sabato 27 maggio 2023

La vita di Antonio Ligabue



Articolo da Filosofemme

Sul rapporto tra genio e follia si parla tanto e non solo in ambienti accademici. Se ne conversa anche in maniera leggera, con persone magari amanti di arte e/o letteratura, ma senza perdersi in approfondimenti vari, che spesso potrebbero sfociare in trip non compatibili con la socialità. In questi momenti, soprattutto, come giustamente accade chiacchierando, si semplifica e generalizza.

Un po’ tutti gli “artisti folli”, quindi, sono vittime – se così si può dire  – delle nostre semplificazioni, spesso sia in vita che dopo la morte. 


Per trovare uno di questi geni folli, non è necessario andare molto lontano, specialmente se abiti al centro o al nord. Basta addentrarsi nella nebbiosa Pianura Padana, nel reggiano, sulle rive del Po’; non bisogna nemmeno andare troppo indietro nel tempo, solo negli Anni Sessanta del secolo scorso: là troveremo Antonio Ligabue.


Il pittore nasce un po’ più lontano, però, a Zurigo, nel 1899 e ha un’infanzia problematica, segnata dalla povertà e dall’instabilità affettiva. Di cognome Costa prima e Laccabue poi, come il patrigno, viene affidato molto piccolo ad una famiglia svizzera estremamente indigente. Proprio anche per la povertà, la salute di Antonio è sempre delicata, a causa del rachitismo e della gotta da cui è affetto. Soffre, inoltre di crisi epilettiche, ha un carattere “difficile” e non è bravo nello studio. Per questo, passa da una scuola all’altra, viene continuamente preso in giro e maltrattato e, quando reagisce, viene puntualmente espulso.


Da questo momento inizia a fare una vita errabonda, in contatto con la terra e la natura; qualche volta ritorna dai genitori adottivi, ma ci litiga e se ne va.


Non riesce a farsi comandare, nemmeno dall’amata madre Elise e questo è la sua gloria, ma anche l’inizio della sua condanna: un continuo entrare e uscire da ricoveri e manicomi. Un giorno, dopo l’ennesima litigata con Elise, le si rivolta contro in maniera particolarmente violenta: lei si spaventa e lo denuncia. Verrà espulso dalla Svizzera, in cui non tornerà più e arriverà a Gualtieri, la città natale del patrigno. Da quel giorno, in Emilia, passa la vita tra istituti psichiatrici, ospizi e i campi intorno al paese. Emergerà prepotentemente, in questi aridi scenari, la sua voglia irrefrenabile di dipingere, soprattutto la natura e gli animali, la sua grande passione.

La sua indigenza, però, non gli permette di avere i pennelli e il materiale necessario, inizialmente. Nonostante ciò, si arrangia, modella le statue con la terra, con quello che trova. La voglia di comunicare con il mondo supera tutto. Lui che appena approdato a Gualtieri non sa una parola di italiano. Lui che viene continuamente preso in giro, perché brutto, perché strano. Lui, nell’arte, riesce a trovare quella via di comunicazione con il mondo che spesso gli è preclusa (1).


Se vi state chiedendo cosa può centrare un pittore “matto” come Ligabue con noi di Filosofemme, tra queste righe è possibile trovare una risposta, a dispetto delle evidenti differenze. 


Ligabue non è colto, non conosce la filosofia, nelle sue cartelle cliniche i medici che lo curano dicono, anzi, che presenta delle “tare” mentali.  Nonostante ciò è, però, una persona sola, abusata, maltrattata, presa in giro, umiliata, isolata; e anche quando raggiunge una certa fama e ricchezza, non riesce a trovare tanti affetti sinceri e continua a sentirsi profondamente a disagio in determinati ambienti. La sua vicenda e la sua grande capacità di trovare nuove vie espressive, quindi, è così simile ai nostri trascorsi di donne e filosofe. 

Ligabue realmente è affetto da un problema psichiatrico, ma nonostante ciò non può essere ridotto a tale. La sua arte è l’espressione di un artista vero. Non solo di un matto. Minimizzare i suoi studi e i suoi sforzi – seppur non canonici ed accademici –  a semplice pazzia è degradante. E noi donne e filosofe sappiamo bene cosa significhi non sentirsi riconosciute abbastanza e per davvero, sempre a doverci fingere compiaciute da un contentino e continuare a mandar giù rospi. Anche Ligabue lo deve fare, per tutta la vita: in manicomio quando gli danno i colori per dipingere solo dopo un periodo di buona condotta; per mangiare un pasto caldo, quando gli chiedono dipinti su commissione che odia fare; anche durante il periodo di maggior fama, si finge soddisfatto, nonostante venga dipinto dalla stampa come una macchietta.


Interessante, relativamente a quest’ultimo punto e al parallelismo con noi, è che una delle opinioni più famose e sminuenti appartiene proprio al noto giornalista Indro Montanelli, che guarda caso ha parlato anche di certe vicende inquietanti legate alle donne.


L’autore conosce Ligabue durante la sua prima mostra a Roma e ne scrive così: «I suoi quadri più che la critica, mi pare che debbano interessare la psicoanalisi. Ma con ciò, intendiamoci, non intendo affatto diminuirne il valore, se ne hanno. […]» (2) e, dopo averlo visto scappare a piedi nudi per l’imbarazzo dalla mostra, prosegue, con parole poco gentili: «La fortuna di Ligabue non è quella, forse, di essere un genio autentico, ma quella di essere un autentico matto in un mondo e in un’epoca di matti fasulli. […] Guardando le sue tele non si avverte […] quel sospetto di raggiro che ci danno tanti altri scarabocchi più scombiccherati dei suoi […]! Con Ligabue si capisce subito dove siamo: siamo in manicomio.»(3) 


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Fonte: Filosofemme

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Articolo tratto interamente da 
Filosofemme


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