sabato 13 maggio 2023

Decreto Lavoro: sempre più precari



Articolo da La Fionda

Il noto giuslavorista Pietro Ichino, celebre per i suoi sforzi di demolizione del diritto del lavoro ancora legato alle conquiste dei lavoratori negli scorsi decenni nel suo articolo su lavoce.info giudica infondati i timori che il cd. Decreto Lavoro del governo Meloni possa rafforzare la precarietà. Il nostro autore Federico Giusti invece pensa che essi siano anche troppo fondati (nota della Redazione).

Contrariamente a quanto scritto da Pietro Ichino sul portale la Voce, noi siamo convinti che il decreto lavoro del Governo Meloni rafforzi il precariato e renda un ottimo servigio alle associazioni datoriali concedendo loro il taglio del cuneo fiscale in nome di quell’abbattimento delle tasse che presto creerà ripercussioni negative sul welfare.

Si aumenta da 10mila a 15mila € la soglia del compenso annuo per il singolo lavoratore assunto per prestazione occasionale per gli «utilizzatori che operano nei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi di divertimento». In pratica si amplia del 50% la possibilità di utilizzare il lavoratore in questa tipologia contrattuale. Parliamo di realtà che potrebbero ricorrere a tempi determinati per attività stagionali o nel peggiore dei casi al vecchio interinale.

Dopo anni spesi per dimostrare come il voucher sia strumento di precarietà parrebbe superfluo ripeterci ma è ormai evidente che qualsivoglia tipologia contrattuale sia divenuta ben accetta anche quando va a sostituire contratti a tempo determinato

Il ricorso al voucher è solo la tappa finale, ma forse neanche quella ultimativa, di un lungo percorso che ha portato prima a rafforzare il tempo determinato a discapito dell’indeterminato, il part time preferito a contratti full soprattutto per le donne (e qui il divario di genere viene riconosciuto perfino dalla Banca d’Italia) e i buoni lavoro esaltati come uscita dalla disoccupazione.

Per quanto concerne i contratti a termine il decreto Lavoro interviene direttamente sull’articolo 19 del decreto legislativo del 2015 e così i contratti a termine tra i 12 e i 24 mesi saranno liberalizzati recependo nella contrattazione collettiva questa sorta di stravolgimento del decreto dignità e celando i rinnovi dietro a esigenze organizzative e altri casi pattuiti tra associazioni datoriali e sindacati rappresentativi.

Dopo il dodicesimo mese sarà sufficiente inserire qualche postilla in un contratto nazionale per reiterare il tempo determinato fino a 24 mesi, ben sappiamo come le esigenze organizzative o tecniche siano decise solo dalla parte datoriale, il sindacato viene chiamato quindi a ratificare quanto deciso in altra sede e senza mai fare i conti con la sua natura tanto passiva quanto assertiva verso le istanze produttive. Men che mai sia presente nel sindacato il beneficio del dubbio.

La obiezione di Ichino va oltre il decreto lavoro, per lui il primo contratto a tempo potrebbe essere di durata inferiore o anche superiore ai 12 mesi, perfino di 36 , un arco di tempo cosi’ grande da stravolgere la natura temporanea di un contratto individuale.

Il rischio che corriamo è di vedere recepite le norme del decreto Lavoro in fretta e furia nelle parti normative contrattuali rinviando ulteriormente l’adeguamento economico del contratto collettivo nazionale, ma questa non è del resto la preoccupazione di alcuni giuslavoristi. E con il dilatarsi dei tempi per i rinnovi dei ccnl potrebbe essere proprio la contrattazione aziendale a decidere in materia di causali del tempo determinato, una contrattazione che nelle piccole e medie aziende sovente non esiste se non per essere finalizzata alla detassazione dei premi di risultato.

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Fonte: La Fionda


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Articolo tratto interamente da 
La Fionda


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