lunedì 11 dicembre 2023

Una società omologata



Articolo da La Fionda

Abstract – In tempi di «seconda restaurazione» (A. Badiou) non sono concesse pratiche egualitarie, ma solo l’eterno presente della «gabbia d’acciaio» omologante.  L’omologazione è cosa assai diversa dall’uguaglianza, per certi versi ne rappresenta il sovvertimento. Questo accade quando non si tiene fermo il principio della differenza qualitativa della soggettività, nella sua unicità, e lo si diluisce nel mare delle diversità individuali quantitative, che si dispongono lungo l’asse verticale del “sopra” e del “sotto”. Ed allora quando per ignoranza o, più spesso, per «falsa coscienza» si continua a “battere il chiodo” delle differenze, in realtà ciò a cui si allude sono le persistenti diversità. Ma come fatto cenno, se le differenze scoloriscono in diversità, l’uguaglianza stessa, che ha bisogno delle differenze – come noi dell’aria che respiriamo -, tende a deragliare e degradare in sempre rinnovati rapporti di signoria e servitù.

In questa epoca di compiuta restaurazione, la congiuntura ci destina alla società forse più sorvegliata e “occhiuta” della storia; non fosse altro che per l’utilizzo smisurato dell’elettronica nei più remoti angoli del mondo della vita. Quello che più colpisce e inquieta gli irriducibili del pensiero critico è la funzione meramente decorativa oramai della privacy e della propria identità financo corporea. Si può leggere ad esempio nel “bugiardino” di un qualsiasi smartphone di ultima generazione, con innocente disinvoltura, che il riconoscimento dell’utente potrà avvenire mediante l’iride oculare piuttosto che con le impronte digitali o altre modalità similari, nella certezza assoluta da parte del produttore di non destare scandalo alcuno in chi legge. Anche perché tutto si fa in nome del supremo dogma della “sicurezza”. Ma cos’è che ha posto in disarmo il nostro apparato critico al punto tale che non siamo più capaci di reagire al cospetto di queste come di altre pervasive pratiche? Si risponde chiamando in causa l’abitudine; ma l’abitudine a cosa esattamente? Accettiamo oramai di buon grado la circostanza che da soggetti ci siamo trasformati non occasionalmente ma strutturalmente in cose. La nostra auto-percezione contempla il fatto che da oggetti inerti siamo destinatari di controllo e sorveglianza senza quasi più soluzione di continuità.

Per impostare correttamente i termini del problema dobbiamo ricorrere alla tanto bistrattata filosofia da tempo relegata al ruolo marginale di attrazione quasi circense all’interno delle compagnie di giro festivaliere. La sua specificità, perlomeno nelle prestazione di pensiero più elevate, è di non espungere dai sui apparati categoriali il soggetto, mantenendo così al suo interno un impulso umanistico irrinunciabile. Suddetta forma di sapere, dunque, può agevolmente fornirci la chiave per abbozzare una traccia di un discorso appena più avvertito. L’ipotesi che si intende avanzare allora per cercare di rendere ragione di questa letargia del pensiero, che pare coinvolga tutti con poche eccezioni – anche sul terreno così delicato della privacy –, è che questa smobilitazione sia in stretta correlazione con il trionfo del «pensiero unico» nella sua ascesa e trionfo a cavaliere tra vecchio e nuovo millennio. Ovvero di quel modo di pensare e soprattutto di agire all’insegna del dominio dell’economia sulla politica. Il mondo tutto, secondo questa logica, è da concepire ontologicamente come un’unica grande impresa dove vige il do ut des mercatista, sempre e comunque in una cornice di competizione permanente tra soggetti individuali o gruppi organizzati e tutti rigorosamente trasformati in mastini da combattimento. Questi gruppi, poi, possono essere settori di una stessa impresa, imprese tra loro in competizione sfrenata o anche interi Stati utilizzati come «comitati d’affari» al traino di gruppi oligarchici dominanti pronti a tutto. E ciascun attore sempre alla ricerca di nuove risorse naturali da sfruttare, mercati di smercio da acquisire, individui imprenditori da forgiare e consumatori da sollecitare, nella consueta immancabile cornice di devastazione dell’ambiente, che oscilla nella considerazione tra «fondo disponibile» (Bestand) e pattumiera globale.

Ora, ai primi squilibri che si sono da subito palesati, un pensiero critico poco accorto e dell’immediatezza, magari all’inizio anche in buona fede – come è stato ad esempio in Italia l’esordio del «pensiero debole» – ha ravvisato il problema in un eccesso di identitarismo da scrostare per arrivare finalmente ad un mondo pacificato. Il ragionamento che portava in grembo questo genere di approccio era all’ingrosso di questo tipo: il sistema economico capitalista per effetto del vorticoso sviluppo delle «forze produttive», rigorosamente neutrali e in sé a forte vocazione emancipativa, ha preparato il terreno ad un mondo dell’abbondanza che tocca a noi saper cogliere, rimuovendo le identità singole e collettive che sarebbero d’impaccio. Per esemplificare in un’immagine: il capitalismo avanzato ha predisposto un mondo foresta, inteso nel suo duplice significato di rigoglioso ma anacronisticamente concorrenziale: basterà rimuovere le piante identitarie infestanti, con le loro ingombranti radici, che il risultato non potrà che essere il più bucolico dei giardini. Qui si attribuisce la radice della contraddizione sociale non già al mercato capitalistico, a cui implicitamente si dà credito, piuttosto a quello che il mercato incontra lungo le sue traiettorie magnifiche e progressive. Non l’identitarismo, che sarebbe buona cosa sempre combattere, ma le soggettività in quanto tali vengono prese di mira.

Ecco allora concentrare ogni sforzo, all’indomani della caduta del muro di Berlino e della proclamata «fine della storia», alla promozione di una cultura finalmente cosmopolita che abbattendo la malapianta di tutte le forme identitarie, ci destinasse ad una comune umanità finalmente redenta. Al fondo c’è una credenza nello sviluppo tecnologico identificato senza residuo con le virtù del mercato, che sarebbe in grado da solo di produrre interazioni pacificate. Hayek docet.

Peccato che questo risultato sia il frutto faticoso e spesso avvelenato di un travagliatissimo processo storico di progressivo riconoscimento, del valore e della soggettività di ciascuno, di chi non è stato ancore riconosciuto, oppure non lo è più da tempo. E questo secondo cerchi concentrici spaziali sempre più ampi ed intensi per il tramite delle istituzioni capillarmente diffuse a partire dalle aule scolastiche. La condizione di possibilità, l’apriori storico che questi processi avvengano con successo è il progettare in pari tempo un superamento – che è sempre un togliere e conservare – della società tecno-capitalistica e del complesso finanziario-militare-industriale che attualmente l’amministra. La controprova della vacuità di quel pensiero critico post-modernista pienamente dispiegato – poco sopra richiamato – è rappresentata dalla circostanza che i processi materiali che sono stati alla base della globalizzazione, che nel frattempo si è andata a schiantare, si sono avvalsi esattamente di quella infrastruttura ideologica per annichilire ogni corpo intermedio di mediazione collettiva, partiti e sindacati in testa. Quello che ci siamo ritrovati è una gabbia di acciaio omologante, spacciata dal mainstream per uguaglianza, che tenta maldestramente di nascondere disuguaglianze forse mai così scandalose.

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Fonte: La Fionda


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Articolo tratto interamente da 
La Fionda


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