Articolo da Bibliomanie
Giulia Guazzaloca, La lunga strada della giustizia per gli animali. Uno sguardo storico alla legislazione protezionista in Italia, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 2, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11370
Una delle sfide più delicate e controverse che scaturiscono dalla nostra relazione con gli animali riguarda l’esercizio della giustizia, ovvero le modalità, gli strumenti e i limiti dei nostri interventi per garantire il rispetto delle loro vite, impedendo (o riducendo) abusi e maltrattamenti. Prima di sviluppare l’argomento nelle prossime pagine sono pertanto necessarie due premesse di ordine metodologico.
Sviluppatisi a partire dagli anni Settanta del Novecento, gli animal studies sono un campo di ricerca inter-transdisciplinare che coinvolge, assieme all’etologia e alle scienze veterinarie, la pluralità delle discipline umane e sociali. Anche rispetto al tema della giustizia e della convivenza interspecifica, la filosofia, l’etica, il diritto, la storia, l’antropologia, la scienza politica, la sociologia forniscono altrettanti approcci e interpretazioni1. Gli animali sono titolari di diritti soggettivi e, se sì, quali? Cosa significano “giustizia” e “ingiustizia” applicate ad essi? Abbiamo il dovere di proteggere gli esemplari selvatici dalla fame e dalle malattie? Quali sono le risorse legali migliori per operare in difesa delle altre specie? Qual è stato il percorso storico-politico della legislazione protezionista? È possibile, o auspicabile, attribuire ai non umani la facoltà di agire legalmente? A quale giurisdizione appartiene la più parte degli animali selvatici, impossibili da localizzare? Quali criteri deliberativi si devono adottare dinanzi ai “dilemmi tragici” in cui gli interessi umani confliggono con quelli animali?
Sono solo alcuni dei tanti interrogativi che ruotano intorno alla cosiddetta “questione animale” e non si potrà darne in questa sede un resoconto completo. Molto più circoscritto, l’obiettivo del saggio è quello di offrire una ricostruzione storica del percorso della legislazione italiana in materia di tutela animale, percorso risalente ai codici preunitari del Granducato di Toscana e del Regno di Sardegna2. Si tratta di oltre un secolo e mezzo di storia durante il quale l’interesse per la condizione animale si è via via arricchito di teorie e pratiche nuove, si è nutrito di proficui legami con altri movimenti e mobilitazioni, ha assunto una veste legale e istituzionale grazie alla normativa, oggi molto estesa e articolata, che disciplina il trattamento delle altre specie. All’interno di tale cammino una cesura importante la produsse a livello internazionale la nascita delle moderne dottrine antispeciste negli anni Settanta-Ottanta del Novecento: cambiarono le forme della militanza, si ampliò il raggio d’azione degli attivisti, emersero nuove rivendicazioni e cominciò a trasformarsi anche il punto di vista del legislatore. La Dichiarazione universale dei diritti dell’animale sottoscritta dall’Unesco nel 1978 si può considerare il simbolico inizio di questo nuovo orientamento; pur non essendo vincolante giuridicamente, attribuisce una limitata soggettività agli animali affermando che «nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza»3.
In Italia gli effetti di tale svolta sul piano legislativo si videro a partire dagli anni Novanta quando, dopo decenni di sostanziale immobilismo, si aprì una stagione di grandi riforme che dotarono il nostro ordinamento di disposizioni riguardanti tutti, o quasi, i comparti delle relazioni tra umani e animali. Concentrandosi su questa fase e sugli aspetti principali dell’attuale normativa, il saggio offrirà anche un breve excursus storico dedicato all’età liberale e a quella fascista con l’intento di cogliere continuità e rotture di un percorso che ha visto crescere progressivamente, a tutti i livelli, l’attenzione nei confronti dei bisogni e del benessere degli animali. Un paragrafo finale sarà incentrato sul raffronto tra l’approccio dell’animal welfare, grosso modo assimilabile alle politiche protezioniste vigenti, e la tesi degli animal rights attorno alla quale si è sviluppato un ampio dibattito che rappresenta probabilmente la sfida maggiore lanciata da alcuni teorici dell’animalismo agli attuali ordinamenti. Anche in questo caso si privilegeranno un’ottica di tipo storico, con l’obiettivo di sottolineare la “lunga durata” di determinate riflessioni, e i contributi portati dai principali studiosi italiani dell’argomento.
La seconda succinta premessa riguarda il case studydel saggio. La storia della legislazione protezionista italiana non presenta elementi di spiccata eccezionalità, ha conosciuto un cammino abbastanza simile a quello degli altri paesi europei e, rispetto a talune misure, può essere letta come un adeguamento normativo ai cambiamenti intervenuti nella percezione collettiva degli animali e del nostro rapporto con essi4. La scelta di concentrare il focus sull’Italia discende quindi dalla convinzione che l’esperienza del nostro Paese possa costituire una chiave di lettura per cogliere i più generali indirizzi e campi d’intervento della normativa in materia di animali. Esiste invero, soprattutto oggi, una caotica pluralità di giurisdizioni che rendono il panorama assai differenziato e producono, anche all’interno delle singole nazioni, un enorme divario tra le leggi esistenti e quelle effettivamente applicate. Lungi pertanto dal presentare l’Italia come un caso virtuoso o un modello universalizzabile, ci limitiamo a constatare che la storia del protezionismo italiano si colloca, tutto sommato, nel solco dell’animal advocacy internazionale, ovvero nel solco di quei paesi che gli zoofili ottocenteschi definivano «civili». In tal senso, la normativa italiana può darci un’idea del molto che è stato fatto per agire legalmente in difesa delle vite animali e del molto (o moltissimo) che resta da fare.
2. Opera pietosa, civile, patriottica: la legislazione zoofila in età liberale e fascista
Sebbene le origini del dibattito italiano sulla tutela animale e le prime disposizioni di legge si ritrovino già nella prima metà dell’Ottocento, un vero e proprio movimento zoofilo si strutturò solo dopo l’unificazione5. Sull’esempio della Società torinese protettrice degli animali, nata nel 1871 grazie all’interessamento di Giuseppe Garibaldi e della nobildonna inglese Anna Winter, associazioni «contra il mal governo delle bestie» videro la luce in tutte le principali città e svilupparono una fitta rete di contatti sia tra loro che con le consorelle europee. Assai lontane dall’orizzonte dei moderni gruppi animalisti, contemplavano un numero ristretto di abusi e maltrattamenti, perlopiù quelli praticati nei luoghi pubblici dalla manodopera dedita al bestiame, e si rivolgevano principalmente ai fanciulli e alle classi lavoratrici per affrancarle da «usanze barbare» e «spettacoli schifosi»6. Il loro obiettivo era diffondere i sentimenti «dell’affetto, della disciplina, della morale e dell’amor patrio»7, ma anche la consapevolezza che un uso corretto e razionale degli animali avrebbe reso «un gran servigio all’ordine della vita materiale, sia dal punto di vista della salubrità che della produzione»8. Con le vesti di autentiche officine educative, le società zoofile sentivano di partecipare al più vasto processo di nation building e i loro affiliati, provenienti perlopiù dal mondo della borghesia liberale e laica, erano spesso impegnati anche in altre cause riformatrici e filantropiche. Il protezionismo trovò quindi spazio nel discorso pubblico e nell’attivismo sociale come forma di pedagogia collettiva basata sulla convinzione che il rispetto per gli animali fosse un attributo dei «popoli civili» e servisse a «propagare i progressi dell’umanità»9.
Pur inclini a pensare che «l’istruzione e l’educazione possono più delle leggi»10, gli zoofili si mossero anche sul terreno politico e già nel 1873 chiesero di introdurre nella legislazione penale un articolo contro i «mali trattamenti o atti di crudeltà» verso gli animali. Lo fece, 16 anni dopo, il nuovo codice penale redatto da Giuseppe Zanardelli che inserì tra i reati contro la pubblica moralità quello di maltrattamento di animale. L’art. 491 prevedeva un’ammenda fino a 100 lire per «chiunque incrudelisce verso animali o, senza necessità li maltratta ovvero li costringe a fatiche manifestamente eccessive»; la stessa pena era fissata per chi, «fuori dei luoghi destinati all’insegnamento, sottopone animali ad esperimenti tali da destare ribrezzo»11. Se, da un lato, si recepiva parzialmente il principio della sensività animale – «il martoriare, con animo spietato, esseri sensibili […] non cessa di essere un male perché quelli che ne soffrono sono privi dell’umana ragione» –, dall’altro Zanardelli disse che le violenze sugli animali suscitano nell’uomo «affetti feroci e barbari» e lo «induriscono anche contro i suoi simili»12, secondo la vecchia “tesi della crudeltà” di San Tommaso. Che fosse una norma di stampo antropocentrico lo dimostravano altresì i richiami al pubblico ribrezzo e ai maltrattamenti inutili, segno che il legislatore aveva a cuore soprattutto la protezione della sensibilità collettiva dai turbamenti suscitati dalla spietatezza verso gli animali. Con un’impostazione pedagogica e civilizzatrice, l’art. 491 costituì comunque una novità importante, anche perché tutta la legislazione zoofila dell’epoca era ancora incentrata prevalentemente sulla tutela degli interessi umani. Più che nei contenuti della norma, il problema risiedeva semmai nella sua applicazione e nell’assenza di ausili o riconoscimenti per le società protettrici; le pressioni degli attivisti in tal senso sarebbero state in parte recepite dalla legge del 1913.
Presentato alla fine del 1910 da Luigi Luzzatti, il disegno di legge scaturiva dalla consapevolezza che nei «più civili Stati del mondo» si stavano estendendo le misure contro le crudeltà, mentre in Italia l’attuazione dell’art. 491 era lasciata «allo zelo di associazioni di privati cittadini»13. Rispetto al progetto originario, tuttavia, il Senato respinse sia la possibilità per le società zoofile di costituirsi parte civile nei processi penali, sia molte delle restrizioni inizialmente previste per l’esercizio della sperimentazione; la legge fu infine approvata dalla Camera il 6 giugno 1913 con 206 voti favorevoli e 23 contrari. Tutt’altro che perfetta – ammise Luzzatti –, era comunque l’«inizio di una cosa buona e […] santa, il rispetto degli esseri più deboli», e nel complesso risultava abbastanza innovativa e dettagliata. Proibiva «gli atti crudeli», l’impiego di animali anziani o malati non «più idonei a lavorare, il loro abbandono, i giuochi che importino strazio […], le sevizie nel trasporto del bestiame, l’accecamento degli uccelli» e in generale le «inutili torture» di ogni specie animale; non conteneva più i vecchi richiami al pubblico ribrezzo e corroborava le iniziative delle società protettrici, conferendo loro la personalità giuridica e il compito di promuovere l’applicazione delle norme14. Il suo merito maggiore consisteva proprio nell’aver attribuito «la consacrazione del governo e del Parlamento» all’operato degli zoofili, rendendo i loro sforzi una «virtù pubblica»15. Sebbene dopo due anni l’ingresso dell’Italia in guerra ne avrebbe compromesso l’applicazione, l’importante contributo degli animali sui campi di battaglia finì per rafforzare nell’immaginario collettivo il connubio tra civiltà, orgoglio patriottico e rispetto per tutte le creature viventi.
Non stupisce pertanto che Benito Mussolini si sia appropriato della causa della tutela animale per farne un vanto della “modernità fascista”. Declinata in chiave nazionalista, autoctona e virile, la «sana zoofilia» mussoliniana doveva, da un lato, portare alla completa fascistizzazione del movimento protezionista e, dall’altro, alimentare il mito della grandezza nazionale. «Chi maltratta gli animali non è italiano»16, soleva dire il duce, che aveva «simpatia» per tutti gli animali17 e costituiva la prova vivente che tale attitudine non rende incapaci «di azioni virili ed eroiche»18. Il successivo avvicinamento alla Germania nazista, dove nel 1933 era stata varata una legge anti-crudeltà tra le più avanzate dell’epoca, fece dire a Mussolini che il popolo tedesco, «senza dubbio un popolo militare», aveva «naturalmente insito il rispetto verso gli animali fino a mostrare talvolta un vero culto per esso»19. Nell’ottica del regime gli animali erano comunque «beni» della nazione e «fattori necessari dell’autarchia»20. Trasferita «sopra un piano nazionale e coordinato», la zoofilia diventava così indistinguibile dalla zootecnia, la bontà si legava all’utile, la gratitudine al profitto e la disciplina morale del singolo si trasfondeva negli interessi della patria21. Gestire e disciplinare il rapporto tra gli italiani e il mondo animale divenne pertanto uno degli obiettivi dell’esperimento totalitario mussoliniano e in questa direzione si orientarono le sue disposizioni legislative22.
La legge più autenticamente fascista – ma altresì decisiva per le sorti del movimento zoofilo dopo la fine della Seconda Guerra mondiale – fu quella che nel 1938 istituì l’Ente nazionale fascista per la protezione degli animali. Eretto in ente morale autorizzato a fregiarsi del fascio littorio, assorbì le preesistenti società zoofile con il compito di concorrere alla «difesa del patrimonio zootecnico», svolgere un’«efficace propaganda di sana zoofilia» e vigilare sull’attuazione delle disposizioni di legge23. Organo «parastatale, unitario e totalitario»24 celebrato come «una nuova provvidenza del regime»25 che istituzionalizzava la zoofilia «nel grande quadro corporativo della nazione fascista»26, il nuovo ente costituì l’acme del dirigismo mussoliniano in materia di tutela e, più in generale, uno dei tasselli del programma di integrazione totale della società nello Stato. Anche la cosiddetta legge Acerbo, il testo unico delle disposizioni sulla caccia varato nel 1931, mirava essenzialmente alla fascistizzazione del comparto venatorio; le vecchie associazioni furono incorporate dalla Federazione nazionale fascista dei cacciatori italiani che, sotto la vigilanza del Ministero dell’Agricoltura, divenne l’effettivo strumento di gestione della caccia da parte del governo27.
Delle tre leggi promulgate in tema di sperimentazione animale, la più importante fu quella del 1931 che, lievemente modificata dieci anni dopo, sarebbe rimasta in vigore fino al 1992. Per la prima volta utilizzava il termine «vivisezione», vietandola assieme a tutti gli esperimenti su mammiferi e uccelli quando non avessero «lo scopo di promuovere il progresso della biologia e della medicina sperimentale»; quella su cani e gatti, «normalmente vietata», era permessa solo qualora non fosse «assolutamente possibile» avvalersi di altre specie. Anche l’obbligo di anestetizzare gli animali poteva non essere rispettato in casi di estrema necessità. Nel complesso le numerose deroghe, poco specificate e lasciate alla libera decisione dei ricercatori, finivano per disciplinare solo limitatamente l’uso degli animali negli esperimenti28.
Non erano disposizioni davvero originali e cogenti neppure quelle contenute nel codice penale promulgato da Alfredo Rocco nel 1930. L’articolo più importante, il 727 sul reato di maltrattamento, riprendeva sostanzialmente il testo dell’articolo del codice Zanardelli e lasciava indefinito e discrezionale il concetto di “maltrattamento”; anche l’articolo sull’uccisione o danneggiamento di animali altrui continuava a vedere l’animale come un bene economico salvaguardato dallo Stato negli interessi del proprietario. Se fra le norme penali la sola novità di rilievo consistette nell’introduzione del reato di «omessa custodia o mal governo di animali» (art. 672)29, più significativo fu il regolamento sulla vigilanza delle carni del 1928 con cui il regime, dietro le pressioni degli zoofili, stabilì che per la macellazione si dovessero adottare «procedimenti atti a produrre la morte nel modo più rapido possibile»; l’impiego di pistole a proiettile captivo, un «sistema di macellazione umanitaria, assolutamente accettabile sotto tutti i punti di vista»30, sarebbe diventato una delle grandi battaglie dell’Enfpa. Con l’introduzione delle leggi razziali nel 1938, il regime impose il divieto di macellazione per dissanguamento secondo il rito ebraico, una misura «illuminata» – scrisse la stampa – che metteva fine a una «barbara pratica» indegna di «una razza civile»31.
In generale, le disposizioni introdotte dal fascismo si rivelarono durature ma non così radicali come le presentava la roboante propaganda mussoliniana. La centralizzazione statalistica non comportò una reale semplificazione normativa, non eliminò le deroghe in materia di vivisezione, non chiarì la definizione del reato di maltrattamento, mentre la sovrapposizione delle competenze continuava a costituire un limite alla razionalizzazione efficientistica cui aspirava Mussolini32. Inoltre, benché si dicesse che il rispetto per gli animali era stato elevato a «dovere sancito dalla legge»33, la tutela giuridica restava indirizzata principalmente ai sentimenti umani di pietà e all’inviolabilità del patrimonio. Con la nascita della Repubblica sopravvisse comunque la maggior parte dei provvedimenti fascisti, compreso l’Ente nazionale per la protezione degli animali che nel 1945 il governo decise di non sopprimere perché «in ogni paese che si rispetti, il senso di umanità nei riguardi degli animali fa parte dell’educazione civile»34. La creatura tanto voluta da Mussolini, sebbene per motivi lontani dal riconoscimento della dignità animale, sarebbe rimasta un ente di diritto pubblico fino alla fine degli anni Settanta.
3. Dalla parte degli animali: la nascita dell’animalismo moderno
Quando nel 1982 Alberto Pontillo, teorico e organizzatore del movimento antivivisezionista, coniò il termine “animalismo” lo fece per sottolineare la cesura con l’approccio compassionevole della vecchia zoofilia e per dimostrare che l’attivismo in favore degli animali stava cambiando volto anche in Italia35. Mentre l’Enpa – all’epoca la più grande realtà organizzativa del settore con oltre 110 sedi e migliaia di volontari – attraversava una grossa crisi interna e la sezione italiana del WWF aveva cominciato a promuovere il passaggio dal vecchio conservazionismo al moderno ecologismo, nell’ambito della tutela animale la frattura fu data dalla pubblicazione nel 1976 di Imperatrice Nuda dell’italo-svizzero Hans Ruesch. Pietra miliare dell’antivivisezionismo italiano e internazionale, il volume portò alla nascita di nuove organizzazioni – tra le altre, la Lega anti-vivisezione istituita a Roma nel 1977, la Lega antivivisezionista italiana, l’Organizzazione internazionale per la protezione degli animali, la Lega italiana dei diritti dell’animale – caratterizzate sia dall’impegno per «l’abolizione totale della vivisezione», e non già solo per la sua regolamentazione, sia dal credo antispecista, paradigma teorico centrale di tutte le nuove etiche animaliste36.
Il termine “specismo” era stato introdotto nel 1970 dallo psicologo inglese Richard Ryder per indicare la diffusa discriminazione praticata dall’uomo verso i membri delle altre specie e divenne il concetto portante di Animal Liberation (1975), il volume del filosofo australiano Peter Singer considerato la bibbia dell’animalismo moderno. Se Animal Liberation fece decadere la discriminazione in base all’appartenenza di specie tramite l’argomento della sofferenza, The Case for Animal Rights (1983) dello statunitense Tom Regan formalizzò su basi giusnaturalistiche la teoria dei diritti animali37. Si trattò di una rivoluzione copernicana che investì tutti gli ambiti della “questione animale” a partire dal lessico: il concetto di specismo, l’assimilazione della vivisezione a un moderno “olocausto”, il nuovo linguaggio liberazionista furono il detonatore di un nuovo inizio nella storia della protezione animale. Allontanatasi dalla mera lotta alle crudeltà, cominciò a rivendicare la difesa dei non umani in base al medesimo «principio etico su cui si fonda l’eguaglianza umana»38.
Mettersi «dalla parte degli animali», come affermava Pontillo, non rappresentò il solo elemento di rottura delle nuove leghe con la tradizione zoofila precedente; lo furono anche l’ampiezza dei campi di intervento, la radicalità delle rivendicazioni, le modalità discorsive, le strategie propagandistiche. Gli allevamenti intensivi, il massacro degli animali da pelliccia, la caccia, l’uccellagione, il randagismo, gli zoo, le corride, gli spettacoli con animali, le corse dei cavalli diventarono altrettanti fronti di un’attività massiccia e capillare che mirava a sensibilizzare tanto l’opinione pubblica quanto la classe politica. Da un lato, infatti, i militanti utilizzavano tutti i repertori dell’azione collettiva (presidi, petizioni, picchetti, boicottaggi, sit-in, scioperi della fame) per suscitare la solidarietà dei cittadini, interessare i mass media e fare pressione sui governi. Dall’altro, facevano circolare una gran quantità di materiali dai contenuti spesso crudi e scioccanti per squarciare il velo di ignoranza che ancora copriva le pratiche di sfruttamento e creare un forte impatto emotivo nei destinatari. I «manifesti strappalacrime» delle campagne anti-pellicce ad esempio, evocando «senza mezzi termini l’omicidio», crearono polemiche, imbarazzi, sensi di colpa39; il fortunato slogan lanciato dalla Lav (Lega anti-vivisezione) negli anni Novanta Tua madre ha una pelliccia? La mia non l’ha più, con l’immagine di un cucciolo di volpe, è giunto fino ai giorni nostri.
Cuore pulsante del moderno animalismo, fu comunque l’antivivisezionismo a dare notorietà alle nuove leghe e a fare da collettore alle diverse anime dell’universo associazionistico. Già nel 1978 gli attivisti riuscirono a raccogliere 270.000 firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare che chiedeva l’abolizione totale della sperimentazione animale in Italia40; l’anno successivo “Il Resto del Carlino” scrisse che il tema della vivisezione teneva ormai banco «dalle colonne dei giornali ai consessi accademici, dalle aule consiliari a quelle giudiziarie»41. Nell’aprile del 1984 la Settimana dell’antivivisezione, organizzata a Roma dalla Lav con il patrocinio dell’assessorato alla Cultura, fu un successo inaspettato con migliaia i visitatori e una grande eco sui mezzi di comunicazione. L’antivivisezionismo cominciò a coinvolgere anche la classe politica, inserendosi trasversalmente agli schieramenti; furono soprattutto Adele Faccio del Partito radicale, il socialista Filippo Fiandrotti e Gianni Tamino di Democrazia proletaria ad appoggiarlo attivamente e a promuoverlo presso i colleghi parlamentari. Quando, nel 1984, Fiandrotti riuscì a far passare alla Camera un ordine del giorno sul blocco triennale dei fondi pubblici destinati alla vivisezione, il trimestrale della Lav titolò In Parlamento una maggioranza antivivisezionista42.
Sul finire degli anni Ottanta partirono anche in Italia le mobilitazioni contro l’uso degli animali nei test dell’industria cosmetica e le campagne di boicottaggio dei prodotti delle aziende che li impiegavano. Nel 1989 all’istituto Rizzoli di Bologna, dove era prevista l’apertura di un centro di ricerca con animali, una trentina di tecnici si dichiararono obiettori di coscienza alla vivisezione e l’ospedale ne accolse la richiesta43. Quello fu anche l’anno in cui la Lav acquistò una pagina del supplemento culturale di “la Repubblica” titolandola La vivisezione è un crimine; intervenne, tra gli altri, il premio Nobel Rita Levi Montalcini che definì «giusta» la sperimentazione controllata e «barbari» gli antivivisezionisti44.
Tra polemiche, dibattiti, boicottaggi a circhi e zoo, campagne per Natali e Pasque «senza sangue», le istanze degli animalisti avevano ormai conquistato le luci della ribalta. Nel 1985 il presidente della Lega italiana protezione uccelli, dal divano di «Pronto, Raffaella?», iscrisse la Carrà alla sua associazione in diretta nazionale. Nell’edizione di «Fantastico» del 1987, alla vigilia di una tornata referendaria, Adriano Celentano invitò gli italiani a scrivere sulla scheda elettorale «la caccia è contro l’amore», finendo incriminato per attentato contro i diritti politici45. Nel 1988 migliaia di persone, compresi attori e star del mondo dello spettacolo, sfilarono a Roma in compagnia dei loro cani per sensibilizzare gli italiani contro la piaga degli abbandoni e chiedere una nuova legge sul randagismo46. Qualche anno dopo Marina Ripa di Meana fece scandalo facendosi ritrarre nuda in una campagna anti-pellicce dell’International Fund for Animal Welfare. Non solo la difesa degli animali aveva cambiato volto, linguaggio, strategie, ma stava ottenendo una sempre più vasta legittimazione pubblica; il passo successivo sarebbe stato trasferirne le istanze sul terreno politico e giuridico.
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Fonte: Bibliomanie
Autore: Giulia Guazzaloca
Licenza: This work is licensed under Creative Commons Attribution 4.0 International
Articolo tratto interamente da Bibliomanie
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