si tratta di alloggi di ottima qualità, dotati di acqua corrente e di servizi igienici adeguati, Medici Senza Frontiere li classifica come “campi-prigione” (dall’inglese: “prison-like”). I cancelli del campo rimangono chiusi di notte, gli “ospiti” devono rientrare entro le 20. Anche i bambini di ritorno da scuola devono essere perquisiti per poter rientrare nei propri container – le abitazioni: prefabbricati con 5 letti. L’accesso al campo è strettamente sorvegliato e attualmente nessuna ONG ha il permesso di entrare.

Oxfam, nel nuovo rapporto uscito a novembre, denuncia che la detenzione è diventata la nuova prassi. I dati riportati mostrano una situazione estremamente preoccupante. Ad oggi, sette migranti su dieci sono in “detenzione amministrativa” già al momento della presentazione della domanda di asilo. Una persona su cinque viene messa in detenzione prolungata in stanze che erano designate per una detenzione di poche ore. La detenzione non viene risparmiata neanche a donne, bambini e persone in situazioni di vulnerabilità. Quasi la metà dei migranti che arriva in Grecia (46%) è costretta a restare all’interno dei “centri di detenzione pre-allontanamento” per un periodo superiore ai 6 mesi. 

Anche quanti dovrebbero essere “riammessi” in Turchia, dichiarata dal governo greco nel giugno 2021 come paese terzo sicuro per i richiedenti asilo provenienti da Siria, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e Somalia, si trovano in una situazione di detenzione prolungata. Grazie all’accordo, fortunatamente stipulato dal governo greco con Erdogan prima della presa dell’Afghanistan da parte dei Taliban, le loro richieste di asilo vengono dichiarate “inammissibili”, senza un’analisi individuale del caso, come invece prevede la legge internazionale. Tuttavia, a causa della pandemia Covid-19, la Turchia non accetta riammissioni da marzo 2020. Ne consegue che migliaia di persone sono bloccate sulle isole greche in una situazione di limbo politico-burocratico e vengono privati di ogni libertà. A nulla sono servite le critiche da parte dell’UNHCR, che aveva tentato di mettere in guardia rispetto a questo esito, prevedibile ed evitabile.

Come se questo non fosse sufficiente a indicare il cambio di rotta preoccupante delle politiche migratorie, i respingimenti in mare avvengono sempre più alla luce del sole, monitorati quotidianamente dalla ONG Aegean Boat Report. A inizio novembre Aegean Boat è riuscita a mandare a monte quello che sarebbe altrimenti stato il più grande respingimento degli ultimi anni, come riportano testate internazionali, quali il Guardian (5/11/21). Si trattava di un’imbarcazione con 382 persone a bordo. Neppure questo ha portato a una maggior rispetto delle leggi internazionali a protezione dei diritti umani: a distanza di un mese lo sconcertante caso dell’interprete di Frontex. Residente nell’unione europea di origine afghana, l’interprete è stato “scambiato per un rifugiato” ed è stato espulso insieme alle altre persone migranti in mare. In base a quanto riportano i giornali, tra cui il New York Times (1/12/21), quando l’interprete ha espresso di fronte agli agenti di frontiera di lavorare per Frontex non solo non è stato creduto, ma è stato anche deriso. Ne è conseguito lo stesso trattamento riservato ai migranti: ha subito violenza fisica e verbale. Inoltre, l’interprete, che per ragioni di sicurezza ha richiesto di restare anonimo, ha testimoniato che le persone migranti sono state private di telefoni, vestiti e i loro documenti sono stati stracciati. Anche questo “incidente” che avrebbe dovuto, o quanto meno potuto, scatenare uno scontro diplomatico è passato in sordina e, ancora una volta, dimenticato.

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Fonte: Progetto Melting Pot Europa 

Autore: 
Laura Dellagiacoma


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Articolo tratto interamente da Progetto Melting Pot Europa


2 commenti:

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