lunedì 20 marzo 2023

20 marzo 1994 – A Mogadiscio, in Somalia vengono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Ilaria alpi


Articolo da Wikipedia, l'enciclopedia libera

Ilaria Alpi giunse per la prima volta in Somalia nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del TG3, la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Alla missione prese parte anche l'Italia, superando in tal modo le riserve dell'inviato speciale per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni ottanta.

Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbero visto, tra l'altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane:[1][2][4][5] Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate con i gruppi politici locali. Nel novembre precedente all'assassinio della giornalista, era stato ucciso, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano.[6]

Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell'ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall'hotel Hamana, nel quartiere Shibis; in particolare, in corrispondenza dell'incrocio tra via Alto Giuba e corso Somalia (nota anche come strada Jamhuriyada, corso Repubblica). La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta e successivamente, negli ultimi cinque minuti finali del colloquio, su domanda esplicita della Alpi, parlò della società di pesca italosomala Shifco, azienda della quale lo stato italiano aveva donato dei pescherecci che furono usati molto probabilmente anche per il trasporto dei rifiuti.[7] L'intervista durò probabilmente 2 ore ma arrivarono in redazione RAI poco meno di 15 minuti.[8] La giornalista salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all'hotel Sahafi, vicino all'aeroporto, e poi all'hotel Hamana, nelle vicinanze del quale avvenne il duplice delitto. A bordo del mezzo si trovava altresì Nur Aden, con funzioni di scorta armata.

Sulla scena del crimine arrivarono subito l'imprenditore italiano Giancarlo Marocchino e gli unici giornalisti italiani presenti a Mogadiscio: Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Una troupe americana (un libero professionista che lavorava per un network americano) arrivò mentre i colleghi italiani spostavano i corpi dall'auto in cui erano stati uccisi, successivamente portati al Porto vecchio. Una troupe della Televisione svizzera di lingua italiana si trovava invece all'Hotel Sahafi (dall'altra parte della linea verde) e filmò su richiesta di Gabriella Simoni - perché ci fosse un documento video - le stanze di Miran e Ilaria e gli oggetti che vennero raccolti.[9]

Il duplice omicidio determinò l'apertura di due distinti procedimenti penali a carico di ignoti: l'uno, presso la procura di Roma, per la morte di Alpi (p.p. 2822/94 RGNR mod. 44); l'altro, presso la procura di Trieste, per la morte di Hrovatin (p.p. 110/1994 RGNR mod. 44). Titolari delle indagini erano, rispettivamente, i sostituti procuratori Andrea De Gasperis e Filippo Gulotta; in seguito, il 22 marzo 1996, il procuratore capo di Roma Michele Coiro affiancò a De Gasperis il sostituto Giuseppe Pititto, senza tuttavia procedere ad una revoca formale delle indagini nei confronti di De Gasperis.

Pititto dette alle indagini un impulso significativo: dispose l'autopsia sul corpo di Alpi, laddove, in precedenza, erano stati effettuati soltanto rilievi necroscopici esterni; richiese una nuova consulenza tecnica balistica, a seguito della quale fu accertato che i colpi furono inferti alla giornalista a una distanza ravvicinata, alla stregua di un'esecuzione, mentre la prima consulenza, effettuata nel maggio 1994, aveva accreditato l'ipotesi che i colpi fossero stati sparati da lontano; soprattutto, il 12 giugno 1997 convocò a Roma, quali persone informate sui fatti, Mohamed Nur Aden, la guardia del corpo della giornalista, e Sidi Ali Abdi, che aveva accompagnato i due cronisti dall'aeroporto di Mogadiscio fino all'hotel Hamana, in prossimità del quale era avvenuto il duplice omicidio (sia Nur Aden che Ali Abdi erano stati rintracciati dalla Digos di Udine).

Il 16 giugno 1997, tuttavia, il nuovo procuratore capo di Roma, Salvatore Vecchione, revocò la titolarità delle indagini a Pititto per assegnarla a Franco Ionta. La motivazione addotta in proposito fu che Pititto avrebbe assunto la gestione del procedimento senza informare il contitolare delle indagini, De Gasperis, di fatto estromettendolo; segnatamente, Vecchione asserì di avergli revocato il procedimento «dopo aver constatato l'esistenza di disparità di vedute sulle modalità di conduzione dell'indagine». Nondimeno, come fu accertato nell'ambito di una successiva ispezione disposta dal ministero di grazia e giustizia, allorché, nel marzo 1996, il precedente procuratore, Coiro, decise di affiancare Pititto a De Gasperis, questi, come da lui stesso espressamente dichiarato, rimise il procedimento al procuratore, considerandolo «come se fosse stato assegnato in via esclusiva al dottor Pititto». La relazione ministeriale del 14 maggio 1998 giunse alla conclusione che Pititto, ritenendo a ragione di essere l'unico designato alla conduzione del procedimento, aveva omesso ogni coordinamento legittimamente. La motivazione addotta dal procuratore per revocare le indagini apparse così discutibile:

«Se la ragione per cui l'inchiesta mi è stata sottratta non è il contrasto tra me e De Gasperis, allora dev'essere un'altra: una ragione occulta. E ciò che è segreto, e incide su un'inchiesta giudiziaria per un duplice omicidio pregiudicando l’accertamento delle responsabilità, non può che allarmare.»

(Dott. Giuseppe Pititto, intervista a Famiglia Cristiana, 23 aprile 2000)

In tal modo, Pititto non poté sentire i due potenziali testimoni chiave della vicenda: all'assunzione di informazioni procedette così, il 17 luglio 1997, il nuovo titolare dell'inchiesta, inopinatamente chiamato a prendere cognizione della consistente mole investigativa e a valutare i diversi elementi di prova sino ad allora raccolti in appena un mese dall'assegnazione del fascicolo. Assunto a informazioni, Ali Abdi dichiarò che Alpi gli aveva riferito di dover andare insieme a Hrovatin all'hotel Hamana per incontrare il giornalista Remigio Benni, in realtà già partito da due giorni alla volta di Nairobi, precisando che, una volta giunti a destinazione, solo Alpi sarebbe scesa dalla vettura; l'altra persona escussa, Nur Aden, dichiarò invece che entrambi i cronisti erano entrati nell'hotel.

Il 6 giugno 1997, intanto, Panorama aveva dato conto, in un ampio reportage, di numerose violenze asseritamente commesse dalle truppe italiane in Somalia nell'ambito della missione Ibis (UNOSOM I e II), pubblicando alcune foto; inoltre, era stato diffuso un memoriale (memoriale Aloi), in cui l'estensore, un maresciallo all'epoca in servizio presso il reggimento Tuscania, aveva denunciato una serie di presunte violenze messe in atto dal contigente italiano ai danni di civili somali, adombrando un possibile collegamento tra la morte della giornalista Alpi e certi comportamenti dei militari italiani. Al fine di accertare la perpetrazione di eventuali abusi nei confronti della popolazione, il 16 giugno fu nominata un'apposita commissione governativa d'inchiesta (presieduta da Ettore Gallo e composta da Tina Anselmi, Tullia Zevi, i generali Antonino Tambuzzo e Cesare Vitale). Di lì a poco, d'altra parte, emerse la mendacità delle affermazioni rilasciate nel corso dell'intervista a Panorama da uno degli accusatori[10], mentre la stessa commissione Gallo, al termine dei lavori, escluse che il contingente italiano si fosse reso responsabile, nel suo complesso, di atti di violenza contro i civili (al contrario di quanto fu accertato per il contingente canadese, nell'ambito del cosiddetto Somalia affair, e per quello belga)[11].

Nel corso del 1997, un giornalista, Giovanni Maria Bellu, portò alla luce una singolare circostanza. Dal momento che due componenti del commando erano rimasti feriti, Bellu, recatosi nella capitale somala, chiese ad un amministratore dell'ospedale Keysaney, unico presidio di Mogadiscio in grado di affrontare emergenze di una certa rilevanza, di poter visionare i registri delle persone che si erano presentate presso detto ospedale. A tal fine, Bellu fornì come pretesto la vicenda delle presunte violenze commesse dai militari italiani ai danni della popolazione civile e richiese i registri relativi a date disparate, tra le quali inserì però la data dell'agguato; ebbene, nel registro relativo al 20 marzo 1994, giorno dell'agguato, figuravano solo due feriti d'arma da fuoco e il nome di entrambi i pazienti era stato cancellato con il bianchetto e poi riscritto sopra.

Nei primi mesi del 1997, intanto, in un'intervista rilasciata a Isabel Pisano e Serena Purarelli per Format, Osman Omar Weile (detto Gasgas), colonnello della polizia di Mogadiscio nord, sostenne di avere i nominativi degli esecutori materiali dell'agguato: egli, infatti, era intervenuto sul luogo del delitto il giorno del tragico evento e aveva provveduto ad ascoltare alcune persone presenti sul posto per tentare di ricostruire la dinamica dell'agguato, incaricando poi il suo vice, Ali Jiro Shermarke, di redigere una dettagliata relazione. Il capo della polizia di Mogadiscio nord era, all'epoca dei fatti, il generale Ahmed Jilao Addo.

Nel frattempo, attraverso l'attività svolta dall'ambasciatore italiano in Somalia, Giuseppe Cassini, venne rintracciato un possibile testimone oculare, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, il quale asseriva di essersi trovato sul luogo dell'agguato al momento del duplice omicidio e alla cui individuazione si giunse mediante i buoni uffici di due cittadini somali, Ahmed Mohamed Mohamud (detto Washington), a sua volta coadiuvato da Abdisalam Ahmed Hassan (detto Shino), e di Mohamed Nur Mohamud (detto Garibaldi). Gelle fu così accompagnato a Roma in veste di persona informata sui fatti: assunto a sommarie informazioni dalla Digos di Roma il 10 ottobre 1997 e nuovamente escusso da Ionta il giorno successivo, accusò dell'omicidio Alpi-Hrovatin un suo connazionale, tale Hashi detto "Faudo", riconoscendolo come uno degli autori materiali del duplice omicidio e precisando di aver assistito personalmente alla sparatoria mentre si trovava davanti all'hotel Hamana. Il 23 dicembre 1997 la Digos di Udine riuscì a identificare la persona indicata da Gelle, sennonché, il giorno stesso, Gelle divenne irreperibile.

Successivamente, l'11 gennaio 1998, Cassini condusse a Roma undici cittadini somali per essere sentiti dalla commissione Gallo: alcuni in qualità di vittime delle violenze asseritamente commesse nei loro riguardi dai militari italiani; altre perché comunque ritenute persone informate sui fatti. A tal fine, l'ambasciatore si era rivolto ad Ali Mahdi e al figlio del generale Aidid, Hussein Farrah Aidid, i quali, a loro volta, avevano affidato l'incarico di redigere una lista delle possibili vittime ad un gruppo di anziani, la Società degli Intellettuali Somali. Tra le persone accompagnate in Italia vi erano l'autista di Ilaria Alpi, Ali Abdi, e la persona accusata dallo stesso Gelle quale autore del duplice omicidio, Hashi Omar Hassan: a suo dire, infatti, alcuni militari italiani lo avrebbero legato e gettato in mare presso il porto vecchio di Mogadiscio insieme ad altre venti persone che, in tale occasione, avrebbero perso la vita[12].

Il 12 gennaio 1998 fu di nuovo assunto a sommarie informazioni l'autista di Alpi, giunto a Roma appena il giorno precedente. Mentre nella precedente escussione, effettuata il 17 luglio 1997 da parte di Ionta (a seguito della convocazione disposta da Pititto), Ali Abdi non aveva rilasciato alcuna dichiarazione eteroaccusatoria in merito al duplice omicidio, dinanzi agli inquirenti della Digos egli fornì una diversa versione dei fatti: in particolare, nella serata del 12 gennaio, ripresa l'escussione precedentemente interrotta, Ali Abdi dichiarò di riconoscere in Hashi uno degli uomini presenti all'interno della Land Rover con a bordo i sette componenti del commando, armati di fucili mitragliatori FAL[13]. Tale dichiarazione fu confermata nella successiva assunzione a sommarie informazioni del 20 gennaio 1998.

Il 13 gennaio Hassan fu così sottoposto a fermo (p.p. 24/1998 RGNR mod. 21); due giorni dopo veniva disposta la custodia cautelare in carcere, con ordinanza confermata dal tribunale del riesame il 7 febbraio. Parallelamente, si apriva un nuovo fascicolo contro ignoti (p.p. 6403/1998 RGNR mod. 44).

Il 15 luglio 1998 furono assunti a sommarie informazioni altri tre cittadini somali: Adar Ahmed Omar, una donna che gestiva una bancarella del the davanti all'hotel Hamana; Hussein Alasow Mohamoud (detto Bahal), seduto davanti al medesimo albergo; Abdi Mohamed Omar (detto Jalla), il quale si era intrattenuto nelle vicinanze dell'albergo. Costoro non rilasciarono alcuna dichiarazione accusatoria nei confronti di Hassan ed erano giunti in Italia a seguito delle indagini svolte dalla Digos di Udine sulla base delle informazioni assunte da due somali: Mohamed Moamud Mohamed (detto Gargallo), la cui identità non era stata rivelata dalla Digos per motivi di sicurezza (fu poi avventatamente resa pubblica nel corso dei lavori della commissione presieduta da Taormina); Umar Hajimunye Diini (detto Omar Dini), giornalista. 

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Photo credit Madamemasked, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons



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