venerdì 31 gennaio 2020

Citazione del giorno


"Non è mai troppo tardi per diventare quel che vuoi essere."

George Eliot


Le crisi umanitarie dimenticate



Articolo da Info Cooperazione

Si sono verificate nel continente africano nove su dieci delle cosiddette crisi dimenticate, eventi drammatici che hanno coinvolto milioni di persone che vanno dalla siccità, ai conflitti, alle epidemie e all’insicurezza alimentare. In molti paesi i cambiamenti climatici stanno trasformando emergenze occasionali in eventi quasi “quotidiani”, rischiando così che il focus della comunicazione si sposti altrove nonostante la crisi continui ad esserci, ormai inascoltata.

Succede così che sui nostri media questi drammi di intere popolazioni sia raccontati con un trafiletto di dieci righe o con la citazione di un comunicato stampa mentre si consumino fiumi di inchiostro per fomentare un inutile dibattito sulla presunta crisi migratoria. Sarebbe invece più utile parlare di più e meglio di questi eventi avversi e dei drammi che milioni di persone stanno affrontando per capire le ragioni profonde dei flussi migratori, in particolare quelli provenienti dall’Africa.


Non sorprendono quindi i risultati del rapporto “Suffering in Silence: the 10 most under-reported humanitarian crises of 2019” che analizza le dieci crisi che hanno ricevuto meno attenzione (o non hanno ricevuta affatto) da parte dei media nel 2019. L’analisi dell’organizzazione internazionale CARE si riferisce alla copertura mediatica online globale e mostra una tendenza relativa ad alcuni Paesi che ricorrono ogni anno nell’elenco, il rapporto infatti è arrivato alla sua quarta edizione ed è stato arricchito includendo fonti di media online spagnole e arabe oltre che quelle inglesi, francesi e tedesche precedentemente analizzate. Le ricerche e le analisi hanno prodotto un database di oltre 2,4 milioni di articoli pubblicati nel 2019 che hanno permesso di identificare quali crisi umanitarie hanno avuto minor attenzione mediatica a livello globale.

Si rileva inoltre una crescita dei collegamenti tra gli effetti dei cambiamenti climatici causati dall’uomo e la longevità e la complessità delle crisi umanitarie; dal Madagascar al Lago Ciad alla Corea del Nord, la maggior parte delle crisi classificate sono in parte conseguenza della mancata gestione delle risorse naturali, dell’aumento degli eventi meteorologici estremi e del riscaldamento globale in senso più ampio. Ecco di seguito l’elenco stilato nel rapporto:

1.      Madagascar: colpito dalla crisi climatica, oltre 2,6 milioni di persone colpite dalla siccità
Alla fine del 2019, oltre 2,6 milioni di persone sono state colpite dagli effetti della siccità, e più di 916.000 persone hanno avuto bisogno immediato di assistenza alimentare. Il Madagascar ha il quarto tasso più alto al mondo di malnutrizione cronica, con un ogni due bambini al di sotto dei cinque anni soffrono di arresto della crescita.

2.      Repubblica Centrafricana: un brutale conflitto nel cuore dell’Africa, circa 2,6 milioni di persone hanno un disperato bisogno di assistenza umanitaria
Violenti scontri e attacchi contro i civili hanno costretto un cittadino su quattro della Repubblica Centrafricana a fuggire dalle proprie case. Più di 600.000 persone sono sfollate all’interno del proprio paese e quasi 594.000 persone hanno cercato rifugio nei paesi vicini come il Camerun, la Repubblica Democratica del Congo e il Ciad, tutti Paesi che lottano con alti tassi di povertà.

3.      Zambia: sul fronte del cambiamento climatico, circa 2,3 milioni di persone nel paese hanno urgente bisogno di assistenza alimentare
In Zambia, gli effetti del cambiamento climatico sono innegabili. Si stima che 2,3 milioni di persone nel paese abbiano urgente bisogno di assistenza alimentare a causa di ricorrenti e prolungate siccità. L’insicurezza alimentare dovuta a eventi meteorologici estremi, a parassiti o epidemie non è una novità per le nazioni senza sbocco sul mare nell’Africa meridionale. Tuttavia, le temperature nella regione stanno aumentando a circa il doppio del tasso globale, secondo il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici.

4.    Burundi: instabilità che alimenta una crisi umanitaria, 1,7 milioni di persone lottano cronicamente per nutrire le loro famiglie
Con una prolungata insicurezza politica, alti livelli di povertà e significative preoccupazioni in materia di diritti umani, la situazione umanitaria in Burundi rimane fragile. Catastrofi naturali, movimenti della popolazione, epidemie di malaria e il rischio che l’Ebola attraversano il Paese aggravando una situazione già precaria.


5.      Eritrea: in fuga dalla siccità e dalla repressione, la metà di tutti i bambini sotto i cinque anni è stata stentata a causa della malnutrizione
Una grave siccità nel 2019 dopo un anno secco sopra la media nel 2018 ora peggiora la situazione poiché ulteriori insuccessi colturali portano all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione in ampie parti della popolazione. Le comunità nomadi sono particolarmente vulnerabili alle catastrofi naturali come la siccità e le inondazioni durante le stagioni delle piogge.


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Fonte: Info Cooperazione

Autore: redazione Info Cooperazione


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Articolo tratto interamente da Info Cooperazione



Le Nazioni Unite hanno respinto l'accordo del secolo



Articolo da Agenzia stampa Infopal

Ginevra – MEMO. Le Nazioni Unite hanno respinto l'”Accordo del Secolo” del presidente USA Donald Trump, e hanno ribadito che il conflitto israelo-palestinese dovrebbe essere risolto sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale.

In una dichiarazione, Stephane Dujarric, portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato: “La posizione delle Nazioni Unite sulla soluzione a due Stati è stata definita, nel corso degli anni, dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale, alle quali è vincolato il Segretariato”.

Ha aggiunto: “Le Nazioni Unite continuano a sostenere palestinesi ed israeliani nella risoluzione del conflitto sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e degli accordi bilaterali e della realizzazione della visione di due Stati – Israele e Palestina – che vivono fianco a fianco, in pace ed sicurezza, all’interno di confini riconosciuti, sulla base delle frontiere pre-1967”.


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Fonte: Agenzia stampa Infopal


Autore: 
redazione Infopal

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Articolo tratto interamente da Agenzia stampa Infopal 



Stromboli

Stromboli - The Black Island from Andrea Di Stefano on Vimeo.

Photo e video credit Andrea Di Stefano caricato su Vimeo - licenza: Creative Commons 


L'Isola di San Giorgio Maggiore

Isola Di San Giorgio Maggiore | 4K Sequence Shot from Pier-Yves Menkhoff Films on Vimeo.

Photo e video credit Pier-Yves Menkhoff Films caricato su Vimeo - licenza: Creative Commons 


Appello per lo sciopero di Non Una Di Meno



Comunicato da NonUnaDiMeno

A quattro anni dal primo sciopero femminista e transfemminista la sollevazione globale delle donne e delle soggettività dissidenti non si ferma e, sempre di più, segna e travolge tutte le lotte esistenti.
Per questa ragione vogliamo lanciare una sfida moltiplicando tempi e luoghi della nostra rivolta: l’8 marzo sarà giornata globale di mobilitazione sui territori e il 9 marzo giornata di sciopero. Ci riapproprieremo di ogni spazio che quotidianamente ci viene sottratto: nelle città in nome di una presunta sicurezza, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, nelle case. Trasformeremo il nostro tempo in agitazione, per riempirlo dei nostri desideri e costruire insieme strategie comuni, a dispetto di chi ci vorrebbe isolat* nelle nostre solitudini. Lo sciopero femminista e transfemminista è un atto politico di rifiuto della violenza.
Ci ribelliamo al quotidiano ripetersi degli stupri e dei femminicidi che vengono ormai trattati come qualcosa di ordinario e sempre, irrimediabilmente, come una responsabilità delle donne.
Ci ribelliamo alla brutalità che si scaglia contro le persone LGBT*QIA+, che si traduce in aggressioni verbali e fisiche che arrivano fino all’omicidio, maggiori difficoltà di accesso al lavoro, patologizzazione psichiatrica e svalutazione dell’autodeterminazione.
Ci ribelliamo alla violenza del patriarcato istituzionale: quella che nei tribunali punisce con la revoca dell’affido le donne e i minori che rompono il ricatto della violenza domestica; quella che criminalizza le donne che denunciano molestie, abusi o violenze; quella praticata negli ospedali dove viene sistematicamente ostacolata la nostra libertà di scegliere sui nostri corpi e sulle nostre vite; quella riprodotta nelle scuole e nelle università quando il sapere serve a legittimare ruoli e gerarchie di genere.
Ci ribelliamo alla violenza di chi tratta i nostri corpi e quelli di tutte le specie viventi e della terra come terreno fertile di profitto e sfruttamento.
Ci ribelliamo alle molestie che ci tormentano sui posti di lavoro per farci accettare silenziosamente il nostro sfruttamento quotidiano e salari sistematicamente più bassi di quelli degli uomini.
Ci ribelliamo al razzismo che si impone sui nostri corpi con la ferocia degli stupri sui confini e nei centri di detenzione, con lo sfruttamento di chi è ricattabile e senza diritti, che ci segue anche se siamo nate e nat* e cresciute in Europa, che ostacola continuamente con i confini la nostra libertà di muoverci.
Lo sciopero femminista e transfemminista è una rivolta globale. Le donne curde sul fronte della guerra scoppiata in Medioriente stanno combattendo contro il fondamentalismo patriarcale, neoliberale e autoritario che lega Erdogan, Trump, la Russia e l’Europa.
In America latina e in Africa da mesi insorgono sfidando la devastazione ambientale che sta travolgendo la vita di milioni di persone in nome di una colonizzazione capitalistica che passa attraverso lo sfruttamento e la distruzione degli ecosistemi, l’estrazione di risorse naturali e lavoro vivo, le imposizioni del fondo monetario internazionale e la repressione feroce dei governi nazionali.
In India sono sempre le donne che stanno combattendo per sfidare il razzismo istituzionale. Accanto a loro, in Italia e in Europa, noi pratichiamo lo sciopero come un processo che ci dà forza per rompere l’isolamento e i rapporti di potere esistenti.
Lo sciopero femminista e transfemminista è il momento in cui convergiamo in un’unica presa di parola. In comunicazione transnazionale con ogni rivolta femminista nel mondo, l’8 e il 9 marzo scendiamo in piazza insieme ed esprimiamo la nostra forza affinché ciascuna possa sentire di avere il potere di sottrarsi al ricatto della violenza domestica, istituzionale, economica, mediatica e giuridica e affinché tutte possiamo praticare una possibilità di liberazione dalla quale non vogliamo più tornare indietro.
L’8 daremo visibilità e parola a quelle condizioni di lavoro e vita che rischiano di essere considerate invisibili perché «è normale» che una madre passi la domenica a fare le pulizie mentre cucina per tutta la famiglia, o che le casse dei supermercati siano aperte e gestite da qualcuna che, per uno stipendio da fame, deve lavorare anche di domenica, magari sentendosi in colpa per aver «abbandonato i doveri familiari».
Per noi non è «normale» e in tutte le città mostreremo quello che è invisibile insieme al nostro rifiuto di accettare docilmente questo doppio sfruttamento, mostreremo quale rapporto ci sia tra la violenza domestica e quella sui posti di lavoro, tra lo sfruttamento che ci impongono i nostri padri, compagni e datori di lavoro, i governanti e la miseria dei nostri salari.
Per questo il 9 marzo proclameremo ancora una volta lo sciopero generale femminista e incroceremo le braccia, interrompendo il lavoro nelle nostre case, nelle fabbriche, negli ospedali, nei magazzini e nelle scuole, negli uffici e nelle mense, senza distinzioni di categoria.
Rivendichiamo liberazione ed emancipazione, un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale.Vogliamo aborto libero sicuro e gratuito, accesso alle cure e alla salute. Vogliamo autonomia e libertà di scelta sulle nostre vite, sui nostri generi e i nostri orientamenti sessuali. Vogliamo ridistribuire il carico del lavoro di cura. Vogliamo essere libere e liberu di andare dove vogliamo senza avere paura, di muoverci e di restare contro la violenza razzista e istituzionale. Vogliamo l’abrogazione delle leggi Sicurezza. Vogliamo la chiusura dei CPR, un permesso di soggiorno europeo senza condizioni, la rottura del legame tra soggiorno, lavoro e relazioni familiari e la cittadinanza per chi nasce e cresce in Italia. Vogliamo porre fine alla violenza patriarcale che sostiene questa società diseguale e questo modello economico capitalista ed estrattivista che distrugge il pianeta.
Siamo in agitazione permanente: per noi il femminismo è una postura e una lotta quotidiana. Verso l’8 e il 9 marzo costruiamo rivolta, riflessione e agitazione a partire dai territori che abitiamo: assemblee nelle città, incontri e mobilitazioni studentesche, riunioni sui posti di lavoro, intervento nei quartieri popolari, alleanze intersezionali senza confini.
Sappiamo che non tutt* potremo scioperare in maniera convenzionale, perché a molt* di noi il diritto di sciopero è stato sottratto! Precarietà, lavoro sommerso, disoccupazione: nessun* merita di rimanere sol*! Ed è’ per questo che invitiamo ognun* a partecipare e a rendere visibile la sua adesione allo sciopero nelle forme in cui sarà possibile e che diffonderemo nei prossimi giorni.
L’8 e il 9 marzo costruiremo tempi femministi con cui scandire le ore della nostra giornata, fuori dalla retorica dell’orologio biologico, ci riprenderemo ogni spazio che ci è stato negato! Perché lo abbiamo detto e non finiremo di ripeterlo: se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo!
Non Una di Meno


Pollice su e giù della settimana


Primo caso al mondo: evitato il trapianto di fegato su 3 neonati grazie alle cellule staminali tratto da Universomamma





Eurispes: la Shoah per il 15% degli italiani non è mai esistita. Il rapporto choc tratto da il Corriere della Sera












giovedì 30 gennaio 2020

Siamo uomini o caporali?


"L'umanità io l'ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell'ombra grigia di un'esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l'autorità, l'abilità o l'intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque."

Totò (Antonio De Curtis)

Tratto dal film Siamo uomini o caporali?





mercoledì 29 gennaio 2020

Cresce l’allerta per il coronavirus


Articolo da OggiScienza

L’allarme per l’epidemia scatenata dal coronavirus di Wuhan non si placa e il numero dei contagi deve essere aggiornato di continuo: in Cina il bilancio è di oltre 4.500 casi confermati e 106 decessi. Fuori dal Paese si contano una cinquantina di casi, in gran parte persone che hanno contratto il virus durante un soggiorno in Cina. Dove purtroppo il numero delle vittime è destinato a salire perché le autorità sanitarie riferiscono di centinaia di persone ricoverate in condizioni critiche. Per fronteggiare l’emergenza, a Wuhan sono in costruzione due nuovi ospedali da ultimare in tempi record per offrire altri 2.600 posti letto.

Nonostante una decina di città della provincia di Hubei siano state praticamente isolate, il contagio non sembra rallentare. Basta dare uno sguardo alla mappa realizzata dai ricercatori della Johns Hopkins University (Stati Uniti) per farsi un’idea della rapidità con cui si diffonde l’epidemia. Fare previsioni su quel che accadrà è però ancora un azzardo perché, a due mesi dai primi casi di infezione, restano molte incertezze su origini, contagiosità, letalità e modalità di trasmissione del coronavirus. Gli scienziati che studiano l’epidemia e le autorità sanitarie chiamate a gestire il rischio sono di fronte a un vero rompicapo.

Un rebus a RNA


Per le autorità cinesi l’epidemia sarebbe partita dal mercato del pesce di Wuhan, dove si vendono anche animali selvatici vivi. L’ipotesi più accreditata è che il virus sia di origine animale, ma non è chiaro quale specie lo abbia trasmesso agli esseri umani. Nei giorni scorsi uno studio pubblicato sul Journal of Medical Virology aveva puntato il dito sui serpenti: dopo aver comparato l’RNA del virus 2019-nCoV con quella di altri 276 coronavirus identificati in diverse specie animali, i ricercatori hanno concluso che il nuovo agente patogeno, molto affine a quello che provoca la SARS, sia passato dai pipistrelli ai serpenti e dai serpenti all’uomo. Altri esperti, tuttavia, non sono affatto convinti di questa spiegazione, che al momento resta solo un’ipotesi. È più probabile che il passaggio all’uomo sia avvenuto da un mammifero come il pipistrello, ma a conti fatti l’origine della malattia è ancora misteriosa.

Tanto più che secondo una ricostruzione della rivista medica The Lancet la prima persona in cui è stato riscontrato il nuovo coronavirus non avrebbe mai messo piede al mercato di Wuhan. Molti esperti restano però convinti che l’origine del primo focolaio vada cercata tra quelle bancarelle affollate dove, prima che il mercato fosse chiuso, si vendevano anche animali selvatici in grado di agire da bacino per il coronavirus, compresi pipistrelli e serpenti. Circa due terzi dei primi contagi, del resto, hanno coinvolto persone che avevano frequentato il mercato di Wuhan poco prima di ammalarsi. Difficile però stabilire se il contagio sia partito da un animale infetto o se sia stato diffuso tra gli avventori del mercato da una persona che si è infettata altrove.

Un secondo elemento di incertezza riguarda la contagiosità del virus. Sappiamo che può trasmettersi per via aerea da persona a persona, ma non è chiaro con quanta facilità avvenga il contagio. Un agente patogeno si diffonde velocemente se, in media, ogni individuo infettato contagia più di un’altra persona. Secondo una stima dell’Imperial College di Londra, le persone infettate dal nuovo coronavirus hanno contagiato in media altre 2,6 persone. Se così fosse, saremmo in presenza di un agente infettivo capace di trasmettersi piuttosto velocemente: più o meno come la comune influenza stagionale, ma meno di patogeni molto contagiosi come il morbillo.


Infine, è ancora troppo presto per dire quanto sia pericoloso il nuovo virus: gran parte delle persone infettate guarisce e la letalità sembra inferiore a quella davvero temibile della SARS, capace di uccidere una persona contagiata su dieci. Il bilancio si potrà fare soltanto al termine dell’epidemia, e come andrà a finire dipenderà anche dalle mutazioni che il virus potrebbe subire nel tentativo di adattarsi all’organismo umano, aggiungendo incertezza all’incertezza.

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Fonte: OggiScienza


Autore: 
Giancarlo Sturloni

Licenza: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 2.5 Italia.


Articolo tratto interamente da
 OggiScienza  



L'odore dell'inverno di Anton Cechov


L'odore dell'inverno

Il tempo dapprincipio fu bello,
calmo. Schiamazzavano i
tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo
faceva un brusio, come se
soffiasse in una bottiglia vuota.
Passò a volo una beccaccia e
nell'aria con allegri rimbombi.
Ma quando nel bosco si fece
buio e soffiò da oriente un vento
freddo e penetrante, tutto tacque.
Sulle pozzanghere si allungarono
degli aghetti di ghiaccio.
Il bosco divenne squallido, solitario.
Si senti l'odore dell'inverno.


Anton Cechov

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Proverbio del giorno


Il tempo consuma ogni cosa.


lunedì 27 gennaio 2020

Per non dimenticare


27 gennaio - Giorno della Memoria

Contro gli olocausti di ieri e quelli di oggi.

"La chiave per comprendere le ragioni del male è l'indifferenza: quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c'è limite all'orrore."

Liliana Segre




Ho giurato...



"Ho giurato di non stare mai in silenzio, in qualunque luogo e in qualunque situazione in cui degli esseri umani siano costretti a subire sofferenze e umiliazioni. Dobbiamo sempre schierarci. La neutralità favorisce l’oppressore, mai la vittima. Il silenzio aiuta il carnefice, mai il torturato."

Elie Wiesel


Elezioni regionali: in Emilia vince Bonaccini e in Calabria Santelli


Articolo da NewsTown

Stefano Bonaccini (centrosinistra) vince in Emilia Romagna; Jole Santelli (centrodestra) in Calabria.

Sono questi i risultati delle elezioni regionali, con il Pd che si attesta primo partito in Calabria e la Lega  che potrebbe essere il partito più votato in Emilia Romagna.

Emilia Romagna

A scrutinio ancora in corso, in Emilia Romagna si consolida il vantaggio del candidato del centrosinistra, Stefano Bonaccini, con il 50,9%, nettamente indietro la sfidante del centrodestra, Lucia Borgonzoni con il 44,2%. Crollano i pentastellati: Simone Benini si attesta nelle proiezioni al 3,5%.

Sulla base di quanto emerge dalle proiezioni di Opinio Italia per la Rai, relative al 60% del campione, non solo potrebbe esserci stato un voto disgiunto dei Cinque stelle verso il candidato presidente del centrosinistra Stefano Bonaccini, ma anche un voto disgiunto degli elettori dei partiti di centrodestra verso lo stesso Bonaccini. La coalizione di centrosinistra, infatti conquista meno consensi del candidato presidente, fermandosi al 47%. Rapporto invertito per il centrodestra che con il 46,6% ha più voti della candidata presidente. Il Pd torna primo partito con il 32,7%, Lega al 31,9%. La terza piazza è di Fratelli d'Italia con il 9,4%, quindi il Movimento Cinquestelle con il 4,8%. Forza Italia è data al 3%. Il governatore PD riconfermato Stefano Bonaccini ha attribuito la propria vittoria all'aver saputo recuperare il voto degli astenuti. Questa vittoria "sia una lezione per il futuro", ha detto, "ce n'eravamo dimenticati di stare in piazza, di stare di più tra le persone", "la gente al voto rafforza la qualità della democrazia" .

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Fonte: NewsTown


Autore: redazione News Town


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Articolo tratto interamente da NewsTown



Morto Kobe Bryant, leggenda dell'NBA

Kobe Bryant 8

Articolo da Vivere Italia

27/01/2020 - Sette anni passati in giro per il bel paese seguendo il padre giocatore. Per questo l'ex stella Nba parlava bene l'italiano e amava l'Italia.

Kobe Bryant amava l'Italia. E l'amava perché in quei sette anni passati nel nostro Paese, dai 6 ai 13 anni, aveva imparato a giocare a pallacanestro. L'ex stella della Nba stava viaggiando sul mezzo privato con anche la secondogenita, Gianna Maria, di 13 anni, quando il velivolo è precipitato. Nessuno è sopravvissuto, con nove vittime in totale.

L’incidente è avvenuto a Calabasas, in California, domenica mattina, ma gli investigatori sono ancora a lavoro per stabilirne le cause. L’elicottero, un Sikorsky S-76B costruito nel 1991, era partito dall’aeroporto di Orange County, dove Kobe viveva alle 9:06 locali. Le prime chiamate alla polizia per l’incidente sono arrivate dopo 41’: “Abbiamo ricevuto la chiamata per un incidente alle 9:47 del mattino. I detriti coprivano quasi un ettaro di terreno e l’incidente ha causato un incendio. Abbiamo immediatamente avviato la macchina dei soccorsi, abbiamo cercato eventuali superstiti ma tutte le persone a bordo sono morte” ha raccontato un portavoce della polizia.

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Fonte: Vivere Italia


Autore: 
Edoardo Diamantini

Licenza: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported


Articolo tratto interamente da Vivere Italia

Photo credit Kobe_Bryant_7144.jpg: Sgt. Joseph A. Leederivative work: JoeJohnson2 [Public domain]


domenica 26 gennaio 2020

Citazione del giorno


"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre."

Primo Levi


La Shoah in Italia


Articolo da Novecento.org
Abstract
Il contributo ripercorre la genesi dell’antisemitismo fascista. L’auspicato «uomo nuovo» fascista doveva essere «francamente razzista», cioè consapevole della propria superiorità «razziale» e del proprio destino imperiale. Un bacino di credenze razziste e antisemite antiche, circoli estremisti della leadership fascista, l’esempio del Terzo Reich, supportano la svolta del regime. Preceduto dalla legislazione segregazionista coloniale dell’aprile del 1937, il 1938 viene inaugurato dal «censimento della razza», a cui segue in tempi rapidissimi la promulgazione di un corpus di leggi antiebraiche, basate sul razzismo di tipo biologico, che sanciscono una condizione di duro apartheid per gli italiani e l’espulsione per gli ebrei stranieri. Alla fase di «persecuzione dei diritti» (1938-1943), segue quella di «persecuzione delle vite» (8 settembre 1943-liberazione), quando nel territorio occupato dai tedeschi e soggetto al governo collaborazionista della Repubblica sociale italiana gli ebrei vengono cacciati come prede e inviati allo sterminio. Alle prime razzie autunnali del 1943, coordinate direttamente dalle forze di occupazione, presto si intreccia la politica antiebraica autonoma della Rsi. È il segmento italiano della Shoah europea, che oggi la storiografia ci consente di leggere nella sua specificità, grazie a un consolidato filone di studi.

1. «Sette anni di persecuzione»[1]: il fascismo e gli ebrei


Al contrario della prima memorialistica della deportazione, dove è il momento traumatico dell’arresto l’incipit delle narrazioni, per entrare subito nel vivo dell’esperienza del lager – quasi che il tempo del prima contasse assai poco –, gli scritti autonarrativi ebraici posteriori, quelli dei «salvati», cominciano invece quasi sempre dal cruciale 1938. L’annus horribilis delle leggi razziali e della violentissima campagna antisemita scatenata dal regime costituisce uno snodo periodizzante nella memoria delle vittime: il momento di avvio nel «deserto del peggio»[2]. Il tempo precedente questa cesura viene rievocato con rimpianto, talvolta miticamente come un’età dell’oro perduta, quando le esistenze si snodavano sicure e fiduciose, fino all’irruzione dolorosa e sorprendente del 1938 che spezzò per sempre un mondo armonico imponendo una separatezza percepita come ingiusta e inaspettata[3]. L’effetto-sorpresa fu inferiore soltanto nella minoranza degli ebrei antifascisti, che avevano già avuto modo di conoscere il regime e misurarne la faccia feroce[4]. Per quanto riguarda gli altri, questo sbalordimento amaro e doloroso va contestualizzato e compreso: derivava anche dall’atteggiamento contraddittorio e opportunistico che il regime fascista aveva intrattenuto con la minoranza ebraica, per poi rovesciare ogni speranza e tradire ogni aspettativa, tanto più colpendo coloro che al regime avevano acconsentito.

1.1 Il nazionalismo come primo collante del fascismo

Segnalando l’irruzione dell’antisemitismo come un’anomalia improvvisa del fascismo, veniva alla luce anche quanto gli ebrei avevano concretamente sperimentato almeno fino a metà degli anni Trenta: una situazione relativamente tranquilla, a cui l’opportunismo di Mussolini non aveva neppure mancato di fornire ambigue garanzie; e una piena consonanza con la costruzione della nazione che proveniva dal Risorgimento, sigillata dall’emancipazione. Consonanza che non si era interrotta con il fascismo, a cui molti ebrei avevano pure aderito, corroborata anzi dalla legge del 1930 – il «concordato degli ebrei» – che regolamentò in senso autoritario l’ebraismo italiano[5]. Nel 1934 poi una frangia consistente di «ebrei fascistissimi» torinesi aveva fondato un giornale, «La nostra bandiera», e un movimento, diffuso rapidamente anche altrove, marcatamente filomussoliniano, antisionista e antifascista, che accentuò le divisioni interne all’ebraismo, mentre nel frattempo l’antisemitismo montava inesorabilmente[6]. E anche nel 1938, al momento della promulgazione delle leggi razziali, lo sbigottimento doloroso e incredulo di molti ebrei – fascisti e non – li portò senza indugio a rivolgersi al Duce, ai suoi familiari, ai monarchi con petizioni, suppliche, richieste di discriminazione e di aiuto, segno di una fiducia nel regime e nel suo capo tanto persistente quanto infondata[7].

In Italia però, a differenza del nazismo, il collante ideologico principale della costruzione politica fascista non era stato l’antisemitismo ma il nazionalismo, a cui anche gli ebrei non erano stati estranei. Malgrado le accese posizioni antisemite di alcuni leader nazionalisti, importate dagli agguerriti teorici d’oltralpe come Charles Maurras, Édouard Drumont, o mutuate dalla «Civiltà cattolica», e al di là del personale antisemitismo del duce (peraltro variabile a seconda delle occasioni e degli amori), tuttavia né il razzismo né l’antisemitismo, pur esistenti, avevano fatto parte dell’«agenda ideologica del regime»[8]. Allo stesso modo la presenza nelle file fasciste di frange estremistiche fortemente antisemite rappresentate da Roberto Farinacci, Giovanni Preziosi e Telesio Interlandi, rimase a lungo una componente settoriale nel regime, che fino al 1938 fu «uno dei pochi movimenti europei a non prevedere nel suo programma politico l’adozione di misure più o meno esplicitamente antisemite»[9].

1.2 Il retroterra culturale delle leggi razziste

Tuttavia è innegabile che i diversi fermenti a lungo minoritari che il fascismo al suo interno conteneva, in parallelo al persistere vigoroso e di lungo periodo dell’antigiudaismo cattolico, alle rotture culturali evocate dalle avanguardie artistico-letterarie di inizio secolo, al pensiero di demografi e popolazionisti, sullo sfondo delle teorie razziste e delle feroci pratiche del colonialismo europeo, costruirono nel tempo «una tradizione culturale antisemita e razzista»[10]. Questo fu lo specifico retroterra italiano delle leggi razziali, ciò che le rese possibili e plausibili per un’opinione pubblica permeata in profondità da codici culturali latamente razzisti. In altre parole «il regime non operò né sul vuoto né su materiali totalmente estranei alla cultura nazionale, bensì su una tradizione, un giacimento di stereotipi, narrazioni, percezioni, assiologie, teorie scientifiche e pseudoscientifiche»[11]. Proprio a partire da questo «bacino di credenze», le cui dinamiche e stratificazioni sono state ricostruite solo in parte, il regime adottò nel 1938 il suo specifico antisemitismo di stato, caratterizzato da «verticalità decisionale e capillarità nell’esecuzione amministrativa»[12], e pienamente motivato dal nuovo ruolo imperiale e totalitario dell’Italia.

Nel 1938 l’ora di dichiararsi «francamente razzisti»[13] era arrivata: l’antisemitismo e il razzismo venivano a inserirsi «nel progetto totalitario e di costruzione dell’“uomo nuovo”» rappresentandone l’indispensabile premessa[14].

Dopo la conquista dell’Etiopia, assieme all’introduzione dell’apartheid per le popolazioni africane nell’aprile del 1937, che introduceva nella legislazione il concetto di «razza»[15], occorreva realizzare con l’antisemitismo di stato una delle tappe della rivoluzione antropologica fascista, capace finalmente di costruire un totalitarismo compiuto rivitalizzando la sedicente rivoluzione fascista[16]. Per questo la violenta campagna antisemita dell’estate del 1938 fu gestita non dalla «piccola lobby degli ideologi antisemiti»[17] (Interlandi, Farinacci, Preziosi e Evola) ma dagli stessi periodici governativi, voluta e diretta dal governo stesso, cioè dallo stesso Mussolini[18].

1.3 Le leggi antiebraiche: tutta colpa del «crudele alleato» tedesco?

Si diffuse invece tra gli ebrei – ma non solo – l’opinione che questa svolta fosse stata «imposta dal genio malefico»[19] di Hitler, il nostro «crudele alleato»[20]. Sarebbe stato «il barbaro tedesco»[21] a spingere Mussolini verso le leggi razziali. La storiografia ha ormai accertato che le cose non andarono così: Mussolini non ricevette da Hitler alcuna pressione diretta. Al contrario, la politica antisemita del governo fascista e l’imponente ondata di propaganda a sostegno del nuovo indirizzo con l’impulso personale del duce stesso, era «endogena» al regime, e si collegava alla più generale coeva campagna contro la borghesia italiana, considerata incapace di perseguire il «destino imperiale» che il regime le aveva preparato[22]. Indubbiamente la guerra d’Etiopia e la conquista dell’Impero, con le relative politiche razziste contro i nuovi «sudditi» africani sottomessi all’Italia, determinarono nella leadership al potere la necessità di un’esaltazione dell’identità fascista, il perseguimento di «un senso di rigenerazione»[23] sentito come imminente e irrinunciabile, mosso certamente anche dal confronto ravvicinato con il nazismo, «visto come un regime politicamente molto più radicale del fascismo e a cui quest’ultimo avrebbe dovuto ispirarsi nell’intensificare la strategia di costruzione della società totalitaria»[24].

Essere compiutamente razzisti e antisemiti dunque, con l’estremismo che ciò comportava, smise di essere appannaggio di gruppi periferici nella geografia del potere del regime e divenne invece «il punto più alto nella costruzione dell’“uomo nuovo” fascista»[25]. Così l’antisemitismo non solo si inserì organicamente nel «processo di nazionalizzazione totalitaria»[26] del regime, ma ne diventò ben presto il più importante fattore di accelerazione[27]. L’antisemitismo si era legato a «una forma di escatologia politica»: essere contro gli ebrei diventò non solo un fattore di coesione per la classe dirigente, ma «un elemento fondamentale per il successo della rivoluzione totalitaria»[28]. La svolta antisemita concretizzava dunque queste istanze di radicalizzazione del regime[29]. Ciò avvenne in tempi relativamente brevi, tali da giustificare almeno in parte lo sbalordimento di molti ebrei davanti a questo accanimento. Ciò avvenne inoltre in un’Europa in cui le legislazioni antiebraiche si erano largamente già diffuse: in Germania con le leggi di Norimberga del 1935; in Romania dal gennaio del 1938; in Ungheria dal maggio; in Polonia (con la revoca della cittadinanza agli emigrati, nel marzo-ottobre 1938), in Slovacchia (aprile 1939)[30].

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Articolo tratto interamente da Novecento.org



La paura di Eva Picková



La paura 

Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!

Eva Picková 


Note biografiche:

Eva Picková nata a Nymburk il 15 maggio 1929, deportata nel campo di concentramento di Terezin il 16 aprile 1942, morta ad Auschwitz il 18 dicembre 1943.