venerdì 21 settembre 2018

A 80 anni dalle leggi razziali: la storia di Árpád Weisz



Il 1938 è stato uno degli anni più bui della storia italiana. Anzi, diciamolo in modo meno vago e più esplicito, quell’anno ha visto materializzarsi l’evento più vergognoso, perlomeno sul versante della politica interna, da quando nel 1861 l’Italia è diventata uno stato unitario, vale a dire la cancellazione di alcuni diritti fondamentali di una parte della popolazione, responsabile agli occhi di chi governava il Paese di una cosa soltanto: essere di «razza ebraica». Così suona l’espressione che si può leggere nel testo dei provvedimenti legislativi che in quell’anno sancirono le basi di questa discriminazione legale (dalla quale, per particolari benemerenze, alcune famiglie ebraiche furono escluse, ad esempio quelle con un componente caduto in guerra o iscritto al Partito Nazionale Fascista prima del 1923).

Queste si possono considerare le tappe principali: il 5 settembre apparve il decreto legge Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola italiana, che impedì ai ragazzi ebrei la frequentazione della scuola pubblica; il 7 dello stesso mese un altro decreto, Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, sancì per questi ultimi l’impossibilità di prendere dimora in Italia e tolse la cittadinanza a quanti l’avevano ottenuta negli anni precedenti, a partire dal 1919. Il 6 ottobre la Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del Fascismo aumentò il fardello delle discriminazioni nei confronti della popolazione ebraica. Infine il 17 novembre del 1938 un decreto legge intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italianadiede una prima sistematizzazione alle disposizioni del Gran Consiglio e ai decreti legge apparsi nei mesi precedenti.

Nella prima parte dell’anno, quando le leggi vere e proprie non erano ancora state formulate, si poté assistere al progressivo insorgere di un clima ostile nei confronti degli ebrei, in gran parte fomentato dalla propaganda antisemita dei mezzi di informazione. Il documento noto come Manifesto della razza rappresenta forse il momento più significativo ed emblematico di questa lugubre temperie culturale che andava formandosi; apparso per la prima volta il 14 luglio su «Il Giornale d’Italia» venne ripreso nei giorni seguenti da altri giornali e riviste.

L’avvio di questa discriminazione razziale costituirà la premessa della devastazione della Shoahche, dopo l’8 settembre del 1943, comincerà a funestare anche il territorio italiano. Le deportazioni verso i lager nazisti furono l’atto estremo e l’esito mortale di quella barbarie antisemita a cui nel 1938 il fascismo, qui da noi, aveva dato il via.

Non è facile, anche per chi sia dotato delle migliori intenzioni, riuscire a far agire su se stessi il ricordo di eventi di tale smisurata grandezza. Come si può abbracciare una memoria di sofferenza così vasta? La sola Italia conta circa 7.000 morti nei campi di concentramento e 6.000 ebrei costretti, negli anni tra il 1938 e il 1941, a dolorosi esili forzati. La vita quotidiana di oltre 40.000 persone, caricata di angoscia e disperazione, venne stravolta quasi da un giorno all’altro. Allora dopo aver ricordato la vicenda in modo collettivo, per provare ad accostarsi a tanta sofferenza può essere indicato riversare la propria attenzione su una sola di queste vite oppresse, seguire una singola traiettoria esistenziale capace di rivelarci meglio il senso dell’intero. La storia che si è scelto di raccontare è quella di un uomo di sport, lo sport più popolare in Italia, il calcio.

Nato in Ungheria alla fine del secolo, Arpad Weisz è stato prima un buon giocatore, arrivato sino alla nazionale del proprio Paese, poi un allenatore, la cui carriera si è svolta quasi interamente in Italia. Non un allenatore fra i tanti però, bensì uno dei padri riconosciuti del calcio moderno. Del 1930 è un manuale, Il giuoco del calcio, da lui scritto assieme ad Aldo Molinari, che sarebbe ben presto divenuto un testo di riferimento in materia. Un libro che proprio quest’anno, in occasione del Giorno della Memoria, è stato ripubblicato dalle Edizioni Minerva. All’epoca uscì con un’introduzione elogiativa di Vittorio Pozzo, a sua volta destinato a diventare una leggenda del calcio italiano grazie ai due campionati del mondo vinti consecutivamente nel 1934 e nel 1938.

Weisz è un innovatore, nella tattica di gioco e nel metodo di allenamento, e la sua maestria trova conferma nei molti trionfi ottenuti. Ad oggi resta il più giovane allenatore ad aver vinto un campionato italiano, quello del 1929-30, che vide per la prima volta la serie A strutturata con un girone unico. Weisz aveva allora 34 anni e guidava l’Internazionale, squadra costretta dal fascismo a mutare il proprio nome in Ambrosiana per evitare possibili ammiccamenti alla galassia socialista. All’Inter fece esordire in prima squadra il diciassettenne Giuseppe Meazza, uno dei più forti calciatori italiani di sempre. Altri due scudetti arriveranno con il Bologna, nel 1936 e nel 1937, anno in cui vinse anche il Trofeo dell’Esposizione a Parigi, una competizione antesignana dell’odierna Champions League.

Nel 1938 Weisz (da tempo divenuto Veisz, causa l’allergia del regime a quella lettera iniziale di matrice straniera) può dunque ritenersi un uomo all’apice della sua carriera professionale, un maestro di calcio stimato, abituato a comparire sui giornali sportivi, benvoluto dai propri giocatori, con una moglie affascinante, a quanto riportano le testimonianze dell’epoca, e due bambini di 8 e 4 anni. Ma la vita della famiglia Weisz è sul punto di essere stravolta, di sprofondare nel baratro senz’altra ragione che quella di essere formata da un uomo e una donna di «razza ebraica» e da due figli che, anche se battezzati come cattolici, le leggi antisemite assimilano in tutto ai genitori: «è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica».

Razzisti convinti o meno a non pochi italiani la discriminazione fa semplicemente e cinicamente comodo, si liberano dei posti da occupare, si crea maggiore spazio per delle carriere professionali. Gli ebrei vengono accusati di essere presenti in modo sproporzionato, rispetto al loro numero complessivo, in alcuni ruoli sociali di rilievo. Ad allenare in serie A, ad esempio, sono 2 in un campionato a 16 squadre. Troppi, secondo il nuovo sentire. Il collega di Weisz, Ernö «Egri» Erbstein, è ungherese anche lui e come lui un nome di rilievo nella storia dell’Italia calcistica, sarà direttore tecnico e allenatore del Grande Torino. Più fortunato di Weisz, riuscì con i suoi famigliari ad attraversare indenne l’abisso della Shoah. Ma anche per «Egri» il destino avrà in serbo una scomparsa prematura, morirà con tutta la sua squadra nello schianto di Superga il 4 maggio 1949.

Dunque Weisz e la sua famiglia, in quel 1938, si eclissano. Il 26 ottobre è costretto a lasciare l’incarico di allenatore del Bologna; a suo figlio Roberto, il maggiore, viene impedita l’iscrizione alla terza elementare. È l’ingresso in un cono d’ombra, i giornali sportivi che tanto spazio gli avevano dedicato e con i quali aveva talvolta collaborato riservano al suo congedo una semplice riga: «Quanto a Veisz, sembra che lascerà l’Italia a fine anno», così il «Calcio illustrato», che soltanto l’anno prima l’aveva celebrato come «un’intelligenza purtroppo non comune nei nostri allenatori».


Le tracce di Arpad Weisz per molti decenni sono sembrate perdersi, nemmeno la sua morte nel genocidio ebraico poteva considerarsi un dato certo, anche se era supposta per l’assenza di notizie documentate e per il mancato rientro in Italia. Con una sola eccezione, negli anni Sessanta quando il Bologna guidato dal grande Fulvio Bernardini, che di Weisz era stato allievo, conquistò il suo ultimo titolo sulla rivista della squadra comparirono alcune notizie precise sulla sorte dell’allenatore ungherese e della sua famiglia. Null’altro. Persino Enzo Biagi, che negli anni Trenta abitava a Bologna e tifava per la squadra della città, era all’oscuro di tutto, in Novant’anni di emozioni accennò a Weisz soltanto per dire che «era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito».



Autore: 
Massimiliano Fortuna





Articolo tratto interamente da 
Centro Studi Sereno Regis


8 commenti:

  1. Caro Vincenzo, non conoscevo questo personaggio e la sua storia.
    Ciao e buon fine settimana con un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso

    RispondiElimina
  2. Molto interessante questa storia, anzi Storia. Mi sono segnato il titolo del libro e il nome di questo allenatore per qualche regalo ad hoc a mio nipote, che è un allenatore in ascesa (lo scorso anno gli ho regalato il pallone di emergency). Credo siano cose importanti.

    RispondiElimina
  3. Chissà come è finito... mamma mia, che brividi.

    RispondiElimina

I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.