Articolo da la Sinistra quotidiana
Lo sciopero generale proclamato da CGIL e UIL per correggere la manovra economica del governo Meloni ha assunto il carattere di quella “rivolta sociale” che, molto comodamente, l’esecutivo ha preferito mostrare urbi et orbi come una sorta di proclama eversivo, di “rivoluzione” quasi bolscevica contro la stabilità capitalistica e liberista protetta da Palazzo Chigi con tutte le compatibilità del caso tra opportunismo politico e interesse particolare del mondo delle imprese.
L’attacco frontale che le destre portano all’altro mondo, quello del lavoro e del disagio (anti)sociale, è nitido, cristallino, impossibile da non vedere per chi, per lo meno, vive nella quotidiana realtà di un’esistenza sopravvivente a sé stessa attimo dopo attimo. L’immersione totalizzante nell’economia di guerra spinge le cifre date dal governo verso una indimostrabilità altrettanto manifesta: la stessa Presidente del Consiglio si corregge più volte e, soprattutto quando fa riferimento alla spesa sociale, non può non ammettere che non c’è ripresa.
La contrazione salariale è lì a dimostrarlo in un contesto europeo in cui, invece, vi è una espansione in questo senso. Unitamente alla profonda crisi multistrato in cui ci troviamo, il governo associa una reazione muscolare che muta il carattere squisitamente rivendicativo dello sciopero generale, della lotta sociale che, per l’appunto, entra nel vivo di una critica di classe che non può non essere evidenziata. Persino i meno propensi a farsi i fatti degli altri notano, senza ormai troppo stupore, che la condizione propria di indigenza è qualcosa di più di un fenomeno particolare.
È la costante di un comportamento della grande economia sovranazionale che ha ripercussioni nell’Italia del fallimento della pace sociale meloniana di vasta portata. Non si tratta soltanto di prendere atto della disapplicazione di buona parte dei piani europei e dei loro finanziamenti (leggasi: prestiti…) dati con precisi scopi di intervento strutturale. Qui la questione tracima dagli argini della manovra di bilancio tout court, perché non riguarda soltanto gli interventi che il governo vuole programmare oggi per i prossimi anni, ma concerne ciò che era già stato messo in cantiere due anni fa.
Le legge di bilancio taglia praticamente tutto quello che gravita nella sfera pubblica e privilegia, con sistematica coerenza filoliberista, tutto quello che invece attiene al privato. La rivendicazione prima quindi è anche quella del mutamento di indirizzo contenuto nella manovra finanziaria, ma prima di tutto è la rivolta sociale contro un politica economica che non è più sostenibile per decine di milioni di italiani. Meloni e Giorgetti hanno – dicono – portato a casa il nuovo Patto di Stabilità europeo. Sembrerebbe una buona notizia, ed invece non lo è per niente.
Quello che hanno portato a casa è un regime di austerità reinnescato con un “piano strutturale di bilancio” che prevede un taglio di oltre tredici miliardi di euro presi non dalle tasche dei ricchissimi ma, come è ovvio nella logica del primo liberismo stile anni Settanta e Ottanta, dalle casse pubbliche, dalle tasche di tutte e tutti noi, spalmando il tutto in una programmazione temporale lunga sette anni. Questa impostazione di correzione dei conti, dettata dall’Unione europea dopo la sostanziale sospensione del famigerato “Patto di Stabilità“, ha aperto le porte ad una nuova “governance” nei conti.
Dal triennalismo del Documento di economia e finanza (il DEF) si passa al pluriennalismo del nuovo piano che ha un carattere vincolante e determina cifre ed investimenti impossibili quindi da modificare se non in presenza di una crisi di governo che, comunque, necessita di un passaggio tutt’altro che formale con la Commissione europea. A detta dell’esecutivo di Giorgia Meloni, finanza, economia, mondo delle imprese e del lavoro vanno a gonfie vele, nonostante le crisi internazionali e nonostante persino i giganti della ripresa in Europa, primo fra tutti l’esempio tedesco, siano in clamoroso affanno.
La crisi pandemica ha fatto sussultare l’intero impianto strutturale continentale; il tutto nel contesto di una globalizzazione in cui il multipolarismo ha accelerato le contese locali in una dinamica di ridefinizione dei poli di espansione: due miliardi e mezzo di salariati nel mondo subiscono le ripercussioni di una economia che concentra sempre di più i capitali e mette nelle mani di pochi queste immense ricchezze e la possibilità per loro di determinare la prassi di governo di Stati dominanti e di una serie di servitori cortesi che vi si accodano mestamente.
Dopo la pandemia, dunque, si è giunto ad un livello di “crescita zero” nel corso del 2023, confermata nel 2024 da un calo della produzione industriale che prosegue ininterrottamente da oltre un anno a questa parte: gli esempi possono essere molti, tra tutti Stellantis e Beko. Si parla quindi di migliaia e migliaia di posti di lavoro che rischiano di saltare e quindi della chiusura di interi impianti produttivi con ripercussioni enormi sugli indotti che ne sono collegati. La frammentazione nel mondo del lavoro è devastante: si va al di là della parcellizzazione, si è all’atomizzazione dei diritti.
Ormai per “lavoro autonomo” si intende praticamente tutto e il contrario di tutto. Non esiste nessuna vera “autonomia” da parte del lavoratore di gestire il proprio tempo, se non in una chiave meramente illusoria di disporre di modalità che sono prevista dall’impersonale datore di lavoro: la grande popolazione precaria dei riders sa di cosa si tratta. Guadagnare meno di otto euro all’ora, grazie ad un contratto stipulato dalla sola UGL (il che la dice lunga, o corta, a seconda dei casi e delle interpretazioni…), con trattenute fiscali del 20%, costretti ad un regime di partita IVA se si superano incassi lordi di cinquemila euro all’anno, come lo si può chiamare?
Lavoro autonomo? Oppure, più opportunamente e consonamente “neoschiavismo“? Quando economisti tutt’altro che vicini al sindacato, ma obiettivi nell’esame dei dati, affermano che il lavoro autonomo è praticamente sovrapponibile a quello del precariato estremizzato all’ennesima esasperante potenza dello sfruttamento a tutto tondo, non commettono un errore di sopravvalutazione. Semmai il contrario. Il citato “Piano strutturale di bilancio” è la fotocopia di tutto questo.
Prevede solamente tagli a tutto spiano che si tradurranno in sempre meno risorse per la sanità, per l’istruzione e la ricerca, per le politiche sociali, per i salari e gli investimenti pubblici, per le pensioni. La già pesante riduzione del potere di acquisto (calcolata nel triennio 2021-2023 di circa 18 punti in percentuale) si somma a nuovi carichi inflattivi che impoveriscono ulteriormente i ceti già più traumatizzati dalle ricadute antisociali delle politiche di austerità dei decenni precedenti. Non è vero – come sostengono Meloni e Giorgetti – che questa è l’unica via possibile per ritemprare i conti del Paese.
Fonte: la Sinistra quotidiana
Autore:
Licenza:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Unported.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.