giovedì 30 marzo 2023

Il razzismo in Italia



Articolo da Comune-info

Il 2022 è stato un anno disastroso, dice l’ultimo rapporto di Amnesty International. Agnès Callamard, la segretaria generale, non usa mezze misure per quel che riguarda l’Italia. È convinta che il governo stia “vergognosamente criminalizzando chi assiste rifugiati e migranti”, e non può non essere consapevole che il razzismo contemporaneo stia mostrando il suo profilo sistemico ancor più che in passato. Questo accade per lo più quando il suo tratto istituzionale – quello ribadito ancora con il primo decreto legge del 2023, indirizzato falsamente alla “gestione dei flussi migratori” – s’intreccia in modo particolarmente perverso con le offensive mediatiche. Quando, appena pochi giorni dopo la strage di Cutro, Vittorio Feltri – tra i più influenti opinionisti italiani degli ultimi decenni, eletto in Lombardia con il partito del presidente del consiglio e in passato candidato da Meloni e Salvini perfino alla presidenza della repubblica – spiega che “agli extracomunitari ricordo un vecchio detto italiano: partire è un po’ morire. State a casa vostra” c’è veramente poco da ridere. Non è un vecchio signore con il gusto della provocazione e un tasso alcolico elevato quello che dice: “Io non ho mai frequentato le spiagge né messo un piede in mare. Ma se dovessi affrontare le onde sceglierei una nave vera non una carretta semigalleggiante condotta da scafisti delinquenti”. No, Feltri è un autorevole opinion leader che illustra a platee molto vaste l’asse delle politiche italiane sulle migrazioni. Sono politiche davvero razziste o si tratta invece delle solite pantomime tra schieramenti politici in cui vince chi la spara più grossa e poi tutto scivola nella melmosa palude mediatica senza lasciar concreta traccia? Annamaria Rivera prova, ancora una volta, a restituire la pienezza dei significati al tempo che stiamo vivendo, un tempo in cui l’espressione politica che chiama con la formula “circolo vizioso del razzismo” si fa ogni giorno più letale e terribilmente concreta

Per cominciare, conviene proporre una definizione di razzismo, sia pure imperfetta. Quella che suggerisco è la sintesi della voce che scrissi per il Grande Dizionario Enciclopedico UTET. Il razzismo – scrivevo – è definibile come “un sistema di credenze, rappresentazioni, norme, discorsi, comportamenti, pratiche e atti politici e sociali, volti a stigmatizzare, discriminare, inferiorizzare, subordinare, segregare, perseguitare e/o sterminare categorie di persone alterizzate“. A mio parere, il termine “razzismo”, al singolare, è preferibile a “razzismi” (molto in voga, anche a sinistra), se vogliamo definire il carattere unitario del concetto, al di là delle variazioni empiriche del fenomeno.

Il razzismo (al singolare) è anche un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze economiche e sociali, nonché giuridiche e di status, che viene riprodotto, avvalorato, legittimato da norme, leggi, procedure e pratiche routinarie: ciò che in altre parole è detto razzismo istituzionale. Il quale finisce per generare una stratificazione di disuguaglianze in termini di accesso a risorse economiche, sociali, materiali e simboliche (lavoro, status, servizi sociali, istruzione, conoscenza, informazione…). Occorre sottolineare, infatti, l’importanza dei dispositivi simbolici, comunicativi, lessicali che sono in grado di agire direttamente sul sociale, producendo e riproducendo discriminazioni e ineguaglianze.

Quanto alla nozione di “razza” – criticata e poi abbandonata da una buona parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla – essa è una categoria tanto infondata quanto paradossale, essendo basata sul postulato che istituisce un rapporto deterministico fra caratteri somatici, fisici, genetici e caratteri psicologici, intellettivi, culturali, sociali. “Razza” non è altro che una metafora naturalistica, per dirla con la formula di Colette Guillaumin, sociologa femminista, autrice de L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel (1972): una delle opere migliori che siano state scritte sul mito della razza e sul razzismo, ciò nondimeno tradotta in Italia assai tardivamente, nel 2022. Tale metafora è adoperata per naturalizzare non solo le persone alterizzate, ma anche lo stesso processo di svalorizzazione, stigmatizzazione, gerarchizzazione, discriminazione ai danni di taluni gruppi, minoranze, popolazioni.

Nel razzismo odierno, che si è convenuto di definire “neo-razzismo”, il determinismo biologico-genetico è spesso sfumato, talvolta dissimulato. Al fine di giustificare ostilità, disprezzo o rifiuto degli altri e delle altre, di attuare e legittimare pratiche di discriminazione, segregazione ed esclusione, fino allo sterminio, perlopiù si essenzializzano differenze o presunte differenze, sociali, culturali, religiose, così da concepirle come a-storiche, assolute, immutabili.

Nondimeno, conviene ricordare che già l’antisemitismo moderno era solo in apparenza culturalista e differenzialista: ha ragione Etienne Balibar a sostenere che «il neo-razzismo può essere considerato, dal punto di vista formale, come antisemitismo generalizzato».

Di conseguenza, conviene non assolutizzare neppure l’assunto secondo il quale il razzismo dei nostri giorni sarebbe senza razze. In realtà, gli slittamenti, il mélange, i passaggi dal razzismo biologista a quello detto culturalista, ma anche viceversa, ci sono sempre stati, ci sono tuttora, sono sempre possibili: al momento opportuno può riemergere l’immaginario sedimentato della “razza”.

Faccio due esempi. Pensate all’impiego corrente della nozione di etnia. Spesso, nell’uso che ne fanno i media, non è altro che un mascheramento di “razza”, per meglio dire un suo sostituto funzionale eufemistico. Altrimenti non si comprenderebbe perché mai in certi lessici giornalistici italiani, anche mainstream o perfino decisamente di sinistra, possano ritrovarsi espressioni paradossali quali “individuo di etnia cinese” o “di etnia latino-americana”.

Insomma, gli altri e le altre, non sono nominabili – simmetricamente al noi – secondo la nazionalità e la loro singolarità, poiché si pensa che appartengano a un’entità collettiva diversa, primitiva o primigenia: l’”etnia”, cioè la “razza”.

Tuttavia, vi è un caso recente che illustra come “etnia” sia usato esplicitamente, anche in rapporto al noi, come sinonimo di “razza”. È quello del leghista Attilio Fontana, attuale governatore della regione Lombardia, che, da candidato, affermò, in perfetto stile Ku Klux Klan: “Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca (…) devono continuare a esistere o devono essere cancellate”. 

In realtà, in Italia come in Francia, soprattutto a partire dal 2013 e ora più che mai, si assiste a uno sconcertante ritorno della stessa “razza”, evocata da immagini e rappresentazioni del tutto simili a quelle che potevano trovarsi nelle pubblicazioni popolari al servizio della propaganda fascista e colonialista: anzitutto il topos che assimila i “negri” a scimmie, col classico corollario di banane.

In Italia, dileggi e ingiurie di tal genere s’intensificarono in modo martellante e quotidiano, soprattutto al tempo del governo Letta prendendo a bersaglio, in particolare, la ex ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge, di origini congolesi: nel 2013 il leghista Roberto Calderoli osò pubblicamente compararla a un “orango”.

Non fosse altro che per questo, alquanto discutibile appare l’impegno profuso da taluni/e studiosi/e, soprattutto francesi e italiani/e, che si rifanno alla “Critica postcoloniale”: una tendenza diretta a reintrodurre il termine e la nozione di razza nel lessico delle scienze sociali, in tal modo vanificando quasi un secolo di paziente lavoro critico volto a decostruirli. Per citare solo l’ambito dell’antropologia culturale, è almeno a partire dagli anni ’30 del Novecento che la “razza” inizia a essere confutata da illustri studiosi, soprattutto da antropologi culturali statunitensi, quali Franz Boas e Ashley Montagu, più tardi dal cubano Fernando Ortiz (El engaño de las razas, 1946): quest’ultimo, purtroppo, mai tradotto, quasi sconosciuto, quindi raramente citato.

Incuranti del rischio di ri-legittimare la “razza” al livello del senso comune, i “post-coloniali” la hanno collocata al centro del loro apparato concettuale, sia pur intendendola come costruzione sociale e dispositivo d’inferiorizzazione, subordinazione, esclusione degli altri e delle altre.

Il ragionamento di alcuni di loro è riassumibile nei termini di un sillogismo di questo genere: la retorica dei diritti umani ha fatto della “razza” un interdetto; ma, poiché la discriminazione e il razzismo esistono, per renderli palesi, analizzarli, contrastarli, nominarne le vittime, conviene riesumare il termine di razza.

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Fonte: Comune-info  


Autore: 
Annamaria Rivera

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Articolo tratto interamente da 
Comune-info 


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