giovedì 23 febbraio 2023

Il diritto di dissentire

No al controllo sociale - graffito su telo di plastica nel centro di Milano, Lombardia, Italia - 2021-10-24


Articolo da Giap - Il blog di Wu Ming

Esce in questi giorni per i tipi di Laterza il nuovo libro di Matteo Pucciarelli, Guerra alle guerra. Guida alle idee del pacifismo italiano.

Il capitolo 8, di cui riportiamo ampi estratti e che s’intitola «Guerra nelle parole. Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire», è in larga parte imperniato su un’intervista a WM1 realizzata nel settembre 2022 e sul lavoro critico fatto da Wu Ming nel pieno dell’emergenza pandemica, durante un coprifuoco dell’anima durato un biennio. Pucciarelli getta uno sguardo retrospettivo su quel lavoro, lo riconsidera e ne prolunga diverse linee.

Non capita ogni giorno – anzi, non ci era ancora capitato – di veder riconoscere legittimità e valore a quelle nostre riflessioni e prese di posizione in un testo pubblicato da una delle principali case editrici del Paese.

Il fatto che a riconoscerlo sia un giornalista che lavora a Repubblica, il quotidiano che più si mostrò forsennato nella caccia all’untore – ossia, nelle varie fasi: al «furbetto», al «negazionista», al «nomask», al «novax», al «nogreenpass» ecc. – e che oggi ha il primato della retorica guerrafondaia rende l’evento ancor più importante.

Grazie dunque a Matteo, e buona lettura. WM]

di Matteo Pucciarelli

«Narrazioni tossiche»*: è questa la definizione che il collettivo di scrittori Wu Ming ha dato a tutta una serie di distorsioni e mistificazioni di parole, in questa guerra che solo dopo si combatte con i fucili o con i droni telecomandati, con la violenza e la prevaricazione, ma prima è fatta di un sapiente e costante lavoro di decostruzione culturale. Il 1° marzo 2022 sul loro sito, Giap, pubblicarono un lungo articolo. Titolo: Una dichiarazione – politica e di poetica – sul virus del militarismo nel corpo sociale. Scrivevano:

«Oggi militarismo e bellicismo sono totalmente sdoganati, non li mette in questione quasi nessuno. Abbiamo visto due marò accusati di omicidio trasformati in eroi della patria. Abbiamo visto l’esercito schierato nelle strade con compiti di ordine pubblico. Lo abbiamo visto fare propaganda nelle scuole elementari. Soprattutto negli ultimi due anni abbiamo subito la militarizzazione spinta della gestione pandemica, con il ricorso a una retorica bellicista, il tricolore ovunque e un generale in mimetica a rappresentare la campagna vaccinale. L’emergenza pandemica come ‘guerra al virus’»

Il parallelismo tra le guerre vere e quella sanitaria poteva pure sembrare ardito, ma era un fatto: [la pandemia] l’avevamo noi stessi letta, raccontata e vissuta come un’esperienza di tipo militare. C’era stato il coprifuoco, c’era stata la cultura del sospetto verso i nostri vicini di casa (sono per caso usciti senza un valido motivo?), c’era stato il controllo ferreo esterno e autoimposto sui nostri spostamenti,i posti di blocco e la giustificazione necessaria per superarli, c’era stata la ricerca dell’arma finale necessaria per sconfiggere il nemico, c’era stata l’armatura simbolica, cioè le mascherine, anche all’aperto, soli nel parco; c’era stata la campagna vaccinale, e «campagna» cos’è se non un’altra parola di guerra?; soprattutto, alla fine, c’era proprio il nemico e tutto il carico di retorica che questo si porta appresso, poco conta che si trattasse di qualcosa di invisibile e che non puoi toccare.

Non ci eravamo chiesti le origini di quel male, di quel virus, né se avessimo avuto delle colpe nel crearlo e nel diffonderlo; non volevamo neanche domandarci se le politiche decennali di smantellamento della sanità pubblica a favore di quella privata avessero avuto un qualche peso in quel trovarci impreparati, ridotti al collasso; ma ci sentivamo in trincea, impegnati nella nostra guerra, non c’era tempo per farsi domande. Giornali, radio e televisioni: trincea, guerra, combattere, eroi sul fronte con il loro supremo sacrificio. Quando c’è da vincere una guerra il dissenso è d’intralcio, gli spazi di democrazia si riducono: decretazione d’urgenza e sospensione dei normali diritti.

Quei due anni di virus potevano essere stati dei complici, degli alleati, nell’altra guerra, quella delle parole che stavamo vivendo adesso, dove dissentire sull’utilizzo delle armi pareva proibito pena lo stigma sociale? […]

Era strano, perché i sondaggi all’inizio della guerra in Ucraina dicevano che la stragrande maggioranza degli italiani era contraria ad inviare armi all’esercito di un altro paese. Eppure questa era un’opinione sottorappresentata: nelle piazze, in televisione, sui giornali, in Parlamento, l’idea prevalente era un’altra e opposta. Dobbiamo farlo, è giusto farlo, non farlo sarebbe criminale: armi, armi, ancora armi. Provare a chiedersi perché la stessa solerzia non c’era stata in altri conflitti, a favore di altri popoli egualmente minacciati, non era ammesso.

Gli spazi per i contrari all’escalation militare venivano appaltati invece a chi perorava posizioni completamente opposte, in difesa delle ragioni di Putin. Il dibattito si stava polarizzando esattamente com’era avvenuto con il Covid-19, quando la società doveva essere per forza suddivisa in due categorie: i sì vax e i no vax; c’erano quindi i pro-Ucraina e i pro-Russia; il bene e il male; noi e il nemico. Bianco o nero. Né allo sforzo di comprensione aiutavano le sovrapposizioni, per cui molto spesso se eri un no vax, oggi tifavi Russia; se non ti eri posto alcun dubbio sulla gestione pandemica, assistendo senza batter ciglio a tutte le innumerevoli contraddizioni logiche e operative delle autorità, adesso non te ne ponevi nessuno sull’approccio del governo e del mondo occidentale al conflitto.

Sui social andavano di moda le bandierine a fianco del proprio nome, come fa un esercito – come in guerra, di nuovo –, quando bisogna uniformarsi e quindi mettersi la divisa, radunarsi attorno al simbolo, ai propri colori, riconoscersi grazie a quelli. In uno schema del genere, ripetuto mese dopo mese, c’è spazio per l’approccio critico, per la pace, per la diserzione, per il rifiuto, per i signornò? […]

Fatte le premesse [sul definirsi non «pacifista» ma «antimilitarista», NdR], Wu Ming 1 arriva all’oggi, al «disarmo psicologico» che sta vivendo il pensiero radicale e alternativo che rifiuta guerre e militarismo. «C’è un rapporto di causa ed effetto ricorrente: il riemergere del pensiero, delle parole, dei gesti nazionalistici si porta dietro, sul breve e sul medio termine, tensioni e pulsioni belliciste», ragiona. Breve riepilogo storico per capire come siamo arrivati fin qui: «Cade il muro di Berlino, evento simbolico che consideriamo spartiacque della storia. Subito dopo in Italia “Mani pulite” spazza via i partiti che avevano governato ininterrottamente fino ad allora in un contesto di divisione bipolare del mondo, dove la Dc e gli alleati garantivano il posizionamento del nostro paese. Se la divisione bipolare non c’è più, il sistema perde il proprio collante».

Allora serve trovarne un altro in fretta e dal cilindro magico viene ripescato l’antico ma sempre valido nazionalismo / patriottismo, su larga scala e su piccola. Basti pensare al nome della nuova prima forza politica della Seconda Repubblica: “Forza Italia”, l’incitamento da stadio per la propria squadra, per il proprio paese, per la propria bandiera. L’altra nuova forza, la Lega Nord, propone una sorta di nazionalismo in salsa locale, un indipendentismo senza una reale base storica a cui appoggiarsi, cucito su misura per l’area più ricca del paese, e anche qui è un trionfo di simboli e bandiere identitarie, che fossero posticce poco importava. In questo febbrile ritorno al passato, a cui va aggiunto l’arrivo dei postfascisti di Alleanza nazionale al governo assieme a Forza Italia e Lega Nord, si accodano alcune iniziative portate avanti dalla massima istituzione, la presidenza della Repubblica.

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Fonte: Giap - Il blog di Wu Ming


Autore: 
 - Matteo Pucciarelli

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Articolo tratto interamente da Giap - Il blog di Wu Ming

Photo credit Mænsard vokser, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons


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