Articolo da Unimondo
Le risposte: all’incirca 1.270. Purtroppo no.
Le domande: ma più o meno, da quanto è uscito l’ultimo rapporto Istat (2014), quante donne sono morte ammazzate in un contesto di dinamiche di genere? Starà cambiando qualcosa, rispetto all’andamento di quel fenomeno strutturale e incancrenito che è la violenza maschile sulle donne in Italia?
Da una ricerca veloce sul web, l’ultimo decennio mostra un andamento regolare, di circa 120-130 femminicidi l’anno - per un totale, appunto, di 1.270 vittime. Questa regolarità dimostra che la risposta alla seconda domanda è che no, non sta cambiando niente.
Vale la pena ricordare che nei femminicidi la logica è quella di una dinamica di potere all’interno della relazione, dove chi pensa di detenerlo o lo detiene – la parte maschile – cerca di imporlo alla controparte – femminile – in modo che questa obbedisca. La donna viene quindi uccisa in quanto donna che non rispetta il suo “naturale” status di subordinazione di fronte all’uomo.
Sarebbe bello che gli assassini fossero dei mostri, ma purtroppo sono uomini normalissimi di cui nessuno sospetta mai. È interessante tracciare un paragone con un altro studio Istat, questa volta del 2018, sull’andamento degli omicidi in Italia negli ultimi 30 anni. Se nei primi anni Novanta si contavano 5 vittime di sesso maschile per ogni donna uccisa, nell’attualità il rapporto scende a 1,6 – una flessione netta, ma che riguarda esclusivamente l’omicidio di uomini. Vale la pena ricordare anche che, a prescindere dal sesso/genere della vittima, oltre il 90 % degli assassini è comunque uomo. E sì, ne consegue che come società abbiamo un problema di violenza maschile.
Non sorprende quindi che per le donne il rischio si trovi tra le pareti di casa: vengono infatti uccise soprattutto da partner o ex partner (54,9%) e da parenti (24,8%). Gli uomini invece sono più a rischio nello spazio pubblico (il 37,7% è vittima di sconosciuti e il 33% autori non identificati). Se ne deduce che invece di fare attenzione quando escono di casa, le donne dovrebbero fare attenzione quando rientrano a casa, perché in termini statistici il pericolo è lì. Ma se regolarmente sono partner, ex partner e parenti i principali aguzzini, allora il problema non è solo individuale, ma anche sociale. C’è un consenso pressoché unanime, nel mondo accademico, che vede la violenza di genere – ed in particolare la violenza contro le donne – come un fenomeno strutturale e non emergenziale (si legga, ad esempio, Pezzini e Lorenzetti, 2020). Eppure, invece di lavorare sulla prevenzione e avviare un cambiamento culturale di cui c’è un ovvio bisogno, la maggior parte delle misure intraprese per contrastare questa piaga afferiscono all’emergenzialità – si passano leggi più o meno buone su carta, ma poi mancano o i finanziamenti o la formazione degli operatori che si trovano, volenti o nolenti, a entrare in contatto con questo problema: avvocati, giudici, forze dell’ordine, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, personale sanitario. La violenza maschile contro le donne non riguarda infatti solo la coppia aggressore-vittima; la violenza maschile contro le donne riguarda la società in cui la coppia vive, nella sua interezza. La violenza maschile contro le donne ci riguarda quindi, è un nostro problema a livello collettivo, nonché un evidente problema di giustizia sociale.
Si chiede alle donne di denunciare, e queste poi spesso vengono lasciate sole o non vengono credute. L’Istat ci ricorda come solamente il 12,2 % delle donne vittime di violenza da parte del proprio partner lo denunci; quando l’aggressore non è il partner, il numero scende al 6 %. Sarebbe interessante capire quanti di questi aggressori siano poi effettivamente condannati, con quale tipo di pena e quali siano i tempi tecnici della giustizia. Sappiamo che questi in genere sono lunghi. Per quanti mesi/anni una vittima è costretta dal sistema a rimanere tale, prima di poter continuare a vivere la propria vita lasciandosi il trauma alle spalle?
Va inoltre segnalato che spesso né il carcere né la rieducazione servono a questa tipologia specifica di aggressori (purtroppo). Una volta che un uomo cresce ritenendo di essere detentore di un determinato tipo di potere, sarà difficile che dei percorsi psicologici di vario tipo possano davvero fargli cambiare le proprie (radicate) convinzioni personali. Gli aggressori spesso si sentono nel giusto: le vittime li fanno soffrire e loro invece di lavorare sui propri sentimenti reagiscono su di loro, quasi sempre con premeditazione (un esempio su tutti, questo). Se questi uomini non lavorano sulle proprie emozioni prima di arrivare ad uccidere un altro essere umano, davvero siamo convinti che dopo lo faranno? E se anche lo facessero, siamo così sicuri che i risultati saranno reali e duraturi? Si fatica a trovare dati online sul tasso di recidiva: il sito della polizia penitenziaria riporta come, nel caso specifico degli aggressori sessuali (ad esempio), questa sia superiore al 17 % nel giro di quattro anni per arrivare al 30% nell’arco di 10 anni. È un dato significativo, perché nel quadro dei crimini legati alla violenza maschile contro le donne l’aggressione sessuale e lo stupro sono i crimini per antonomasia: è il desiderio di sopraffare la vittima a portare al crimine, non il desiderio sessuale (che si può controllare in svariati modi, a prescindere da come si comporti una donna).
Stiamo pur sempre considerando il miglior scenario possibile: una donna denuncia, l’uomo è colpevole e viene condannato, e segue dei percorsi di riabilitazione.
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Fonte: Unimondo
Autore: Novella Benedetti
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Articolo tratto interamente da Unimondo.org
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