La lunga stagnazione dei salari italiana è un dato incontrovertibile. Secondo i dati Ocse l’Italia, tra il 1990 e il 2020, è l’unico paese dell’area nel quale il salario medio annuale è diminuito del -2,9%, a fronte della crescita registrata in Germania e in Francia, rispettivamente del 33,7% e del 33,1%. Il recente shock inflattivo post-pandemico ha peggiorato pesantemente il quadro. Sono diversi gli studi che dimostrano come negli ultimi quattro anni in Italia si sia concentrata la più rapida distruzione del salario reale dal secondo dopoguerra. I dati Istat fanno emergere che, tra gennaio 2021 e agosto 2024, le retribuzioni contrattuali orarie lorde hanno subito una perdita del potere di acquisto di circa -10%. Se si restringe lo sguardo, tra gennaio 2021 e dicembre 2023, la perdita sale fino a -12%; solo la chiusura di alcuni contratti collettivi nell’ultimo anno ha consentito un lievissimo recupero, in un quadro in cui ancora a fine settembre il 52,5% del totale dei dipendenti ha un contratto collettivo scaduto, mentre il tempo medio di attesa per il rinnovo va aumentando.
In termini comparati l’ultimo Employment Outlook dell’Ocse conferma che tra il primo trimestre del 2019 e quello del 2024, nell’ambito dei 35 paesi dell’area, l’Italia ha registrato una delle contrazioni più severe del salario reale, riuscendo a far meglio solo della Repubblica Ceca e della Svezia che chiudono la classifica.
Secondo l’Eurostat il tasso di lavoratrici e lavoratori dipendenti a rischio di povertà è pari al 10,3% nel 2023, più alto della media europea a 27 paesi (9,6%) e dell’euro-area (9,8%). Non c’è dubbio alcuno che la questione salariale è una vera e propria emergenza sociale e politica su cui, accanto alle altre questioni, si concentrerà lo sciopero generale e sociale del 29 novembre.
Il governo Meloni nella bozza di legge di stabilità per il 2025 è riuscito a prevedere soltanto misure insoddisfacenti nel merito e sbagliate negli obiettivi. La strada scelta è quella del taglio del “cuneo fiscale”, con una serie di modifiche rispetto alla versione attualmente in vigore. L’intento propagandato dal governo è quello di alleviare la perdita del potere di acquisto, soprattutto per i redditi medio-bassi.
In un quadro segnato da una radicata stagnazione salariale e da una insopportabile crescita delle diseguaglianze, è ancor di più urgente chiedersi se la strada fiscale del taglio del cuneo sia l’unica via per tutelare i salari e, soprattutto, se sia quella più giusta. O se al contrario, come pensiamo, la politica del taglio del “cuneo fiscale” sia stata spesso usata negli ultimi anni – e il governo Meloni accentua questo corso – proprio allo scopo di contenere gli aumenti salariali e proteggere i profitti.
Se andiamo nel dettaglio la manovra di bilancio per i prossimi anni sostituirà al taglio dei contributi previdenziali in vigore la combinazione di due nuovi strumenti: per i contribuenti con reddito complessivo inferiore a 20mila euro viene introdotto un bonus proporzionale al reddito da lavoro dipendente (con aliquota decrescente); per quelli con reddito totale tra 20 e 40mila euro si prevede una nuova detrazione.
Secondo stime di Banca d’Italia, presentate nel corso delle audizioni alla Camera, il reddito disponibile delle famiglie nel 2025, grazie a questa politica fiscale, potrebbe aumentare in media di appena l’1,5%. Si tratterebbe in ogni caso di una crescita solo “potenziale” del reddito disponibile, che tuttavia si attende a un tasso inferiore alla previsione dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato al netto dei beni energetici importati, che per lo stesso anno si colloca al 2%. Ciò significa che gli effetti sul reddito reale delle famiglie sono tutt’altro che certi, soprattutto in un contesto segnato dalla pesante incertezza globale e dall’economia di guerra.
La questione di fondo, dunque, è che una politica salariale fondata esclusivamente sul taglio del “cuneo fiscale” è destinata a essere inefficace, se non addirittura controproducente.
Questo tipo di riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro – in maniera ancora più accentuata nell’attuale legge di stabilità – è nell’esperienza storica recente internazionale sempre associata a privatizzazioni, tagli o riduzioni della spesa pubblica per il welfare. Ciò è tanto più vero quando il taglio del “cuneo fiscale” si combina con la riduzione della progressività delle imposte, come previsto dal governo Meloni. Il risultato finale è che l’aumento dei costi delle famiglie dovuti al mal funzionamento della sanità pubblica, alla scarsa qualità se non alla totale assenza di servizi pubblici in diversi territori, non è neppure minimamente compensato dal limitato aumento del reddito disponibile. In altri termini, in proporzione, da un lato si aumenta di pochissimo il reddito disponibile, dall’altro si riduce molto di più il “salario indiretto” erogato in natura come accesso ai servizi pubblici universali, con l’effetto di peggiorare le diseguaglianze piuttosto che contenerle.
La verità è che la bandiera del “cuneo fiscale” è agitata dal governo Meloni solo per non modificare i rapporti di forza sociali tra dipendenti, sindacati e imprese e, alla fine, per tutelare solo gli interessi di queste ultime. Non basta redistribuire con sistemi fiscali sempre più iniqui e correggere solo ex post i redditi da lavoro. Serve una nuova e più complessiva regolazione del salario che agisca ex ante sulla distribuzione primaria tra salari e profitti, o ciò che nel corrente discorso economico i più avveduti definiscono come regole di pre-distribuzione. È tra questi che rientra la richiesta di un salario minimo legale e la lotta per una nuova regolazione, più inclusiva, della contrattazione collettiva nazionale.
Ciò che chiediamo è, in primo luogo, una legge sul salario minimo orario, che abbia carattere universale e sia rivolta a tutti i settori economici. Un sistema capace di stabilire un pavimento salariale, al di sotto del quale la contrattazione collettiva non deve essere lasciata libera di scendere, ma che al contrario dovrebbe svolgere una funzione di impulso volta a spostare verso l’alto i livelli salariali complessivi.
Il contrasto tra norma sul salario minimo e contrattazione collettiva è un falso problema. Il punto centrale è che serve far evolvere la regolazione salariale da un modello centrato sulla contrattazione collettiva, verso uno di tipo misto.
Secondo l’Istat sono 5,2 milioni i dipendenti coperti da contratto collettivo che ricevono un salario minimo orario al di sotto di 10 euro lordi. Oltre a stabilire la soglia di partenza, la norma dovrebbe prevedere necessariamente regole chiare di aggiornamento periodico, nonché un sistema di indicizzazione automatico. Sarebbe anche necessario che l’aggiornamento della soglia oraria avvenga attraverso una commissione nazionale (come nel modello di alcuni paesi europei), in maniera tale da non demandare al legislatore l’intera materia.
Se non c’è, dunque, una dicotomia tra salario minimo e contrattazione collettiva è altrettanto vero, però, che l’esigenza di una norma sul salario minimo orario nasce semmai dalla crisi, oramai irreversibile, del modello di contrattazione collettivo ereditato dal nefasto biennio 1992-93, dove si sono gettate le basi dell’attuale architettura della regolazione salariale (parzialmente modificata nel 2009 e 2018). Che la stagione della concertazione sia stata un fallimento è fin troppo evidente. Nessuna prova empirica sarebbe in grado di dimostrare il contrario. Che qualcuno persino evochi ancora il ritorno allo “spirito del ‘93” lo dice solo per difendere un potere esclusivo della rappresentanza sociale del lavoro, anche se questo oramai non è evidentemente garanzia della difesa degli interessi.
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Fonte: DinamoPress
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