Articolo da Cultweek
Tutto è pop, velocissimo, esagerato nel racconto della vita di Presley, re bianco del rock’n’roll nero. E il giovane, sensuale Austin Butler ancheggia, come vuole la regia, per mimare il successo del divo con le ragazze. Ma forse il film doveva puntare di più sulla figura del losco colonnello Parker (l’ottimo Tom Hanks), artefice e distruttore della fortuna di Elvis. Per proporre una storia un po’ meno già vista
Poco più che ventenne, da poco giunta a Milano e oppressa dalla mancanza di amici e di luce in una città (allora sì) sempre sotto la pioggia o nella nebbia, incontrai un’amica dei miei genitori che mi prese sotto la sua ala protettiva. La seconda volta che la vidi, in sequenza, mi trascinò prima a pranzo da Taveggia, poi da un lussuoso parrucchiere in Via Gesù, al quale intimò, fra le altre cose, di farmi persino la ceretta
all’attaccatura dei capelli per “creare spazio sulla fronte”. Il pomeriggio continuò con il portarmi in giro in taxi a fare compere di cose bellissime o buonissime, per poi finire la giornata a prendere il tè da Sant’Ambreus e con un invito nella sua bella casa di campagna per il week end. Io ero abbacinata non solo dal lusso, ma dalla perentorietà delle iniziative e dall’incrollabile certezza che tutto quello sfarzo mi avrebbe tirato fuori dalla depressione post adolescenziale. Ed è stato in effetti così, per un po’: è bastato uno strappo ben fatto sulla mia fronte per lasciare spazio a pensieri più giulivi e confortanti.
Questo episodio senza senso apparente è per dire che ci sono due modi di guardare Elvis, l’ultimo film di Baz Luhrmann: il primo sembra riprendere in mano la filosofia di quella carissima signora della mia giovinezza. Vuol dire godersi l’estetica flamboyante di Luhrmann, quella che abbiamo imparato a conoscere e ad amare con Moulin Rouge, quella delle luci e dei colori di un pop esagerato. Insomma, tutto il campionario di un amante dell’arte circense come il regista australiano, che punta sullo stupire sempre, sul far brillare tutto il più possibile, foss’anche solo per nascondere i costumi un po’ lisi e le battute un po’ trite.
Anche in Elvis, Luhrmann dichiara subito le sue intenzioni,
tutto è esagerato, tutto è rumoroso, tutto velocissimo e non c’è un
attimo per prendere fiato. Austin Butler, l’interprete
di Elvis, è in parte: giovane, vigoroso e sensuale quel che serve, ci
mette impegno e passione, e con il suo bacino segue il regista in ogni
iniziativa, anche la più impervia. Tom Hanks, provvisto di pappagorgia
come richiede il suo personaggio, il Colonnello Tom Parker, l’artefice, e
il distruttore, della fortuna di Presley, è il solito magnifico Hans,
anche se forse qui gigioneggia un filo più del solito.
E immediatamente, pensando al grigiore di questi ultimi mesi, alla tristezza del lungo inverno pandemico, dei ristretti visori che utilizziamo nelle nostre case per guardare un film, ci si vuole abbandonare a questo cinema rutilante, all’incitazione a consegnare le proprie mestizie a questo incredibile principe dell’artificio. Spesso i film colti e discreti che ci hanno accompagnato in questi mesi trascorsi in casa sono riusciti nell’illusione di farci credere che basta una televisione o lo schermo di un computer per godersi l’esperienza cinematografica. Sappiamo bene, invece, che non è così e Luhrmann con le sue mirabilie sembra essere lì per provarci il contrario. Come non essergli grati! Come non abbracciare la sua visione luminosa del mondo, dove anche nella disgrazia si canta e si balla vestiti di Prada e tubini vintage?
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Fonte: Cultweek
Autore: Francesca Filiasi
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Articolo tratto interamente da Cultweek
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