Articolo da CRS - Centro per la Riforma dello Stato
In molti, in questi anni, hanno sottovalutato quel nauseante linguaggio bellico utilizzato da politica istituzionale, grandi media e imprese per raccontare e affrontare le varie “emergenze”. Sui giornali, in TV e sui social dominante è stata la narrazione della guerra (guerra al Covid, al terrorismo, alla criminalità, alla droga, al clandestino…). Un’ ideologia della guerra fondata sulla contrapposizione amico/nemico, con lo scopo di militarizzare la società e ingessarla in questo schema.
“Guerra alla pandemia”, “Ci vuole l’esercito!!”, “Siamo in trincea”, “Coprifuoco!!”. Due anni fa, quando è cominciata la pandemia, i mezzi d’informazione hanno usato subito similitudini e metafore belliche per parlare della pandemia da coronavirus. Il Covid-19 diventava l’invasore, medici e infermieri erano la prima linea e quello del virus era un fronte. Tutto il mondo, si leggeva, stava combattendo una guerra. Anche più di cento anni fa, per l’influenza spagnola che scoppiò alla fine della prima guerra mondiale si è usato, senza soluzione di continuità, quel linguaggio. Oggi succede il contrario: eravamo in “pace” e anziché usare parole di cura e di solidarietà hanno preferito il linguaggio della guerra. Ora la pandemia è sparita dai nostri mezzi d’informazione e non ci sono più similitudini: ci sono le bombe vere. Assuefarsi al linguaggio bellico ha un costo, perché quando la guerra vera arriva, con il suo carico di violenza, abbiamo solo parole abusate e luoghi comuni per raccontarla.
Viviamo, del resto in un Paese nel quale il “ripudio della guerra” è sancito nella Costituzione, ma abbiamo assistito, negli anni, a veri interventi militari in giro per il pianeta, definiti “missioni di pace” e contestati spesso nelle piazze. Oggi la guerra è tornata ad essere rivalutata come metafora di valore, anziché di disonore. Nei due anni di pandemia, questo paradigma ha rimodellato la realtà, portando con sé notevoli implicazioni culturali e politiche nella ridefinizione dell’immaginario collettivo, che oggi si stanno manifestando in tutta la loro potenza di fuoco all’interno del passaggio repentino dalla “guerra” al virus, al virus della guerra guerreggiata, in cui la “necessità” del coinvolgimento attraverso l’invio di armi a sostegno dell’Ucraina è diffusa ossessivamente nella narrazione pubblica e confermata nelle scelte politiche. Eliminando qualunque possibilità di analisi più complessa dello schierarsi sull’attenti con l’elmetto in testa1.
Chi manifesta per la pace con parole d’ordine del tipo “né con la Nato né con Putin, contro tutte le guerre e tutti gli imperialismi” diviene il nemico. Sono legittimate solo manifestazioni contro Putin, all’insegna del “viva noi, viva l’Occidente”. In guerra le differenze sfumano, il dissenso diventa una forma di tradimento, il Paese è chiamato a un combattimento a testa bassa contro il mondo esterno, in uno sforzo straordinario e di grande coinvolgimento emotivo.
Il linguaggio – specie il linguaggio del potere – ha la caratteristica di definire il campo informativo, cognitivo, percettivo della comunicazione. Il lessico militaresco, in particolare, crea una cornice di interpretazione rigida e gestita dall’alto. Gli annunci di nuove misure decise nella “guerra” al “nemico comune”, fatti di solito, con una certa solennità, in TV trasmettono ansia ma soprattutto rafforzano quel clima di unione, mobilitazione, subordinazione tipico di un paese belligerante, dove si ricercano l’identificazione totale con le scelte politiche e il consenso. La “guerra al virus” è stata una metafora potente, una “chiamata alle armi” dei cittadini: tutti devono sentirsi coinvolti nel “combattimento” in corso e mettere in pratica le direttive giunte dal “capo”.
Il linguaggio bellico semplifica e militarizza la comunicazione: è nella sua natura. Il capo impartisce ordini, non ha bisogno di giustificare le sue scelte e quindi riduce al minimo le spiegazioni. Dai cittadini ci si aspetta obbedienza, una rassegnata obbedienza. È il modello gerarchico-militare. La comunicazione militarizzata centellina le informazioni, arriva dall’alto e chiede d’essere accettata così com’è, eseguendo le disposizioni che contiene, impoverisce la qualità dell’informazione e non favorisce la presa di coscienza dei cittadini.
Con incredibile velocità sui mezzi d’informazione del nostro paese e nelle scelte si esalta il dovere di partecipazione attiva alla guerra, attraverso l’invio di armi all’Ucraina (dopo averne venduto per almeno un decennio anche alla Russia, in violazione della legge 185/90 oltre che della Costituzione) come unica risposta possibile, con il corollario dell’esplicita accusa di “filoputinismo” a chi provi a esercitare minimamente il pensiero critico contro questa nuova banalizzazione della ragione, con una virulenza inimmaginabile solo qualche anno fa, prima della dilagante retorica bellica degli ultimi due anni che ha colonizzato l’immaginario. In molte dichiarazioni, in molti titoli di giornale, basterebbe rimpiazzare “Putin” con “il Covid” per vedere che tra le due retoriche belliche c’è piena continuità2. Un mandato per indossare mimetica ed elmetto ed entrare di fatto in guerra, aggiungendo a un incendio altro materiale infiammabile. Parimenti, come sempre succede in questi casi, l’informazione si è trasformata in propaganda bellica, alimentando un clima di odio anche nei confronti della cultura russa tout court – dal quale è stato incredibilmente travolto perfino Dostoevskij, non al bar ma in una prestigiosa istituzione universitaria. La guerra, come massima espressione della eccezionalità e madre di tutte le emergenze, deve compattare i fronti e azzerare ogni differenza, che vada oltre quella semplicistica e duale di “amico” e “nemico”. La trincea, da condizione materiale della Grande Guerra, ne diviene il simbolo universale: “O con noi o contro di noi!”. In mezzo si trova la terra di nessuno, e chi vi si colloca è un traditore! “Credere! Obbedire! Combattere!”. E chi in classe alza la mano per fare una domanda viene messo subito “faccia al muro”: non conta cosa volevi chiedere. Semplicemente non si fanno domande. È istituita così una compagnia di disciplina diffusa, dove si cerca mediaticamente e con dispositivi di separare dalla società le soggettività che si collocano in quella terra di nessuno, fuori dalla guerra a tutti i costi.
La guerra dunque spinge verso un crescente autoritarismo, fino alla dittatura totalitaria. La propaganda col suo urlare incessante, deve zittire o rendere inudibile ogni voce di dissenso, prima ancora di doverla esplicitamente reprimere. L’anima di questo incessante megafono che condiziona le nostre vite, il suo contenuto pseudovaloriale è caratterizzato da una visione fortemente identitaria. Il “noi”, i nostri valori e la nostra storia, ci distinguono “dall’altro”, e sono implicitamente considerati superiori. L’identitarismo è sclerotico e tradizionalista, perché deve per forza guardare al passato per escludere chi non viene da esso, e al tempo stesso deve ipostatizzare la nostra cultura e i suoi valori per evitare cambiamenti e contaminazioni. Deve insomma stare nel passato e negarsi a ogni possibile futuro.
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Fonte: CRS - Centro per la Riforma dello Stato
Autore: Italo Di Sabato
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Articolo tratto interamente da CRS - Centro per la Riforma dello Stato
concordo in tutto!
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