mercoledì 20 dicembre 2023

Un Paese precario



Articolo da Sbilanciamoci.info 

I bassi salari, la precarietà, le disuguaglianze di genere, la povertà del Sud sono stati il contesto delle manifestazioni dell’autunno. Hanno radici profonde, segnano il declino italiano e sono aggravati dalle politiche del governo.

Negli ultimi mesi il nostro paese, attraversato da crisi e declino economico, ha avuto un sussulto di protesta, con le manifestazioni sui temi del reddito, del precariato, dei bassi salari, delle discriminazioni e della violenza contro le donne. Lo sciopero generale del 17 novembre, convocato da CGIL e UIL, preceduto dalla manifestazione del 7 ottobre sulla “Via maestra” della Costituzione, e seguito dalla grandissima piazza delle donne del 25 novembre, sono stati – insieme ad altri eventi – momenti di grande partecipazione e mobilitazione della società civile, esprimono un dissenso che va tradotto in  politiche alternative che Sbilanciamoci! ha messo al centro di un dibattito importante. Lo sforzo della Campagna Sbilanciamoci! per aprire un dibattito e fare una sintesi di politica economica delle “cinque piazze” è davvero importante. Ai temi del lavoro e della società, le piazze di questi mesi hanno aggiunto le esigenza di pace, tra tutte, con la manifestazione di Assisi del 10 dicembre scorso per il cessate il fuoco in Palestina come in Ucraina. E non dimentichiamo che nei mesi scorsi gli ambientalisti e la società civile hanno continuato a chiedere di affrontare il cambiamento climatico con una transizione radicale nei processi produttivi e nei consumi, con i magri risultati ottenuti dalla COP28 delle settimane scorse.

Se restiamo sui temi economici e sociali, vediamo che le politiche del governo Meloni hanno aggravato i problemi denunciati dalle proteste di questi mesi; il governo ha messo in fila la cancellazione del reddito di cittadinanza e del decreto dignità, l’opposizione al salario minimo legale, una legge di bilancio che colpisce i più poveri. Tutte misure che aggravano i problemi di fondo del paese. Analizziamoli con un po’ di dettaglio.

  1. Salari bassi 

L’economia dopo il Covid è caratterizzata da una crescita basata sullo sfruttamento. Dopo un rimbalzo positivo del Pil, tra il 2021 e il 2022, pari a circa l’11%, che ha permesso, grazie alle politiche espansive e di sostegno alla domanda realizzate durante il Covid, di recuperare totalmente la recessione del Pil del 2020, la crescita è tornata allo “zero virgola” (0,6%-0,7% nel 2023 e nel 2024). I recenti dati diffusi da Istat, a inizio novembre 2023, sulla crescita dell’occupazione nell’ultimo trimestre sarebbero da accogliere positivamente se non avessimo avuto al contempo una crescita zero del Pil. L’economia italiana nel terzo trimestre rimane stabile dopo il calo fatto registrare nel secondo trimestre dell’anno. Anche la dinamica tendenziale risulta stabile, interrompendo una crescita che durava da dieci trimestri consecutivi. Siamo quasi in recessione tecnica se non fosse per la componente estera che rimane, come sempre, trainante. Questo paradosso è sintomo che l’occupazione è di scarsa qualità, è caratterizzata da un numero di ore basse, part-time, e non apporta aumenti di produttività. Una sorta di trappola di semi-occupazione. Invece di avere, come succede in genere nei paesi ricchi, una crescita trainata dall’innovazione, che “risparmia lavoro” e sfrutta maggiormente la tecnologia, abbiamo al contrario una strategia di crescita che sfrutta il lavoro, i bassi salari, e si fa addirittura competizione attraverso la leva della flessibilità, o meglio della precarietà. Con lavoro di bassa qualità la produttività ristagna e il Pil non cresce. Lavorare infatti non basta, bisogna farlo in maniera produttiva. Nel nostro paese, storicamente la produttività è bassa, ma oggi, la trappola che tiene i salari bassi si sta allargando, soprattutto a causa dell’inflazione, dell’assenza di rinnovi contrattuali e di un salario minimo legale. L’inflazione degli ultimi due anni, con contratti di lavoro non rinnovati e salari monetari stagnanti, ha causato una riduzione ulteriore dei salari reali, e un ampio margine di espansione da parte delle imprese, che fronteggiano un costo del lavoro più basso, ma vendono i loro beni a prezzi più alti e ottengono profitti crescenti. Questa dinamica è confermata dalle maggiori organizzazioni internazionali, quali la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale, che hanno dimostrato come nell’area euro la crescita dei profitti sia oggi la principale determinante dell’inflazione. 

Negli ultimi due anni la questione salariale in Italia è diventata particolarmente grave alla luce dell’inflazione che ha sfiorato il 12% l’anno scorso (8,7% su base annua) ed è ora intorno al 6% nel 2023, erodendo in due anni oltre il 15% del potere d’acquisto dei lavoratori a reddito fisso. Questa erosione giunge all’indomani della crisi pandemica che aveva inasprito disuguaglianze e povertà. E giunge anche dopo 30 anni in cui i salari reali medi degli italiani, tra il 1990 e il 2020, erano diminuiti del 2,9%, caso unico in Europa. Il lavoro povero è stimato al 13%, mentre le famiglie a rischio di povertà sono il 22%.

Per tutto questo, lo scorso luglio i partiti d’opposizione in Parlamento, congiuntamente (M5S, PD, AVS, Azione, ad esclusione di IV), hanno presentato una proposta di salario minimo legale a 9 euro lordi l’ora. Proposta che si inserisce nell’ambito della direttiva del 2021 dell’UE, che sostiene l’introduzione di un salario minimo anche in Italia, che esiste, per legge, in 22 paesi su 27 dell’UE. La proposta delle opposizioni, è stata appoggiata da due dei tre maggiori sindacati del paese, CGIL e UIL (senza la CISL). Da allora è nata una lunga battaglia, ancora non conclusa, che ha coinvolto istituzioni di governo e maggioranza, contrari; e piazze e partiti di opposizioni favorevoli, a cui si sono aggiunti anche molti economisti, studiosi, organizzazioni internazionali come OCSE e la Commissione UE, attraverso il Commissario al Lavoro e affari sociali (Nicholas Schmit). Le piazze della protesta di quest’autunno – e in particolare lo sciopero generale del 17 novembre e la manifestazione del 7 ottobre – hanno avuto, come rivendicazione di base, l’aumento dei salari e la necessità dell’introduzione di un salario minimo legale.

  1. Povertà 

A fianco di questo problema ci sono altri temi che esprimono un grave disagio economico e sociale. A partire dai dati diffusi dall’Istat a fine ottobre 2023 sulla povertà in forte aumento, pari a oltre 5,6 milioni di persone (cresciuta dal 9,1% dell’anno precedente al 9,7%), con oltre 2,18 milioni di famiglie (cresciute dal 7,7% all’8,3%). Questi aumenti, peraltro, non tengono ancora conto dell’abolizione del Reddito di cittadinanza, ma solo degli effetti dell’inflazione, che ha impoverito ulteriormente il lavoro. 

Dal 2019 e almeno fino al 2023, il welfare italiano si era dotato di una tutela universale di lotta contro la povertà, con l’introduzione di un reddito di ultima istanza erogato su base familiare per i nuclei che non riescano a conseguire autonomamente mezzi sufficienti alla sussistenza, ovvero il Reddito di cittadinanza (RdC) e la Pensione di cittadinanza. Con l’introduzione del RdC la spesa per il contrasto alla povertà, per la prima volta in Italia, diventa importante nel 2019, con circa 8 miliardi all’anno, ed è ulteriormente aumentata in pandemia con oltre 9 miliardi, perché al RdC si è aggiunto il reddito di emergenza. 

Con il Reddito di Cittadinanza, la “lobby dei poveri” per la prima volta è entrata nei palazzi del potere. Il Reddito di cittadinanza (DL 4 del 2019) ha spostato per la prima volta nella storia della Repubblica, 8-9 miliardi di euro l’anno dalla fiscalità generale, ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito, determinando così per la prima volta dagli anni Novanta, una riduzione della disuguaglianza e del rapporto tra i redditi del 20% più ricco e del 20% più povero nel paese.

Il RdC si è dimostrato un adeguato strumento di contrasto alla povertà, flessibile, capace anche di intercettare un numero maggiore di persone in difficoltà durante la pandemia. In effetti l’andamento del numero dei percettori è tipico di uno strumento che si espande in periodo di crisi e si ritrae quando le cose vanno meglio, come è evidente dalla figura di seguito, dove sono riportati numero di famiglie e individui percettori dal 2019 al 2022, ultimo anno di pandemia (considerata ufficialmente conclusa dall’Organizzazione mondiale della sanità il 4 maggio 2023).

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Articolo tratto interamente da Sbilanciamoci.info 


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