domenica 26 gennaio 2020

La Shoah in Italia


Articolo da Novecento.org
Abstract
Il contributo ripercorre la genesi dell’antisemitismo fascista. L’auspicato «uomo nuovo» fascista doveva essere «francamente razzista», cioè consapevole della propria superiorità «razziale» e del proprio destino imperiale. Un bacino di credenze razziste e antisemite antiche, circoli estremisti della leadership fascista, l’esempio del Terzo Reich, supportano la svolta del regime. Preceduto dalla legislazione segregazionista coloniale dell’aprile del 1937, il 1938 viene inaugurato dal «censimento della razza», a cui segue in tempi rapidissimi la promulgazione di un corpus di leggi antiebraiche, basate sul razzismo di tipo biologico, che sanciscono una condizione di duro apartheid per gli italiani e l’espulsione per gli ebrei stranieri. Alla fase di «persecuzione dei diritti» (1938-1943), segue quella di «persecuzione delle vite» (8 settembre 1943-liberazione), quando nel territorio occupato dai tedeschi e soggetto al governo collaborazionista della Repubblica sociale italiana gli ebrei vengono cacciati come prede e inviati allo sterminio. Alle prime razzie autunnali del 1943, coordinate direttamente dalle forze di occupazione, presto si intreccia la politica antiebraica autonoma della Rsi. È il segmento italiano della Shoah europea, che oggi la storiografia ci consente di leggere nella sua specificità, grazie a un consolidato filone di studi.

1. «Sette anni di persecuzione»[1]: il fascismo e gli ebrei


Al contrario della prima memorialistica della deportazione, dove è il momento traumatico dell’arresto l’incipit delle narrazioni, per entrare subito nel vivo dell’esperienza del lager – quasi che il tempo del prima contasse assai poco –, gli scritti autonarrativi ebraici posteriori, quelli dei «salvati», cominciano invece quasi sempre dal cruciale 1938. L’annus horribilis delle leggi razziali e della violentissima campagna antisemita scatenata dal regime costituisce uno snodo periodizzante nella memoria delle vittime: il momento di avvio nel «deserto del peggio»[2]. Il tempo precedente questa cesura viene rievocato con rimpianto, talvolta miticamente come un’età dell’oro perduta, quando le esistenze si snodavano sicure e fiduciose, fino all’irruzione dolorosa e sorprendente del 1938 che spezzò per sempre un mondo armonico imponendo una separatezza percepita come ingiusta e inaspettata[3]. L’effetto-sorpresa fu inferiore soltanto nella minoranza degli ebrei antifascisti, che avevano già avuto modo di conoscere il regime e misurarne la faccia feroce[4]. Per quanto riguarda gli altri, questo sbalordimento amaro e doloroso va contestualizzato e compreso: derivava anche dall’atteggiamento contraddittorio e opportunistico che il regime fascista aveva intrattenuto con la minoranza ebraica, per poi rovesciare ogni speranza e tradire ogni aspettativa, tanto più colpendo coloro che al regime avevano acconsentito.

1.1 Il nazionalismo come primo collante del fascismo

Segnalando l’irruzione dell’antisemitismo come un’anomalia improvvisa del fascismo, veniva alla luce anche quanto gli ebrei avevano concretamente sperimentato almeno fino a metà degli anni Trenta: una situazione relativamente tranquilla, a cui l’opportunismo di Mussolini non aveva neppure mancato di fornire ambigue garanzie; e una piena consonanza con la costruzione della nazione che proveniva dal Risorgimento, sigillata dall’emancipazione. Consonanza che non si era interrotta con il fascismo, a cui molti ebrei avevano pure aderito, corroborata anzi dalla legge del 1930 – il «concordato degli ebrei» – che regolamentò in senso autoritario l’ebraismo italiano[5]. Nel 1934 poi una frangia consistente di «ebrei fascistissimi» torinesi aveva fondato un giornale, «La nostra bandiera», e un movimento, diffuso rapidamente anche altrove, marcatamente filomussoliniano, antisionista e antifascista, che accentuò le divisioni interne all’ebraismo, mentre nel frattempo l’antisemitismo montava inesorabilmente[6]. E anche nel 1938, al momento della promulgazione delle leggi razziali, lo sbigottimento doloroso e incredulo di molti ebrei – fascisti e non – li portò senza indugio a rivolgersi al Duce, ai suoi familiari, ai monarchi con petizioni, suppliche, richieste di discriminazione e di aiuto, segno di una fiducia nel regime e nel suo capo tanto persistente quanto infondata[7].

In Italia però, a differenza del nazismo, il collante ideologico principale della costruzione politica fascista non era stato l’antisemitismo ma il nazionalismo, a cui anche gli ebrei non erano stati estranei. Malgrado le accese posizioni antisemite di alcuni leader nazionalisti, importate dagli agguerriti teorici d’oltralpe come Charles Maurras, Édouard Drumont, o mutuate dalla «Civiltà cattolica», e al di là del personale antisemitismo del duce (peraltro variabile a seconda delle occasioni e degli amori), tuttavia né il razzismo né l’antisemitismo, pur esistenti, avevano fatto parte dell’«agenda ideologica del regime»[8]. Allo stesso modo la presenza nelle file fasciste di frange estremistiche fortemente antisemite rappresentate da Roberto Farinacci, Giovanni Preziosi e Telesio Interlandi, rimase a lungo una componente settoriale nel regime, che fino al 1938 fu «uno dei pochi movimenti europei a non prevedere nel suo programma politico l’adozione di misure più o meno esplicitamente antisemite»[9].

1.2 Il retroterra culturale delle leggi razziste

Tuttavia è innegabile che i diversi fermenti a lungo minoritari che il fascismo al suo interno conteneva, in parallelo al persistere vigoroso e di lungo periodo dell’antigiudaismo cattolico, alle rotture culturali evocate dalle avanguardie artistico-letterarie di inizio secolo, al pensiero di demografi e popolazionisti, sullo sfondo delle teorie razziste e delle feroci pratiche del colonialismo europeo, costruirono nel tempo «una tradizione culturale antisemita e razzista»[10]. Questo fu lo specifico retroterra italiano delle leggi razziali, ciò che le rese possibili e plausibili per un’opinione pubblica permeata in profondità da codici culturali latamente razzisti. In altre parole «il regime non operò né sul vuoto né su materiali totalmente estranei alla cultura nazionale, bensì su una tradizione, un giacimento di stereotipi, narrazioni, percezioni, assiologie, teorie scientifiche e pseudoscientifiche»[11]. Proprio a partire da questo «bacino di credenze», le cui dinamiche e stratificazioni sono state ricostruite solo in parte, il regime adottò nel 1938 il suo specifico antisemitismo di stato, caratterizzato da «verticalità decisionale e capillarità nell’esecuzione amministrativa»[12], e pienamente motivato dal nuovo ruolo imperiale e totalitario dell’Italia.

Nel 1938 l’ora di dichiararsi «francamente razzisti»[13] era arrivata: l’antisemitismo e il razzismo venivano a inserirsi «nel progetto totalitario e di costruzione dell’“uomo nuovo”» rappresentandone l’indispensabile premessa[14].

Dopo la conquista dell’Etiopia, assieme all’introduzione dell’apartheid per le popolazioni africane nell’aprile del 1937, che introduceva nella legislazione il concetto di «razza»[15], occorreva realizzare con l’antisemitismo di stato una delle tappe della rivoluzione antropologica fascista, capace finalmente di costruire un totalitarismo compiuto rivitalizzando la sedicente rivoluzione fascista[16]. Per questo la violenta campagna antisemita dell’estate del 1938 fu gestita non dalla «piccola lobby degli ideologi antisemiti»[17] (Interlandi, Farinacci, Preziosi e Evola) ma dagli stessi periodici governativi, voluta e diretta dal governo stesso, cioè dallo stesso Mussolini[18].

1.3 Le leggi antiebraiche: tutta colpa del «crudele alleato» tedesco?

Si diffuse invece tra gli ebrei – ma non solo – l’opinione che questa svolta fosse stata «imposta dal genio malefico»[19] di Hitler, il nostro «crudele alleato»[20]. Sarebbe stato «il barbaro tedesco»[21] a spingere Mussolini verso le leggi razziali. La storiografia ha ormai accertato che le cose non andarono così: Mussolini non ricevette da Hitler alcuna pressione diretta. Al contrario, la politica antisemita del governo fascista e l’imponente ondata di propaganda a sostegno del nuovo indirizzo con l’impulso personale del duce stesso, era «endogena» al regime, e si collegava alla più generale coeva campagna contro la borghesia italiana, considerata incapace di perseguire il «destino imperiale» che il regime le aveva preparato[22]. Indubbiamente la guerra d’Etiopia e la conquista dell’Impero, con le relative politiche razziste contro i nuovi «sudditi» africani sottomessi all’Italia, determinarono nella leadership al potere la necessità di un’esaltazione dell’identità fascista, il perseguimento di «un senso di rigenerazione»[23] sentito come imminente e irrinunciabile, mosso certamente anche dal confronto ravvicinato con il nazismo, «visto come un regime politicamente molto più radicale del fascismo e a cui quest’ultimo avrebbe dovuto ispirarsi nell’intensificare la strategia di costruzione della società totalitaria»[24].

Essere compiutamente razzisti e antisemiti dunque, con l’estremismo che ciò comportava, smise di essere appannaggio di gruppi periferici nella geografia del potere del regime e divenne invece «il punto più alto nella costruzione dell’“uomo nuovo” fascista»[25]. Così l’antisemitismo non solo si inserì organicamente nel «processo di nazionalizzazione totalitaria»[26] del regime, ma ne diventò ben presto il più importante fattore di accelerazione[27]. L’antisemitismo si era legato a «una forma di escatologia politica»: essere contro gli ebrei diventò non solo un fattore di coesione per la classe dirigente, ma «un elemento fondamentale per il successo della rivoluzione totalitaria»[28]. La svolta antisemita concretizzava dunque queste istanze di radicalizzazione del regime[29]. Ciò avvenne in tempi relativamente brevi, tali da giustificare almeno in parte lo sbalordimento di molti ebrei davanti a questo accanimento. Ciò avvenne inoltre in un’Europa in cui le legislazioni antiebraiche si erano largamente già diffuse: in Germania con le leggi di Norimberga del 1935; in Romania dal gennaio del 1938; in Ungheria dal maggio; in Polonia (con la revoca della cittadinanza agli emigrati, nel marzo-ottobre 1938), in Slovacchia (aprile 1939)[30].

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Fonte: Novecento.org


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