domenica 29 marzo 2020

Essere solidali ai tempi del coronavirus


Articolo da Rete della Conoscenza


Le diseguaglianze non sono in quarantena


“Siamo tutti sulla stessa barca”. La pandemia del coronavirus è spesso trattata come un mostro cieco e sordo, che non fa differenza di sesso, colore e classe sociale.

Niente di più falso. L’accesso alla sanità privata e la possibilità di vivere la quarantena imposta in case su tre piani per due persone e ville con piscina, la possibilità di essere rassicurati giornalmente da un medico che risponde a ogni nostra chiamata non è un privilegio universale, e soprattutto fa emergere contraddizioni preesistenti che sfruttano la quarantena per esplodere.
“Andrà tutto bene”, “ci siamo dentro insieme”.

Approfondendo, anche le preoccupazioni e i pensieri costanti durante questa emergenza sanitaria sono diverse e emblematiche: la maggior parte delle famiglie italiane percepisce la paura di non poter pagare l’affitto, le bollette, la spesa, i libri di scuola ai propri figli quando si tornerà alla vita normale, come più forte della paura del contagio. Per tante lavoratrici e tanti lavoratori, a tutto questo si affianca proprio la paura di andare a lavoro, per questo fin da subito abbiamo preteso la chiusura di tutte le attività non essenziali, ottenuta infine dai sindacati dei lavoratori nonostante le resistenze di Confindustria e di una parte della maggioranza. Intanto però, nelle aree più colpite dal virus, in cui i contagi tra chi lavora nei servizi essenziali continuano a crescere, a chi è ancora sano vengono imposti turni massacranti: è il caso non solo di  chi lavora nella sanità, ma anche di chi tiene aperti i supermercati, di chi garantisce i trasporti…


Si chiede a gran voce un ritorno alla normalità, ma siamo sicuri di aver bene in mente la “normalità”? 

Si auspica il ritorno ad un’Italia con più di 5 milioni di persone in povertà assoluta, in cui muoiono 3 persone al giorno sul posto di lavoro, con la convinzione che la paura di rimanere senza cibo o senza tetto siano causate dall’emergenza e non siano in effetti l’emergenza stessa, quella che però resta costante.

Stessa normalità nella quale è stato “normale” e “fondamentale” tagliare 37 miliardi negli ultimi anni alla sanità, continuando ad attingere ai fondi per la ricerca e la formazione come fossero fondi illimitati, come se si trattasse di soprattutto settori trascurabili, e non, come l’emergenza ha dimostrato, di importanza nazionale.

Il numero crescente di morti viene quindi presentato esclusivamente come una conseguenza del virus, quando è evidente come sia anche la conseguenza di trent’anni di politiche sbagliate.

In questa quarantena ci stiamo rendendo conto dell’importanza di una casa, di un tetto, per la differenza che comporta passare un mese chiuso in 30 metri quadri e in 100, di che portata fossero realmente i tagli alla sanità e alla ricerca che in questi anni abbiamo sentito nominare, facendo spesso l’errore di immaginarli lontani e astratti; ci stiamo rendendo conto di quanto la socialità sia importante e di quanto l’isolamento porti a conseguenze sociali, economiche e psicologiche devastanti e di come sia necessario, ora più che mai, essere comunità e provare a immaginare un paese diverso e con meno disuguaglianze, un paese in cui gli investimenti strategici non siano quelli militari, ma quelli nella ricerca, nella sanità, nella formazione.

Anche a distanza, rompiamo l’isolamento


Ma da quanto siamo in isolamento?

Oggi diventa più che mai fondamentale trovare una risposta a questa domanda, una risposta che non è inquadrata in un limite temporale che sta ai decreti del governo, una risposta che forse deve andare a cercare la sua complessità più indietro e che deve necessariamente partire da altri presupposti che vanno ben oltre l’emergenza del Covid-19.

Lo smantellamento dello stato sociale, di cui oggi scontiamo tutte le conseguenze mentre la pandemia rischia di mettere in ginocchio il sistema sanitario del nostro paese, si intreccia con politiche ventennali (non ultime Buona Scuola e Jobs Act) il cui risultato è stato produrre frammentazione, precarietà esistenziale e individualismo. La competitività è diventato sempre più un dogma costante all’interno di tutti gli spazi che viviamo, dai luoghi della formazione a quelli del lavoro, e all’interno dei quali siamo educati all’isolamento sociale, al ricambiare la menzogna con la menzogna e l’odio con l’odio e che impara, a vedere i nostri compagni di banco o i colleghi ad una scrivania di distanza come gli avversari nella scalata verso la possibilità di “realizzarsi”. Possibilità che sempre più coincide con la semplice garanzia dei diritti fondamentali, ormai percepibili quasi come “privilegi”.

Un quadro complesso che ci pone in una posizione di solitudine inevitabile, come se non ci potesse essere una chiave di lettura differente della società, magari del tutto nuova, magari diametralmente opposta alle condizioni materiali esistenti in cui pare siamo incastrati.  E allora l’isolamento non è iniziato qualche settimana fa con la prima delle tante dirette del premier, l’isolamento è una condizione di vita a cui siamo obbligati.

Ci può essere una risposta diversa?

Collettivamente però possiamo riuscire a costruire un’opzione diversa e in questi giorni su tanti territori del nostro paese soggetti organizzati provano ad interrogarsi su quale potrebbero essere le risposte d’alternativa, evidentemente differenti dalla beneficenza che fanno i grandi complici al Cotugno di Napoli piuttosto che al San Raffaele di Milano, delle risposte complessive rispetto al quadro compiuto che ci da la possibilità di leggere questa emergenza sanitaria.

I soggetti organizzati che stanno costruendo queste opzioni all’interno delle loro città stanno provando a mettere in piedi dei circuiti che riescano a porre in contraddizione complessivamente il sistema fallace e che riescano a dare una risposta su un periodo che va oltre quello dell’emergenza del coronavirus.

Non riusciremo a debellare questo virus se ognuno di noi agisce da solo: per questo occorre portare attenzione a tutti quei fenomeni sociali (come flash mob, dirette partecipate su instagram)  che si stanno sviluppando in questi giorni, nel tentativo di creare una nuova rete, ritenuta sempre più indispensabile per affrontare questo cruccio comune. È da questa e altre considerazioni parallele che ribadiamo ancora più ad alta voce quella necessità che da sempre esprimiamo nei nostri quartieri e nelle nostre piazze, quando riconosciamo nel collettivo lo strumento per sortire di problemi che altrimenti ci sembrano troppo grandi per essere mai affrontati.

È in queste situazioni che scopriamo la necessità di una dimensione collettiva, che sia quella del nucleo familiare, ai tempi della quarantena domestica; quella di un collettivo scolastico, all’interno delle mura delle nostre scuole; l’organizzazione sindacale, nelle fabbriche.

Ma quando tutto questo manca, quando manca il lavoro, quando non c’è la possibilità di organizzarsi a scuola, quando la casa non è un luogo sicuro, come garantiamo solidarietà?

Il nostro posto è all’interno delle nostre città, dove proviamo ad essere protagonisti in un ambiente abbastanza piccolo da permetterci di farci valere, ma al contempo abbastanza grande da essere un calderone eterogeneo di diverse criticità e diverse opportunità.


Ma da dove cominciamo?

Non c’è bisogno di un occhio esperto per riuscire a fare una piccola analisi del contesto sociale delle nostre città, certamente non tutti i quartieri vivono le stesse questioni, non tutti i quartieri sono rappresentati allo stesso modo, ed è questa la funzione che svolgiamo nelle nostre città, creare solidarietà e mutualismo in quelle parti della città che ne hanno davvero bisogno. Questi sono gli strumenti che ci permettono di essere operativi anche in un periodo così complesso come quello del Coronavirus, creando reti di solidarietà che riesca a coinvolgere i quartieri della città nella vita di tutti i giorni, riuscendo a farci garanti di un modello di vita diverso da quello imposto dalla società. Un mondo dove non è la beneficenza ad assolvere ai bisogni delle fasce di popolazioni meno abbienti, ma dove a partire dal mutualismo si costruiscono risposte dal basso e attraverso il conflitto si rivendica il welfare per tutti.

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Fonte: Rete della Conoscenza


Autore: redazione Rete della Conoscenza


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Articolo tratto interamente da
 Rete della Conoscenza 



6 commenti:

  1. Ben detto, ai tempi del #iorestoacasa è giusto pensare anche a chi una casa non ha, come da iniziativa di Amnesty. O ci salviamo tutti o nessuno.

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    1. Il vero cambiamento parte da questa emergenza, basta egoismi.

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  2. Caro Vincenzo, penso che ancora tutti non siamo preparati a tutto questo.
    Ciao e buona domenica cin un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso

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  3. Le diseguaglianze si acuiscono in questa situazione. Speriamo solo di risolvere presto

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