venerdì 7 settembre 2018

La riforma del copyright e i suoi controversi articoli 11 e 13


Articolo da Tech Economy

Si dice che il 13 sia un numero fortunato, ma in realtà se lo chiedete a un americano, il 13 è un numero sfortunato. Anche essere in 13 a tavola porta sfortuna.

Stupidaggini, ovviamente, ma gli appassionati di numerologia e gioco del lotto oggi hanno un altro numero 13 da tenere presente. E già che ci siamo, anche un 11. Sono gli articoli più controversi di una riforma del diritto d’autore, o copyright, altrettanto controversa. Nata con le migliori intenzioni ‒ adattare il diritto d’autore alle sfide delle tecnologie della comunicazione ‒ minaccia di diventare una delle peggiori creazioni legislative del nostro continente. L’articolo 13 di questa riforma è una delle peggiori parti.

L’articolo 13, nella formulazione che si sta discutendo in questi giorni si occupa in particolare delle piattaforme di condivisione di contenuti, sovvertendo uno dei principi fondamentali dell’attività degli intermediari nei servizi della società dell’informazione, quello di nessun dovere di monitorare i contenuti trasmessi. Oltre il danno, però, la beffa, con l’introduzione di alcune eccezioni che eccezioni non sono.

No duty to monitor o censura preventiva?


Quando in sede europea si ragionava (con una certa preveggenza) su come allocare in maniera efficiente le responsabilità per chi non produceva i contenuti, ma veicolava quelli di terzi, si è correttamente deciso che imporre doveri di monitoraggio dei contenuti da parte degli intermediari non coinvolti nella produzione del contenuto era estremamente inefficiente e avrebbe creato costi aggiuntivi tali di limitare lo sviluppo di tali servizi, aggravandone costi e incertezze. Imponendo obblighi di monitoraggio e correlative responsabilità si sarebbe creata una situazione di incertezza e possibili contenziosi. Il tutto con un prevedibile effetto limitativo dello sviluppo di tali servizi (“chilling effect”).

Il corretto bilanciamento, al di qua e al di là dell’Oceano è stato dunque rinvenuto in un principio di non responsabilità se non a seguito di una conoscenza precisa e circostanziata della illegittimità del contenuto veicolato. In realtà, anche così si sono create numerose fonti di incertezza e l’esatto confine non è mai stato correttamente individuato. Ad esempio, come sapere se un contenuto violi il diritto d’autore di un altro soggetto, se in molti casi per appurarne i diritti è necessaria una lunga causa? Ma anche nei casi più chiari di uso non autorizzato, come valutare se non fosse ad esempio un “uso libero” (es. diritto di citazione)? E stiamo parlando solo di , ma la sua violazione è solo uno dei casi di illiceità, civile, penale, amministrativa (privacy, diffamazione, diffusione di segreti, apologia di reato, commercio di sostanze proibite, eccetera). Negli Stati Uniti, ma anche da noi, l’uso sconsiderato delle diffide pre-contenzioso (in USA la procedura di “notice and take down” è codificata in maniera precisa), nonché i costi e i rischi connessi con la gestione di tali attività, hanno comunque portato le più grandi piattaforme a prevenire il rischio in via volontaria introducendo filtri che individuano contenuti “illeciti”, soprattutto in violazione del copyright di major cinematografiche e discografiche, con effetti paradossali di censura preventiva e soppressione di utilizzi leciti (come il caso portato in giudizio da Lawrence Lessig dimostra).

Ma il principio rimane: non sei responsabile se non hai partecipato, non hai obblighi di filtrare anche se sai che probabilmente molti dei tuoi contenuti sono stati caricati illecitamente, ma non hai una ragionevole certezza di quali essi siano. La sentenza SABAM ha dato una chiara applicazione di tale principio. Fin’ora.

Entra la riforma, entrano le lobby


La riforma, inopinatamente, introduce un sovvertimento a tale principio. Invece di darne un’interpretazione in linea con i mutati tempi, ad esempio ridefinendo il concetto di hosting e cercando di trovare un principio che distingua quando un contenuto viene caricato da un terzo, oppure è attivamente presentato invece di altri da parte di algoritmi propri della piattaforma (me ne sono occupato in tema di “autocompletamento” e “suggerimenti di ricerca”). Disapplicando in maniera radicale il principio che il gestore della piattaforma non deve monitorare e non ha responsabilità, l’art. 13 della riforma come attualmente proposto al Parlamento Europeo afferma che le piattaforme sono responsabili quando non abbiano concluso con i titolari dei diritti accordi di licenza o, in mancanza, quando non abbiano incluso nelle loro infrastrutture sistemi efficaci di filtraggio dei contenuti.

Su queste regole ci sono evidenti impronte dell’industria della discografia. Infatti questa regola è evidentemente conformata sui contenuti musicali, in cui esistono “collecting societies” (società di gestione collettiva) con le quali è possibile concludere accordi e che forniscono database di contenuti protetti da filtrare. Ma è evidente che i contenuti non si limitano solo a quelli musicali ed eventualmente cinematografici. La dissennatezza di tale principio si verifica su un importante settore dei contenuti protetti da copyright, che almeno inizialmente venne interamente sacrificato: il software, in particolare quello libero e open source, che vivono in larga parte grazie a piattaforme di condivisione dove questioni di violazione di copyright sono assai limitate in numero ed estensione.

Inoltre, un altro punto assai controverso riguarda gli “user generated content” (UGC) in generale, principalmente testi, dove il plagio è molto più “liquido” e la titolarità diffusa. Come non pensare a uno dei fenomeni più importanti a livello mondiale di tale parte dei contenuti protetti dal diritto d’autore, Wikipedia?1

Come purtroppo troppo spesso si è verificato, l’influenza dominante delle associazioni rappresentative dell’industria discografica, pur interamente legittima, ha fatto sì che la loro tutela agisse come rullo compressore su altri diritti pur altrettanto importanti se non superiori, come la libertà di espressione e la creazione di servizi innovativi su Internet.

Si introducono eccezioni


Fortunatamente nel Parlamento Europeo le assurde conseguenze che si sarebbero prodotte sono state fatte osservare, principalmente con l’attività di Julia Reda, che aveva presentato una sua relazione su cosa non funzionava nel copyright nell’era di Google (semplificando). Però, invece di adottare un principio più ragionevole, che mettesse d’accordo le opposte esigenze dei titolari dei diritti d’autore, con i titolari di altrettanto importanti diritti, primo fra tutti quello di espressione del pensiero e poi quello di libertà di impresa, si è scelta una strada diversa, molto meno equilibrata e spostata sugli interessi di alcuni a scapito di altri.

Si è scelto infatti di creare un pericolosissimo precedente, introducendo un’eccezione a una regola ‒ no duty to monitor ‒ che pure aveva dato ottimi risultati, pur con inevitabili problemi ‒ peraltro in larga parte risolti dalla giurisprudenza e dalla prassi delle autorità amministrative ‒ per accomodare le esigenze di un settore particolare (violazione industria dei contenuti). Allorché si è fatto presente che introdurre eccezioni a tale regola, oltre ad essere pericoloso in sé, crea delle conseguenze assurde e dannose, facendo degli esempi concreti, come quello del software, come quello di Wikipedia, come quello delle iniziative di conservazione delle opere (incluse quelle orfane) ai fini di preservare l’eredità culturale, si è deciso (almeno questa sembra la direzione) di aggirare le obiezioni, ma non di cambiare il metodo. Ma questi sono ovviamente solo esempi per far vedere come la regola crea disastri perché sbagliata, e gli altri prevedibili disastri di chi non si è fatto sentire?

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Fonte: Tech Economy

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Articolo tratto interamente da Tech Economy



12 commenti:

  1. Scusa Vincenzo ma non ho capito.
    Non si può più condividere nulla allora. E se io metto il link del video di una canzone?
    Forse questi signori non hanno anora capito una osa. Non ci vogliono miliardi di leggi incomprensibili ai più e spesso soggetto piùa interpretazione personale che ad applicazione effettiva. Ne servono poche ma chiare e quelle sì che vanno fatte rispettare.

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    1. IL diritto d'autore è nato per uno scopo nobile, ma negli anni si è trasformato soltanto in una macchina per fare soldi.

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  2. Dunque: l'articolo della Tech Economy, appartenente al suo autore l'Avv. Carlo Piana è davvero completo ed esautivo! Andrebbe conservato e riletto perchè c'è da dire, che se la bravura della stesso sia indiscutibile, l'articolo denota che l'art. 11 e 13 sono un cantiere in costruzione dove non si arriva al punto! mi auguro solo che tutto questo si faccia più chiaro e soprattutto più conciliante con noi "poveri comuni mortali"! aggiungendo che, come dice lo stesso, (cit) "L’articolo 13, se deve essere come è stato proposto, deve sparire".
    Buona serata

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  3. Mi sembra una problematica così vasta che non inciderà affatto sulle nostre abitudini di vita.
    Mi preoccuperei di più di Salvini in queste ore. Il suo clonare vecchie battute di Berlusca non è soggetto a diritto d'autore?!? ;)

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  4. Sono le solite decisioni o indecisioni cervellotiche.
    Io invece non sono indeciso e ti faccio
    TANTI AUGURI DI UN FELICE COMPLEANNO!
    enrico

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  5. Caro Vincenzo i tuoi articoli li trova sempre molto interessanti.
    Oggi nonostante che sono molto occupato ho voluto passare per il saluto.
    Ciao e buon fine settimana caro amico.
    Tomaso

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  6. Bisogna leggere bene e dire no a chi ci vuole bloccare.
    Auguri a noi per questo e auguri a te Cavaliere per il tuo compleanno!

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