martedì 26 novembre 2024

I campi di lavoro fascisti

 


Articolo da Novecento.org

Abstract

L’articolo intende affrontare il tema dello sfruttamento del lavoro dei prigionieri di guerra (PG) da parte del regime fascista durante la Seconda guerra mondiale. Partendo dalle norme dell’impiego dei soldati nemici, si ripercorre la topografia dei campi di concentramento di lavoro per PG allestiti in Italia. Viene approfondita l’evoluzione della normativa, che fu pianificata solo a partire dal maggio del 1941, della cessione di soldati nemici per il lavoro agli enti sia pubblici che privati. Tali      norme che ricalcavano in gran parte ciò che è previsto dalla Convenzione di Ginevra anche se non sempre furono rispettate. Fu così in particolare per i soldati greci e jugoslavi che furono mandati a lavorare nelle miniere della Sardegna. All’organizzazione dei campi per i prigionieri di guerra e in particolare a quelli di lavoro attivati nell’isola di cui il campo P.G. N. 110 di Carbonia e i suoi numerosi distaccamenti è dedicato uno specifico approfondimento.

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The article aims to address the exploitation of prisoner of war (POW) labour by the fascist regime during the Second World War. Starting with the regulations for the employment of enemy soldiers, the topography of the PG labour camps set up in Italy is traced. The evolution of the regulations, which were only planned from May 1941 onwards, of the transfer of enemy soldiers for work to both public and private entities is examined. These regulations largely followed what is provided for in the Geneva Convention even if they were not always respected. This was particularly the case for the Greek and Yugoslav soldiers who were sent to work in the mines of Sardinia. The organisation of camps for prisoners of war and in particular the labour camps set up on the island, of which P.G. camp No. 110 in Carbonia and its numerous detachments are the subject of a specific in-depth study.

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Una storia ancora poco conosciuta: i campi fascisti per il lavoro dei prigionieri di guerra

A partire dalla fine degli anni Ottanta, la storiografia italiana riscoprì l’interesse per la storia della prigionia, trasformando quello che era un “problema rimosso” in un tema di crescente rilevanza. Tuttavia, gli studi si concentrarono soprattutto sull’internamento dei soldati italiani nei campi tedeschi dopo l’armistizio del 1943, mentre rimasero scarsi i contributi che esaminavano il ruolo dell’Italia come detentrice di prigionieri.[1]

Ancora più limitati sono, a tutt’oggi, gli studi sull’impiego e sulle condizioni dei prigionieri di guerra (PG) utilizzati come forza lavoro dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale. La scarsità di fonti primarie, dovuta in parte alla tardiva e frammentaria pianificazione delle autorità italiane per un impiego sistematico della manodopera rappresentata dai prigionieri, e la sottovalutazione di questo tema da parte della storiografia straniera hanno contribuito a creare questa ulteriore lacuna. Inoltre, la ricerca si è focalizzata prevalentemente sul periodo successivo all’8 settembre 1943, con particolare attenzione alla fuga di massa dei prigionieri alleati, trascurando la fase precedente, caratterizzata dalla lunga detenzione e dall’impiego lavorativo dei prigionieri stessi. A oltre ottant’anni dall’inizio del conflitto, il tema della prigionia e del lavoro dei PG in Italia durante la guerra resta dunque lontano dall’essere pienamente esplorato, compreso e conosciuto.

Durante la Seconda guerra mondiale, l’Italia gestì circa 70 campi per PG, distribuiti in modo irregolare su tutto il territorio nazionale. Questi campi venivano spesso allestiti in strutture preesistenti, come conventi, castelli, orfanotrofi e vecchie caserme, o riattivando campi già utilizzati nella Prima Guerra Mondiale. Essi ospitavano prigionieri di varie nazionalità, tra cui inglesi, soldati del Commonwealth, greci, jugoslavi, americani e francesi.[2]

Nei primi mesi di guerra, visti anche i non numerosi PG catturati e la sottovalutazione da parte del regime della loro gestione, furono aperte poche strutture. Con l’aumento del numero di prigionieri, in particolare dopo le vittorie dell’Asse in Nord Africa, il sistema dei campi fu ampliato e, nel 1942, molti nuovi campi furono costruiti in fretta, inclusi accampamenti temporanei per far fronte all’emergenza.[3]

Anche per questa mancata pianificazione iniziale, la gestione dei PG in Italia fu complessa e caratterizzata da lentezze burocratiche e conflitti tra i diversi enti coinvolti. A livello nazionale, la gestione fu affidata a vari organismi, tra cui la Commissione interministeriale per i prigionieri di guerra, l’Ufficio Prigionieri di Guerra” dello Stato Maggiore Regio Esercito (SMRE) e la Croce Rossa Italiana (CRI). La Commissione interministeriale, istituita nell’agosto del 1940, fu uno degli organismi centrali e si occupò principalmente delle questioni legate alla reciprocità nel trattamento dei prigionieri e delle relazioni con le potenze nemiche. Anche per questo motivo, i PG britannici e americani furono trattati con maggiore attenzione rispetto a quelli di altre nazionalità.

I PG rappresentarono per ogni nazione belligerante sia una risorsa da sfruttare, sia un onere significativo. Dovevano essere trattati secondo le convenzioni internazionali, come quella di Ginevra del 1929, che imponeva il rispetto di standard minimi di accoglienza. I prigionieri nemici dovevano essere trasportati, alloggiati, nutriti, curati, sorvegliati e, in alcuni casi, impiegati in lavori, sotto il controllo di organismi internazionali che monitoravano le loro condizioni. In questo contesto, l’Italia fascista affrontò molte difficoltà, soprattutto nei rapporti con la Croce Rossa Internazionale, il Vaticano e altre potenze protettrici, considerate spesso invasive e sospettate di spionaggio.

Con il proseguire della guerra, le direttive vennero adattate per migliorare l’efficienza del sistema, anche grazie a informazioni acquisite da una missione inviata in Germania per studiare lo sfruttamento sistematico della manodopera. Nonostante le nuove norme e la razionalizzazione del processo, la gestione italiana restò macchinosa e frammentaria, con prigionieri utilizzati principalmente in agricoltura, miniere e settori strategici. L’impiego dei prigionieri nei campi di lavoro iniziò a essere pianificato in modo sistematico solo nel 1942.

L’organizzazione rimase meno efficace rispetto a quella tedesca, che aveva pianificato l’impiego dei prigionieri già prima del conflitto, evidenziando l’approccio reattivo dell’Italia, che rispose esigenze contingenti senza un piano strutturato.

In Italia, mancano ancora studi approfonditi sul coinvolgimento delle imprese pubbliche e private nell’impiego dei prigionieri di guerra e degli internati civili. Sebbene centinaia di aziende, soprattutto di grandi dimensioni, richiesero manodopera al governo, non esiste un elenco completo delle imprese coinvolte. Anche molte piccole aziende agricole utilizzarono prigionieri e internati, ma le informazioni sulle normative, sulle condizioni di lavoro e sugli effetti economici di questo impiego sono scarse.

L’impiego dei PG come forza lavoro in Italia durante la Seconda guerra mondiale prese forma nel 1941, con l’introduzione di procedure burocratiche per consentire l’assegnazione dei prigionieri a enti pubblici e privati. Tuttavia, l’attuazione fu lenta a causa della disorganizzazione iniziale, della mancanza di direttive chiare e del timore di conflitti con i sindacati fascisti. Anche per questi motivi i prigionieri alleati per diversi mesi furono occupati soprattutto per svolgere alcune mansioni all’interno dei campi. Nel luglio dello stesso anno a Carbonia fu istituito il primo campo di lavoro per estrarre il carbone dalle miniere del Sulcis, al quale seguirono altre strutture attivate su richiesta di enti pubblici e privati.[4]

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Fonte: Novecento.org


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Articolo tratto interamente da Novecento.org


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