lunedì 15 luglio 2024

Ode all'usignolo di John Keats



Ode all'usignolo

Il cuore si strugge ed un sonnolento torpore

affligge i sensi, come se ebro di cicuta,

o d’un sonnifero pesante trangugiato

pochi istanti fa, fossi affondato nel Lete:

è non certo per invidia della tua felice sorte,

ma troppo felice nella tua felicità.

Tu, arborea driade dalle lievi piume,

che in una macchia melodiosa

di faggi verdi e sparsa d’ombre innumerevoli

canti l’estate la felicità a gola spiegata.


O per un sorso di vino! Che sia stato

rinfrescato da secoli nelle profondità sotterranee,

sapido di Flora e di prati verdi,

di danza, di canti provenzali, d’allegria solare!

Oh, sì, bere una coppa colma di calore,

pregna di rosso, Ippocrene pura e sincera,

con rosari di bolle occhieggianti sull’orlo,

e la bocca macchiata di porpora;

sì, poter bere, e inosservato lasciare il mondo

per svanire, infine, con te, nelle foreste oscure.


Sparire, lontano, dissolvermi, e dimenticare poi

ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:

il languore, la malattia, l’ansia.

Qui dove gli uomini seggono e odon l’un l’altro gemere,

qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi,

dove la giovinezza impallidisce, si consuma

e spettrale muore,

dove il pensare stesso è riempirsi di dolore,

e la disperazione regna, dagli occhi di piombo,

dove la bellezza vede spenta la luce dallo sguardo

e il nuovo amore non riesce a struggersi oltre il domani.


Lontano! Lontano! e arrivare da te,

non portato da Bacco e dai suoi pargoli,

ma sulle invisibili ali della poesia,

anche se la mente, ottusa, si confonde e indugia:

già lì, con te, tenera è la notte,

con la sua luna regina sul trono

e le fate stellate tutt’intorno:

qui, invece, non c’è luce alcuna,

se non quella che dal cielo con la brezza spira

per verdeggianti tenebre e sinuosi sentieri di muschio.


Non vedo quali fiori siano ai miei piedi,

né che dolce incenso impenda sui rami,

ma nella profumata oscurità intuisco ogni soavità

di cui il mese propizio dota

l’erba, il boschetto e il selvaggio albero da frutta,

il biancospino e la pastorale Eglantina,

viole, presto appassite e sepolte tra le foglie;

e la figliuola maggiore di metà maggio:

la veniente rosa muschiata, dall’umore di vino di rugiada,

mormoreggiante dimora d’insetti nelle sere estive.


Nel buio ascolto, e ben molte volte

ho quasi desiderato la confortevole morte,

l’ho chiamata con soavi nomi in molte meditate rime,

l’ho pregata perché via si portasse nell’aria il mio respiro.

Or più che mai mi pare bene morire:

spegnersi a mezzanotte, senza alcun dolore,

mentre tu versi fuori l’anima

in tale estasi!

Tu canteresti ancora: ed io avrei orecchie invano,

al tuo alto requie divenuto una zolla.


Tu non nascesti per morire, tu, piuma immortale!

Le affannate generazioni non ti calpestano,

e la voce, che odo in questa fuggevole notte, fu udita

in antichi giorni da re e da villani:

forse è lo stesso canto che il sentiero trovò

nel cuore di Ruth, quando afflitta da nostalgia

ella stette in lagrime tra il grano straniero;

lo stesso, forse, che spesse volte ha

incantato magiche finestre, aperte sulla schiuma

di perigliosi mari, in fatate terre deserte.


Deserte! Come una campana risuona questa parola

che rintocca per ritrarmi da te alla mia solitudine!

Addio! La fantasia non può frodare così bene

com’ella ha fame di fare, ingannevole silfo.

Addio, addio. La tua antifona dolorosa svanisce

oltre i prati vicini, oltre la silenziosa corrente,

su per il colle per svanire appieno

tra i boschi della vicina valle.

È stato un sogno? O una visione?

Svanita è quella musica: dormo o son desto?

John Keats


2 commenti:

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