Articolo da Altrenotizie
Con il 51,20% dei voti, Nicolás Maduro Moro ha vinto le elezioni presidenziali venezuelane e si è confermato alla guida del Paese. Una vittoria fondamentale per Caracas, molto importante per l'America Latina nel suo complesso e significativa per lo scenario internazionale. La destra, che vedeva insieme conservatori e reazionari ed era rappresentata da una figura dal passato criminale e dal presente opaco, ha comunque ottenuto un risultato significativo, frutto del combinato disposto di una cultura politica annessionista storicamente presente nel Paese e di anni di difficoltà economiche causate dall'embargo occidentale.
L'affluenza alle urne del 59% degli aventi diritto spiega bene l'importanza della posta in gioco e la totale incompatibilità delle proposte in campo: da un lato il percorso chavista e bolivariano del Paese, che ne garantisce l'indipendenza e la sovranità nazionale; dall'altro il rientro nell'orbita statunitense, che ne delinea la dipendenza strategica da Washington.
La vittoria di Maduro appare ancora più importante a causa dell'impari competizione elettorale in Venezuela. Da una parte il PSUV e altre aree della sinistra e dall'altra la destra sostenuta dall’Occidente Collettivo, pesantemente coinvolto nella competizione elettorale. La continua ingerenza di americani e spagnoli, con il solito codazzo ansioso di ex fantocci latinoamericani, è stata la rappresentazione vacillante di uno scontro politico che era ed è tuttora molto serio. Uno scontro tra ipotesi opposte che ora, a urne chiuse e a conti fatti, lascia sul terreno alcune considerazioni e alcuni insegnamenti.
Il primo è per il popolo bolivariano, che attraverso anni di tenace resistenza ha mostrato al mondo come resistere e sconfiggere la più grande potenza economica, politica, militare e mediatica del mondo. Non ci sono abbastanza righe per descrivere il continuo e illimitato furto di beni venezuelani all'estero, il sequestro di aziende e risorse, depositi e titoli. Non c'è stato limite all'espressione di un blocco che non solo ha impedito l'accesso ai mercati internazionali sia per le importazioni che per le esportazioni, ma ha anche conosciuto dimensioni di extraterritorialità piegate solo dalla solidarietà di Paesi non soggetti agli ordini della Casa Bianca. Per sostenere questo assetto mefistofelico, si è scatenata l'insolenza delle accuse e l'infamia delle menzogne, con cui l'odio per la sovranità popolare è stato trasformato in “pressione democratica”. È questa l'essenza stessa della politica statunitense nei confronti del Venezuela, che si è infranta ieri, consumando un'altra sconfitta subita da un altro nemico e su un altro palcoscenico.
Una nuova sconfitta di Washington
La seconda lezione è per gli Stati Uniti: non c'è dubbio che l'impatto globale del voto venezuelano nella regione metta in seria difficoltà gli obiettivi degli Stati Uniti, producendo una nuova sconfitta per l'impero a sud dei suoi confini. Una sconfitta che però, per ragioni sia circostanziali che prospettiche, acquista un valore molto forte. In Venezuela, infatti, si giocava una parte fondamentale del piano di riconquista dell'intera America Latina. Evocato dalla Generale Laura Richardson, capo del Comando Sud delle Forze Armate statunitensi e proconsole degli Stati Uniti in Ecuador, Perù, Argentina e Cile, nei giorni scorsi è venuto alla luce un ipotetico Piano Marshall per l'America Latina che sarebbe allo studio della Casa Bianca. Ma, interpretando la logica storica del modello, è chiaro che il Piano Marshall è solo una forma descrittiva edulcorata di un piano di riconquista del subcontinente.
Non deve sembrare strano che sia un generale dell'esercito statunitense a dettare la linea d'azione dell'impero, è semmai l'unica cosa coerente e credibile dell'intero piano. Che non nasce dall'intenzione di contribuire alla lotta contro la povertà ma, semmai, di limitare le politiche sociali che la riducono alterando i processi redistributivi a danno dei poderosi. Lo scopo più grande è quello di intervenire direttamente nelle economie latinoamericane e riportarle nella sfera di influenza di Washington.
Dopo la presa di fatto dell'Ecuador, trascinato con la forza nella bandiera a stelle e strisce, la conquista per procura dell'Argentina, l'acquiescenza del Perù e la immutabile alleanza del Cile quale che sia l’inquilino della Moneda, la vittoria in Venezuela avrebbe permesso agli USA di tornare con forza a monopolizzare risorse e mercati che indubbiamente non sono più di loro esclusiva competenza. Ciò è dovuto al peso economico di uno dei maggiori giacimenti mondiali di petrolio, acqua, minerali e biosfera di valore strategico, nonché al suo status politico di Paese leader nel processo di emancipazione, trasformazione e liberazione latinoamericana.
Il prossimo obiettivo sarebbe stata la Bolivia (su cui sono già state fatte le prove generali di sovversione golpista) e poi Nicaragua e Cuba, pensando così di chiudere con l'ALBA e di fare il pieno di quelle terre rare e di quei prodotti agricoli ed energetici di cui il gigante decadente ha disperatamente bisogno per cercare di sostenere il confronto con la Cina e gli altri Paesi nemici dell'impero mettendo ancora una volta gli artigli nel “cortile di casa”.
Continua la lettura su Altrenotizie
Fonte: Altrenotizie
Autore: Fabrizio Casari
Licenza: Creative Commons (non specificata la versione)
Articolo tratto interamente da Altrenotizie.org
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.