martedì 31 maggio 2022

La rotta balcanica dimenticata



Articolo da Progetto Melting Pot Europa

Il sette e l’otto maggio, presso il Centro Ernesto Balducci di Zugliano, si è discusso dei campi per migranti presenti nella regione balcanica e in Grecia. È stato possibile grazie a numerosə attivistə, avvocatə, studiosə ed altrə, chiamatə a raccolta dalla rete di RiVolti ai Balcani. Lo abbiamo fatto in un luogo di frontiera – una di quelle aree in cui è possibile assaporare le contraddizioni del limite, della vicinanza alla diversità – e in uno spazio di per sé ibrido: casa di accoglienza per stranieri, luogo di promozione culturale, centro convegni. Un microcosmo che accoglie le suggestioni eterogenee del territorio e le trasforma in qualcosa da cui prendere esempio.

La produzione dell’eccezione

Tendoni, containers, sovraffollamento, assenza di servizi, isolamento: queste sono solo alcune delle caratteristiche tipiche dei campi presenti nella regione balcanica e in Grecia. Essi sono largamente finanziati da istituzioni – quali l’UE o UNHCR – che utilizzano discorsivamente i diritti umani come uno dei fondamenti della loro esistenza, aprendo una contraddizione che risulta tale solo se non si prende in considerazione la logica sottostante all’esistenza stessa del campo. Le condizioni strutturali e comuni dei diversi campi presenti nella regione sarebbero infatti, innanzitutto, la manifestazione concreta di una specifica logica legata al flusso migratorio, fondata sull’idea di una mobilità eccezionale. Un’eccezionalità legata, per lo meno nella narrativa pubblica, alla quantità di persone coinvolte, alle motivazioni che spingono tali soggettività a muoversi, alle condizioni contingenti di un dato luogo o momento storico. E se da un lato è innegabile che specifici eventi abbiamo portato alla crescita esponenziale del flusso migratorio – primo tra i quali lo scoppio del conflitto siriano nel 2011 –, dall’altro la migrazione, in quanto mobilità, è un atto che racconta dell’uomo da sempre. Ma allora perché ostinarsi a incorniciarlo nei termini dell’eccezione, dell’emergenza? E soprattutto, quali sono le conseguenze dirette e materiali di tale concettualizzazione?

Il campo tipico che si trova lungo la Rotta Balcanica e non solo sembra proprio essere espressione di questo tipo di logica. Esso diventa la soluzione a un fenomeno emergenziale e preoccupante, una mobilità per la quale è necessario difendere il territorio verso cui tende; un flusso di corpi assimilati da caratteristiche razziali – in primis il colore della pelle – che formano una massa al suo interno indistinta ma contemporaneamente ben riconoscibile dal resto della popolazione. Di conseguenza, una somma di corpi che vanno controllati, identificati, a cui è necessario dare un ordine preciso e per tuttə uguale, a prescindere dalla storia personale, dalle condizioni presenti, dalle necessità soggettive. Il campo risulta essere allora la soluzione migliore per poter attuare tutte queste pratiche: un luogo di raccoglimento e confinamento, di definizione, dove è possibile esercitare controllo, analisi, categorizzazione – guidati dal discorso securitario così caro ai territori europei. Un campo dunque che discerne e che, come afferma Martina Tazzioli nel suo intervento, «confina per proteggere».

Non solo idee

Quest’ottica emergenziale sta dunque alla base della possibilità stessa di pensare il campo come l’unica soluzione davvero possibile, anche laddove si potrebbe attuare un sistema di accoglienza diffusa; allo stesso tempo, tale idea non si limita a produrre i luoghi di confinamento, ma agisce anche nella loro struttura ed organizzazione specifiche. La possibilità di intendere il campo come un luogo temporaneo, infatti, – laddove l’emergenza è costitutivamente provvisoria – impone, ad esempio, l’implementazione di materiali adibiti a tale uso, che vanno dunque a creare uno spazio in cui la vita delle soggettività che lo abitano è necessariamente ridotta alla sopravvivenza – proprio per la mancanza di tutti quei servizi, come l’istruzione o la possibilità di praticare la propria fede in mancanza di spazi adatti, che vengono ritenuti necessari per affermarci e definirci come esseri umani. Nonostante l’agency delle persone – della quale è sempre bene ricordarsi per non scivolare in uno sguardo passivizzante e vittimizzante –, il campo è quel luogo che, alla fine, deruba i soggetti del loro tempo di vita. I campi non sono luoghi di per sé privi di relazioni, di attività, ma piuttosto luoghi in cui a tali azioni è privato il diritto di riconoscimento e di affermazione – ed è in questa negazione del diritto che risiede l’atto del furto: del tempo presente e del sé, a cui viene imposta una sospensione.

(Ma la consapevolezza collettiva della deumanizzazione che attuiamo sulle persone in movimento non può che ritardare, essendo vivo il discorso dell’emergenza e divenuta normale la riduzione dell’altro a una vita d’eccezione.)

L’emergenza sanitaria e l’asilo come detenzione

Se tali condizioni di vita possono essere legate in primis alla logica dell’eccezione, gli interventi del convegno hanno messo in evidenza come determinate pratiche emergenziali si siano aggravate durante il periodo pandemico. Le soluzioni alla diffusione del virus si sono tradotte in un generale aumento della privazione di libertà personale dei soggetti all’interno dei campi. Una soluzione che, seppur sia stata molto vicina anche a noi, nei campi è stata protratta nel tempo e, in diversi casi, si è trasformata in prassi quotidiana. È il caso ad esempio della Grecia, dove a Corinto l’impossibilità per le persone di uscire liberamente è tutt’ora in vigore, a causa di un’estensione giuridica delle misure adottate durante il primo lockdown.

In questi casi si rafforza quel nesso già presente – paradossale se analizzato con uno sguardo critico, inevitabile se accompagnato dal discorso dell’emergenza – tra detenzione e asilo, un nesso che ha come conseguenza diretta la necessità di militarizzazione costante, sia nel luogo fisico del campo, sia negli spazi altri, di frontiera, di transito, dove è possibile intercettare coloro che sono destinati ad essere confinati. Questa necessità di militarizzazione trova una sua prima soluzione nell’agenzia di Frontex, adibita specificamente al controllo delle frontiere esterne europee. Anche in questo caso, come ricorda Jane Kilpatrick di Statewatch, all’esistenza stessa dell’agenzia sottostà l’idea della migrazione come minaccia. I dati che Frontex raccoglie, soprattutto quelli biometrici, diventano la prova oggettiva di quel pericolo da cui è necessario difendersi. La ricercatrice parla di «dataficazione del controllo delle frontiere», un processo di raccolta di dati quantitativi utilizzati tuttavia in modo decontestuale, e adibiti principalmente a giustificare l’aumento dei controlli e delle spese ad essi connesse, in un quadro nel quale il ruolo Frontex risulta indispensabile. Da una questione di tipo tecnico, la raccolta dei dati e l’analisi dei rischi muta, dunque, in atto politico, funzionale al mantenimento della presenza attiva dell’agenzia nei vari territori in cui opera. Ma le conseguenze sulle vite delle persone in movimento sono di tutt’altra natura: nel corso degli anni diversə studiosə, come ad esempio De Genova, hanno mostrato come l’aumento della securitizzazione abbia spinto le persone su rotte sempre più precarie e rischiose, spesso controllate da sistemi di trafficanti. Ecco, dunque, che emerge un altro paradosso: l’illegalizzazione della mobilità umana da parte delle diverse autorità coinvolte implica spesso un aumento dell’illegalità; un meccanismo che si autoalimenta e che, in ultima analisi, ripercuote i suoi effetti più nefasti sulle persone che si muovono.

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Fonte: Progetto Melting Pot Europa 

Autore: 
Lidia Tortarolo


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Articolo tratto interamente da Progetto Melting Pot Europa


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