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Il rastrellamento del ghetto di Roma fu una retata di 1 259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica, effettuato dalle truppe tedesche della Gestapo con la collaborazione dei funzionari del regime fascista tra le ore 05:30 e le ore 14:00 di sabato 16 ottobre 1943 (da cui il ricordo di questo giorno come Sabato nero), principalmente in via del Portico d'Ottavia e nelle strade adiacenti ma anche in altre differenti zone della città di Roma[1][2].
Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto (mischlinge) o stranieri, 1 023 rastrellati furono deportati direttamente al campo di sterminio di Auschwitz[3]. Soltanto 16 di loro sopravvissero (15 uomini e una donna, Settimia Spizzichino morta nel 2000)[4].
I primi ebrei si erano insediati a Roma nel II secolo a.C. e la loro consistenza aumentò sensibilmente dopo la prima guerra giudaica condotta dal futuro imperatore Tito (66-70 d.C.).
Nel 1555, papa Paolo IV ordinò la reclusione di tutti gli ebrei di Roma in un'area del rione Sant'Angelo, tra l'antico Portico d’Ottavia e la sponda del Tevere[5]. Il luogo, recintato da mura, era dotato di porte che venivano chiuse dal tramonto all'alba e, così come l'analogo luogo di reclusione veneziano, fu ben presto chiamato "ghetto"[6]. Nel 1825, papa Leone XII ampliò il ghetto ebraico con un ulteriore isolato dell'attuale via della Reginella[7].
Pio IX, nel 1848, abbatté le mura del ghetto e liberalizzò la residenza degli ebrei a Roma[7]. Il rione, tuttavia, continuò ad essere abitato, in stragrande maggioranza, da cittadini di religione ebraica.
Nel settembre del 1943, la comunità ebraica romana contava tra le 8 000[8] e le 12 000[9] persone.
All'indomani dell'occupazione tedesca di Roma (10 settembre 1943), Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, comandante dell'SD e della Gestapo a Roma, ricevette un messaggio da Heinrich Himmler, ministro dell'interno, comandante delle forze di sicurezza della Germania nazista e teorico della soluzione finale della questione ebraica: "i recenti avvenimenti italiani impongono una immediata soluzione del problema ebraico nei territori recentemente occupati dalle forze armate del Reich"[8][10].
Il 24 settembre successivo, Himmler fu più esplicito: in un telegramma segreto e strettamente riservato per il colonnello Kappler disponeva che "tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell'impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa"[8].
Nel pomeriggio di domenica 26 settembre 1943, Kappler convocò presso il proprio ufficio a Villa Wolkonsky il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ugo Foà, e quello dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dante Almansi, intimando loro la consegna, entro trentasei ore, di almeno 50 chilogrammi d'oro, minacciando, prima, la deportazione di duecento ebrei romani verso la Germania, poi, di tutta la comunità ebraica[11]. In cambio dell'oro, Kappler promise agli ebrei l'incolumità[12].
La mattina dopo iniziò la raccolta dell'oro all'interno del Tempio maggiore (sinagoga). Nel pomeriggio la Santa Sede, informata del ricatto di Kappler, comunicò in via ufficiosa che avrebbe autorizzato un prestito in lingotti d'oro sino al raggiungimento dei 50 chilogrammi richiesti dalla polizia tedesca, ma ciò non fu necessario[13].
Alle ore 18 di martedì 28, dopo una proroga dei termini di quattro ore, accordata dallo stesso Kappler, i capi della Comunità ebraica romana si presentarono a Villa Wolkonsky per la consegna dell'oro. Kappler li fece accompagnare da una scorta nel vicino edificio di Via Tasso 155, dove l'oro fu pesato per ben due volte e alla fine risultò pesare 50,3 chilogrammi[14].
Kappler spedì immediatamente l'oro a Berlino, al capo dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich, generale Ernst Kaltenbrunner, con una lettera di accompagnamento nella quale si esprimevano perplessità sulla fattibilità della deportazione e si suggeriva di utilizzare gli ebrei romani come mano d'opera per lavoro obbligatorio[15].
Kaltenbrunner rispose sdegnato: "È precisamente l'estirpazione immediata e completa degli ebrei in Italia nell'interesse speciale della situazione politica attuale e della sicurezza generale in Italia". A guerra finita, l'oro fu trovato intatto nella cassa, in un angolo dell'ufficio di Kaltenbrunner[16].
Il 14 ottobre successivo, Kappler ordinò il saccheggio delle due biblioteche della Comunità ebraica e del Collegio rabbinico e fece caricare due vagoni ferroviari diretti in Germania con materiale di inestimabile valore culturale[1]. Gli agenti di Kappler portarono via anche gli elenchi completi dei nomi e degli indirizzi degli ebrei romani[16]. Alla successiva individuazione dei domicili collaborarono anche i commissari di pubblica sicurezza Raffaele Aniello e Gennaro Cappa[1].
Lo stesso giorno, Kappler inviò una lettera al comandante del campo di sterminio di Auschwitz, Rudolf Höss, comunicandogli che avrebbe ricevuto intorno al 22-23 ottobre un carico di oltre 1 000 ebrei italiani e di prepararsi a concedere loro il "trattamento speciale".
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