Articolo da Filosofemme
Sul rapporto tra genio e follia si parla tanto e non solo in ambienti accademici. Se ne conversa anche in maniera leggera, con persone magari amanti di arte e/o letteratura, ma senza perdersi in approfondimenti vari, che spesso potrebbero sfociare in trip non compatibili con la socialità. In questi momenti, soprattutto, come giustamente accade chiacchierando, si semplifica e generalizza.
Un po’ tutti gli “artisti folli”, quindi, sono vittime – se così si può dire – delle nostre semplificazioni, spesso sia in vita che dopo la morte.
Per trovare uno di questi geni folli,
non è necessario andare molto lontano, specialmente se abiti al centro o
al nord. Basta addentrarsi nella nebbiosa Pianura Padana, nel reggiano,
sulle rive del Po’; non bisogna nemmeno andare troppo indietro nel
tempo, solo negli Anni Sessanta del secolo scorso: là troveremo Antonio
Ligabue.
Il pittore nasce un po’ più lontano, però, a Zurigo, nel 1899 e
ha un’infanzia problematica, segnata dalla povertà e dall’instabilità
affettiva. Di cognome Costa prima e Laccabue poi, come il patrigno,
viene affidato molto piccolo ad una famiglia svizzera estremamente
indigente. Proprio anche per la povertà, la salute di Antonio è sempre delicata, a causa del rachitismo e della gotta da cui è affetto.
Soffre, inoltre di crisi epilettiche, ha un carattere “difficile” e non
è bravo nello studio. Per questo, passa da una scuola all’altra, viene
continuamente preso in giro e maltrattato e, quando reagisce, viene
puntualmente espulso.
Da questo momento inizia a fare una
vita errabonda, in contatto con la terra e la natura; qualche volta
ritorna dai genitori adottivi, ma ci litiga e se ne va.
Non riesce a farsi comandare, nemmeno dall’amata madre Elise e questo è la sua gloria, ma anche l’inizio della sua condanna: un continuo entrare e uscire da ricoveri e manicomi.
Un giorno, dopo l’ennesima litigata con Elise, le si rivolta contro in
maniera particolarmente violenta: lei si spaventa e lo denuncia. Verrà
espulso dalla Svizzera, in cui non tornerà più e arriverà a Gualtieri,
la città natale del patrigno. Da quel giorno, in Emilia, passa la vita
tra istituti psichiatrici, ospizi e i campi intorno al paese. Emergerà
prepotentemente, in questi aridi scenari, la sua voglia irrefrenabile
di dipingere, soprattutto la natura e gli animali, la sua grande
passione.
La sua indigenza, però, non gli permette di avere i pennelli e il materiale necessario, inizialmente. Nonostante ciò, si arrangia, modella le statue con la terra, con quello che trova. La voglia di comunicare con il mondo supera tutto. Lui che appena approdato a Gualtieri non sa una parola di italiano. Lui che viene continuamente preso in giro, perché brutto, perché strano. Lui, nell’arte, riesce a trovare quella via di comunicazione con il mondo che spesso gli è preclusa (1).
Se vi state chiedendo cosa può centrare un pittore “matto” come Ligabue con noi di Filosofemme, tra queste righe è possibile trovare una risposta, a dispetto delle evidenti differenze.
Ligabue non è colto, non conosce la filosofia, nelle sue cartelle
cliniche i medici che lo curano dicono, anzi, che presenta delle “tare”
mentali. Nonostante ciò è, però, una persona sola, abusata,
maltrattata, presa in giro, umiliata, isolata; e anche quando
raggiunge una certa fama e ricchezza, non riesce a trovare tanti affetti
sinceri e continua a sentirsi profondamente a disagio in determinati
ambienti. La sua vicenda e la sua grande capacità di trovare
nuove vie espressive, quindi, è così simile ai nostri trascorsi di donne
e filosofe.
Ligabue realmente è affetto da un problema psichiatrico, ma nonostante ciò non può essere ridotto a tale. La sua arte è l’espressione di un artista vero. Non solo di un matto. Minimizzare i suoi studi e i suoi sforzi – seppur non canonici ed accademici – a semplice pazzia è degradante. E noi donne e filosofe sappiamo bene cosa significhi non sentirsi riconosciute abbastanza e per davvero, sempre a doverci fingere compiaciute da un contentino e continuare a mandar giù rospi. Anche Ligabue lo deve fare, per tutta la vita: in manicomio quando gli danno i colori per dipingere solo dopo un periodo di buona condotta; per mangiare un pasto caldo, quando gli chiedono dipinti su commissione che odia fare; anche durante il periodo di maggior fama, si finge soddisfatto, nonostante venga dipinto dalla stampa come una macchietta.
Interessante, relativamente a
quest’ultimo punto e al parallelismo con noi, è che una delle opinioni
più famose e sminuenti appartiene proprio al noto giornalista Indro
Montanelli, che guarda caso ha parlato anche di certe vicende
inquietanti legate alle donne.
L’autore conosce Ligabue durante la sua prima mostra a Roma e ne
scrive così: «I suoi quadri più che la critica, mi pare che debbano
interessare la psicoanalisi. Ma con ciò, intendiamoci, non intendo
affatto diminuirne il valore, se ne hanno. […]» (2) e, dopo averlo visto
scappare a piedi nudi per l’imbarazzo dalla mostra, prosegue, con
parole poco gentili: «La fortuna di Ligabue non è quella, forse,
di essere un genio autentico, ma quella di essere un autentico matto in
un mondo e in un’epoca di matti fasulli. […] Guardando le sue
tele non si avverte […] quel sospetto di raggiro che ci danno tanti
altri scarabocchi più scombiccherati dei suoi […]! Con Ligabue si
capisce subito dove siamo: siamo in manicomio.»(3)
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Fonte: Filosofemme
Autore: Gloria Albonetti
Licenza:
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Articolo tratto interamente da Filosofemme
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