Articolo da Novecento.org
Abstract
Proposta didattica con le fonti per far lavorare e riflettere studenti e studentesse sul disastro del Vajont (9 ottobre 1963). Per il tema trattato, la traccia è particolarmente indicata per essere inserita nelle attività funzionali a rispondere alle esigenze dell’asse riguardante ambiente e sostenibilità della legge sull’insegnamento dell’educazione civica. La proposta didattica è stata non a caso inclusa tra i Workshop della Summer school 2021 dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, intitolata “Sviluppo sostenibile, ambiente e patrimonio nell’Educazione civica. La centralità della Storia”.
Premessa
Il 24 gennaio 2019 la Regione Veneto approvava la legge regionale n. 5 Istituzione della “Giornata in ricordo della tragedia del Vajont” e del riconoscimento “Memoria Vajont”. Pochi mesi più tardi, con la legge n. 10 dell’8 luglio, analoga iniziativa era presa anche dal Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia.[1] I due testi, molto simili nell’impianto (le divergenze più vistose sono relative agli stanziamenti economici), introducevano nei calendari civili regionali una nuova celebrazione che, a distanza di 56 anni dal disastro, rimarcava l’alto valore non solo storico ma anche culturale e sociale di uno degli eventi più tragici della storia repubblicana, e ciò non solo per le comunità colpite, ma per tutti i cittadini delle due regioni.[2]
Se indubbiamente queste leggi andavano a lenire la sofferenza e a dar voce e visibilità a quanti sopravvissero al disastro riportando alla ribalta una vicenda ancor oggi sconosciuta a molti, vale la pena sottolineare come esse parlino di “memoria del Vajont”, sottintendendo di fatto la presenza di una ricostruzione e di una rappresentazione univoca della tragedia. Nulla di più lontano dalla realtà. Ai tempi della tragedia le voci che contribuirono a costruire una memoria pubblica dei fatti furono assai diverse e spesso contrastanti e del resto ancor oggi, nell’area Longaronese, la sua trasmissione è in capo a tre soggetti (la fondazione Vajont-9 ottobre 1963,[3] il Comitato sopravvissuti del Vajont[4] e l’associazione Vajont-Il futuro della Memoria)[5] a testimoniare quanto, a distanza di quasi sessant’anni, alcuni aspetti della vicenda siano ancora divisivi.
La storia del Vajont
Troppo lungo sarebbe riproporre qui i fatti del Vajont, ci si limita dunque ad indicare alcuni passaggi chiave utili al loro inquadramento.[6] La vicenda dell’utilizzo delle acque del Vajont, torrente che scorre nell’omonima valle friulana per confluire nel Piave all’altezza del paese di Longarone, iniziò nel 1900 quando il longaronese Gustavo Protti presentò domanda per sfruttarne le acque attraverso la costruzione di una diga di 7m nel territorio di Erto e Casso, allora in provincia di Udine, al fine di produrre energia per la sua cartiera. Caduta questa ipotesi, nel 1929 l’ing. Carlo Semenza (che negli anni a venire firmerà tutti i successivi progetti) presentò a nome della Siv (Società Idroelettrica Veneta), filiazione della Sade (Società adriatica di elettricità), un nuovo piano per la realizzazione di una diga di 130m di altezza e un invaso di 33.000.000 m3 d’acqua. Senza che si arrivasse ad una conclusione della vicenda, nel 1934 la Siv fu incorporata nella Sade che nel 1937 presentò un nuovo più ambizioso progetto che prevedeva la costruzione di una diga di 190m di altezza e un bacino di 46.000.000 m3.
Va detto che la Sade era nel Triveneto un vero colosso nel campo dell’idroelettrico, destinato in quegli anni e nei decenni successivi a realizzare in provincia di Belluno numerose dighe e bacini artificiali. Nel 1940, ad esempio furono presentati due progetti per l’utilizzazione del Boite (Valle di Cadore) e del Piave (Pieve di Cadore), primo passo verso un nuovo piano complessivo che, unificando questo due sistemi a quelli del Vajont e di Pontesei (Valle di Zoldo), avrebbe dato origine a quello che sarebbe stato ribattezzato “grande Vajont”, in cui l’omonimo bacino sarebbe stato, attraverso un sistema di condotte scavate in roccia o a sfioro, il punto nodale ove far confluire tutte le acque già sfruttate dagli altri serbatoi. La forza della Sade era tale che addirittura tra luglio e settembre del 1943, nel momento più tragico vissuto dall’Italia nel corso del secondo conflitto mondiale, la Direzione generale delle acque del Ministero dei lavori pubblici espresse parere favorevole al progetto, tale era la sete di energia anche in un’epoca in cui il nostro Paese non poteva certamente definirsi industrializzato.
I lavori a Pieve di Cadore iniziarono nel 1947 senza che – e sarà una costante nel modus operandi della società – fossero neppure state rilasciate le necessarie autorizzazioni. Nel frattempo, nel 1948, veniva presentato un nuovo progetto esecutivo per l’impianto del Vajont, ove si pensava ora ad una diga di 202m di altezza con un invaso di 71.000.000 m3.
Bisogna attendere il 1952 per il decreto presidenziale che concedeva definitivamente la realizzazione delle dighe di Pieve di Cadore (di fatto già ultimata due anni prima) e di Valle di Cadore (lavori conclusi nel 1951). Per quel che riguardava il Vajont, invece, il 31 gennaio 1957 fu presentato un nuovo progetto, questa volta definitivo, di una diga di 263,50m. Senza alcuna autorizzazione (che sarebbe arrivata con decreto interministeriale solo nel 1959) furono subito iniziati gli espropri dei terreni e i lavori di costruzione della diga: il “grande Vajont” era nato. Nel frattempo, la Sade chiese al geologo austriaco L. Müller una consulenza sullo stato del monte Toc, su cui poggiava una spalla della diga e in cui si stavano verificando piccoli fenomeni franosi. Lo studioso rilevò sotto il Toc una situazione di sfascio che di fatto sconsigliava di procedere con i lavori per evitare eventi catastrofici. La Sade tuttavia decise di non rendere pubblici gli esiti della consulenza e si limitò a proibire l’utilizzo di sentieri sotto il paese di Erto, collocato sull’altro versante della valle, e sulle pendici del Toc.
Tutto ciò non lasciò indifferente la popolazione della valle. Se infatti il 1° aprile 1958 il ministro Togni nominava una commissione di collaudo (ma va notato che uno dei membri era anche consulente della Sade!), l’anno successivo nasceva il Consorzio per la difesa e la rinascita della Val Ertana che si poneva l’obiettivo di contrastare i piani della Sade: tra la popolazione infatti serpeggiava sempre più la preoccupazione per le conseguenze che tale impresa avrebbe potuto avere. Certo nessun abitante aveva competenze e dati per contrastare sul piano scientifico la Sade, tuttavia le tensioni erano molto alte e per diverse ragioni: espropri forzosi dei terreni, impossibilità di raggiungere i pascoli sfruttati fino a pochi anni prima, ansia per eventi franosi non solo locali. Ma quelle comunità restarono sostanzialmente inascoltate. Unica penna capace di dar loro voce fu quella di Tina Merlin. A quel periodo risale infatti la pubblicazione nelle pagine de L’Unità, organo del Pci, del suo articolo «La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono» che portò la questione alla ribalta nazionale ma allo stesso tempo costò alla giornalista bellunese una denuncia, perché le sue parole avrebbero turbato l’ordine pubblico: la sentenza assolutoria arrivò nel novembre del 1960.
Nel frattempo, però erano avvenuti alcuni fatti che avrebbero acuito le tensioni e le preoccupazioni. Il 22 marzo 1959, ad esempio, in Val Zoldana, nel bacino di Pontesei (inglobato nel sistema complessivo del “grande Vajont”) precipitava una frana di 3.000.000m3 causando anche una vittima. Ciò evidentemente non poteva che accrescere l’ansia degli abitanti della valle del Vajont, dove intanto nell’ottobre 1959 arrivavano la seconda visita della commissione ministeriale e la concessione di nuovi finanziamenti statali. Nel frattempo la costruzione della diga arrivava alla conclusione: erano bastati due anni perché lo sbarramento artificiale a doppia curvatura più grande del mondo fosse realtà. E immediatamente la Sade chiese l’autorizzazione a procedere ad un primo parziale invaso (erano previste tre prove). Del resto, per non perdere i contributi pubblici, era necessario concludere il collaudo entro il 1960 e poiché consenso tardava, come di consueto si procedette in sua assenza. Ma l’evento più preoccupante in quel periodo accadde senz’altro il 4 novembre 1960: verso le 12.30, su un fronte di circa 300 m, una grande frana si staccò dal monte Toc precipitando nel lago sottostante. Non ci furono vittime ma alcune abitazioni sul versante del monte furono lesionate. Prudenzialmente la Sade fece evacuare la zona, ma chiaramente questo destò paure sempre maggiori tra gli abitanti.
Gli eventi spinsero la Commissione ministeriale ad una terza visita (28 novembre 1960), in seguito alla quale il geologo dello Stato, Francesco Penta, sostenne che non vi erano sufficienti elementi per accreditare le teorie più catastrofiche di Müller. Piuttosto la Sade, incurante dei pericoli incombenti, decise di costruire una galleria di sorpasso che avrebbe dovuto fungere da by-pass nel caso in cui una frana più consistente, precipitando a valle, avesse diviso il lago in due parti. In sostanza, il problema, non era la presenza e la sicurezza delle persone, ma il salvataggio dell’opera.
Dicembre 1962: la nazionalizzazione dell’industria elettrica, di cui si parla ormai da diversi mesi, diviene realtà e con essa la costituzione dell’Enel, che dovrà rilevare tutti gli impianti italiani. A questo punto per la Sade si tratta di terminare i collaudi sul Vajont, testando il bacino alla massima capienza per vendere il manufatto al miglior prezzo possibile. Il 14 marzo 1963 lo Stato rileva l’impianto, benché la sua gestione sia demandata ai dipendenti della Sade medesima. Intanto, però, la montagna continua a cedere, con progressivi piccoli assestamenti e slittamenti verso fondo valle, ovvero verso il lago. La cosa si fa sempre più preoccupante in particolare da settembre (ad esempio, il 15 si registra uno slittamento di 22cm nella zona della frana del 1960): è chiara ormai la pericolosità dell’impianto e la direzione della diga punta disperatamente a svasare il bacino per raggiungere la quota ritenuta di sicurezza (700m slm). Ormai è però troppo tardi: l’abbassamento del livello del lago, infatti, non fa che accelerare il cedimento del terreno che ai propri piedi non trova neanche il pur limitato sostegno dell’acqua.
La sera del 9 ottobre 1963, alle 22,39, una massa franosa di 260 milioni di metri cubi precipita nel lago artificiale. In pochi minuti, un’ondata gigantesca, dopo aver causato vittime e danni ingenti negli abitati della valle del Vajont, raggiunge Longarone spazzandola via e provocando centinaia di morti cui si assommano quelle delle frazioni di Rivalta, Pirago, Villanova, Faè e Codissago: come detto, saranno registrati circa 1450 decessi nell’area del comune.[7]
Nei giorni immediatamente successivi, mentre si cercava di portare aiuto ai superstiti, le autorità giudiziarie cominciarono la raccolta di documenti e testimonianze che avrebbero potuto chiarire fatti ed eventuali responsabilità. Il lavoro fu assai arduo e si concluse solo il 28 febbraio 1968 con la sentenza istruttoria del giudice Mario Fabbri che rinviava a giudizio esponenti della Sade, dell’Enel e funzionari dello Stato. Il processo fu però incardinato a L’Aquila, ove era stato trasferito per motivi di legittima suspicione e ordine pubblico. Iniziato il 25 novembre 1968, si concluse il 17 dicembre dell’anno successivo con la condanna a sei anni dei tre principali imputati (Alberigo Biadene, direttore del Servizio costruzioni idrauliche della Sade, Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Almo Violin, ingegnere capo del Genio civile di Belluno). Mario Pancini, direttore dei lavori della diga, si era suicidato alla vigilia dell’inizio del processo. Gli altri imputati furono invece assolti. Nella sentenza i giudici esclusero la prevedibilità dell’evento, ciò che destò molte recriminazioni e l’impugnazione della sentenza. L’appello si chiuse a L’Aquila il 20 luglio 1970 con la condanna di Biadene a sei anni (3 condonati) e Francesco Sensidoni (capo Servizio Dighe e membro Commissione di collaudo) a quattro anni e sei mesi, e l’assoluzione degli altri imputati; fu però riconosciuta la responsabilità per reati di frana e inondazione e omicidi colposi e la prevedibilità dell’evento. La sentenza della Cassazione, che confermava le condanne (con leggero alleggerimento) e l’impianto della sentenza d’appello, giunse il 25 marzo 1971: mancavano 14 giorni alla prescrizione.
Il quello stesso anno presero avvio i processi civili per i risarcimenti che si protrassero per quasi trent’anni. Solo nel 2000 la vicenda poté dirsi definitivamente conclusa, con la transazione di 900 miliardi di lire pagati in parti eguali dai corresponsabili: Stato italiano e eredi della Sade, ovvero Enel e Montedison.
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Fonte: Novecento.org
Autore: Enrico Bacchetti
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Articolo tratto interamente da Novecento.org
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