Articolo da Effimera
Qualcosa inizia a scricchiolare nella fragile pace sociale delle aziende Stellantis in Italia. Pomigliano, Melfi, Mirafiori, migliaia di operai costretti a lavorare a ritmi insostenibili, meno di un minuto ad operazione, con un caldo tale da svenire. Dopo mesi di silenzio, a Pomigliano, in Campania, sul turno centrale di venerdì scorso, gli operai hanno reagito a queste condizioni disumane di lavoro: si sono prima fermati sulla linea, per poi proclamare lo sciopero, indetto dalla Fiom, a cui hanno aderito gli operai di altri reparti, usciti dalle linee di montaggio per unirsi al corteo di protesta in fabbrica. Per giorni, gli operai avevano segnalato il surplus di fatica dovuto al caldo eccessivo; ma non c’erano state risposte, gli impianti di refrigerazione erano rimasti spenti e i ritmi non erano calati. Così si è arrivati a venerdì 27, il giorno dello sciopero, proprio nello stabilimento in cui, era stato imposto, nel 2010, il nuovo contratto voluto, guarda caso, da Marchionne, con condizioni addirittura peggiori per i dipendenti con l’introduzione dei nuovi criteri organizzativi del World Class Manifacturing. L’ideale nel fondo della Wcm, spiegava Luciano Gallino nel 2010, “è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot”.
Gli operai non sono robot, possono raccontare cosa accade sulle linee e agire. Dopo Pomigliano, il sabato sera a Melfi, in Basilicata, dopo un fermo linea per problemi tecnici, mentre il caldo era già estivo e l’aria condizionata era chiusa, i ritmi della produzione sono stati aumentati a dismisura, per raggiungere comunque la produzione di 450 auto.
A Melfi, non si è scioperato, ma un operaio ha raccontato, in un’intervista rilasciata al quotidiano della Basilicata, le condizioni di lavoro nell’impianto di san Nicola di Melfi: l’organico ridotto, i tempi accelerati, la fatica acuita dal caldo da infarto, la mancanza dei rappresentanti sindacali, la rabbia e la repressione di chi lavora, ora, per pochi giorni al mese, poi va in cassa integrazione, sopportando, almeno per il momento, l’impossibile. Negli anni passati, quando la situazione diventava insostenibile, gli operai si fermavano, per motivi di sicurezza, ed avevano anche ottenuto – in un reparto dove mancava l’aria condizionata – una pausa fisiologica di 15 minuti ogni ora; e tutto questo grazie alla presenza di operai combattivi – è proprio uno di loro a raccontarlo – divenuti ben presto inconciliabili con gli interessi aziendali e la linea concertativa assunta dai sindacati confederali.
Infatti, nonostante tutto, proprio a Melfi, nel 2004 – nell’impianto Fiat costruito sul prato verde anche per allentare la conflittualità operaia che aveva conosciuto a Torino, a Mirafiori e beneficiare dei lauti incentivi per gli investimenti nel Sud Italia- c’è stata una lotta durata 21 giorni, ricordata come la ‘’Primavera di Melfi’’. Ora una parte di quei lavoratori non c’è più, sono usciti o stanno lasciando la fabbrica con gli incentivi, altri, invece, relegati nei reparti confino, e/o lasciati in cassa integrazione, ma nonostante questo l’azione di denuncia via social, o tramite i media, continua e rompe la rappresentazione idilliaca dei miglioramenti ergonomici e del lavoro meno pesante.
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Fonte: Effimera
Autore: Elisabetta Della Corte
Licenza: Copyleft
Articolo tratto interamente da Effimera
Photo credit Generale Lee, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons
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