Articolo da La Città invisibile, rivista del laboratorio politico perUnaltracittà – Firenze
Tra le sfide affrontate dalle democrazie moderne, il conflitto tra stabilità democratica e difesa del diritto al dissenso, è stata quella che forse più di altre ed in più di una stagione politica, ha scatenato spaccature profonde nel dibattito istituzionale e politico nel nostro paese, talvolta con effetti devastanti sulla società.
Tra ‘800 e ‘900, agli albori del processo di democratizzazione, la comparsa dei primi partiti di massa, il diffondersi di nuove e forti organizzazioni sindacali, l’esplodere di ampi movimenti popolari di protesta, si scontrò con l’iniziale e generale rifiuto delle élite dominanti conservatrici ad allargare le maglie della partecipazione politica. In nome della stabilità, si negò il diritto di voto ai nuovi protagonisti della vita politica e sociale, operai, contadini, donne, si disconobbero i loro diritti, si repressero le loro proteste.
Raggiunta la soglia di un cambiamento ormai ineludibile, il fascismo si impose come la cura migliore per restituire stabilità al paese: di conflittualità sociale e di democrazia non se ne parlò più per un ventennio. Abbattuto il fascismo, la parola passò alla Costituzione che veicolò nella cultura politica ed istituzionale italiana, una idea inedita di democrazia. Inedita, anzitutto, perché radicalmente inclusiva e proprio per la sua inclusività generatrice di conflitti. In quell’Italia, appena uscita dalla guerra, infatti, anche il solo riconoscere a “tutti i cittadini”, senza distinzione di genere, di estrazione sociale, di appartenenza etnica, pari dignità sociale e politica, significò di fatto sospingere milioni di donne, di lavoratori, di giovani, a creare le condizioni perché ciò potesse divenire realtà.
Ciò che accadde, lo sappiamo, fu l’aprirsi di una epopea di conflitti sindacali, politici e sociali, in assenza dei quali, si può legittimamente dubitare che si sarebbe continuato a parlare di democrazia, almeno nel senso immaginato dalla Carta Costituzionale. Tra fattore K, Gladio, P2, servizi deviati, terrorismo stragista, non sono state poche le forze in campo che lungo quasi tutta la seconda metà del novecento, hanno prospettato scenari inquietanti per il nostro paese e furono proprio gli alti livelli di mobilitazione sociale, sindacale e politica, nonché la presenza di forti e radicali movimenti di protesta, che dettero un contributo decisivo, a far da barriera verso un approdò autoritario. Certo a corollario di tutto ciò, va ricordato, vi era una idea forte di rappresentanza e partecipazione, con a sinistra partiti di massa ancora saldi ed integri.
Con la crisi della cosiddetta “democrazia dei partiti” che in Italia esplose tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90, la situazione prese tutt’altra piega. Da quella cesura, infatti, derivò quell’alleanza tra berlusconismo, populismo leghista e destra postfascista, che da subito coltivò l’ambizione di rovesciare e sostituire la logica costituzionale di inclusione ed uguaglianza, con una di sicurezza e repressione. Al passaggio di millennio, le crisi finanziarie che a cascata colpirono tutte le principali economie mondiali, ebbero un ulteriore impatto destabilizzante sulla società, insicurezza economica, paura del futuro, cominciarono a serpeggiare vorticosamente tra gli italiani.
Ma questa volta, diversamente dal passato, dal più recente al più lontano, mancò una dimensione politica collettiva di risoluzione dei conflitti, ognuno dovette fare da se. Nel 2019, il 53° rapporto del Censis sulla situazione sociale in Italia, rilevò un paese in preda ad una vera e propria crisi di nervi. «Nell’eccezionale cambiamento epocale, condensato in pochissimi anni», scrissero i ricercatori del Censis, «il furore di vivere degli italiani li ha riportati tenacemente ai loro stratagemmi individuali» di sopravvivenza, ma c’era stato un prezzo da pagare: uno stress logorante, diffuso soprattutto tra i ceti popolari, che riguardava in via esclusiva e diretta il rapporto di ognuno con il proprio futuro e non più con la società nel suo complesso.
Disillusione, ansia sociale e la perdita di qualsiasi punto di riferimento collettivo ed ideale, hanno risvegliato un virus annidato nelle pieghe della società. La sfiducia nei confronti di tutto e di tutti, sul piano politico, impose un altro prezzo da pagare, l’emergere di crescenti pulsioni antidemocratiche. Sempre secondo il Censis, «il 48% degli italiani» si dichiarava a favore dell’uomo forte al potere e profondamente sprezzante nei confronti del Parlamento e delle elezioni. Da che parte soffiasse il vento del disagio politico ed esistenziale degli italiani era evidente e quell’approdo autoritario tanto caro alla destra ed alla parte più conservatrice, quando non apertamente reazionaria dell’opinione pubblica, era ormai alla portata. Oggi, coerentemente con quelle stesse premesse che da poco più di un biennio l’hanno condotta al potere, l’élite meloniana, ancora profondamente legata alle sue radici storiche, al fascismo, sta spingendo per arrivare ad una frattura nella storia della democrazia repubblicana, il peggio è che sembra stare per riuscire nel suo intento.
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Articolo tratto interamente da La Città invisibile, rivista del laboratorio politico perUnaltracittà – Firenze
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