giovedì 9 novembre 2023

La lezione dell’inflazione



Articolo da Il Menabò di Etica ed Economia

Francesco Saraceno mette in discussione il luogo comune secondo cui l'inflazione può e deve essere contrastata solo con la politica monetaria e sostiene che, soprattutto quando l'inflazione ha radici in squilibri dal lato dell'offerta, come è accaduto con (e dopo) il Covid e con la guerra in Ucraina, bisogna andare "oltre le banche centrali", come recita il titolo del suo ultimo libro. Ciò che occorre, in questi casi, è un insieme ben disegnato di strumenti di politica economica, tra loro coordinati. 

Dopo la crisi finanziaria globale, quella del credito sovrano e la pandemia, quest’epoca turbolenta ci ha portato in dote l’inflazione dell’ultimo biennio, un fenomeno che le generazioni nate dopo il 1970 non avevano mai sperimentato; anzi, gli anni Duemila Dieci sono stati caratterizzati da una difficile lotta delle banche centrali contro la tendenza deflazionistica dell’economia.

Un’inflazione strutturale. L’inflazione ha iniziato ad aumentare nell’estate del 2021. Dopo i lockdown si è assistito ad una ripresa robusta di consumi e investimenti mentre in molti settori l’offerta, disarticolata dalla pandemia, stentava a ripartire. A complicare le cose, la composizione settoriale della domanda è stata fortemente alterata (a oggi non è chiaro in che misura questa ricomposizione sia permanente). Alcuni settori si sono dunque trovati a sperimentare eccessi di domanda e altri eccessi di offerta. L’aumento dei prezzi dell’energia è poi stato amplificato da fattori geopolitici, in primis l’invasione dell’Ucraina.

L’episodio inflazionistico recente è un fenomeno multiforme, insomma, causato da una combinazione di trasformazioni nella struttura dell’economia, shock economici e geopolitici; è un’inflazione insidiosa, quindi, e difficile da afferrare. Forse anche per questo la discussione su come affrontarla ha girato al largo dalle cause strutturali per aderire ad un’interpretazione molto più semplice e in qualche modo rassicurante: richiamando una vecchia massima del monetarista premio Nobel Milton Friedman, commentatori ed economisti hanno affermato che l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario. Ma se l’inflazione è esclusivamente “troppa moneta a caccia di troppi pochi beni”, ne consegue che essa non può che essere affrontata dalla politica monetaria, che deve riuscire a drenare la liquidità in eccesso. Non è questa la sede per affrontare in dettaglio le ragioni e i limiti di questa narrazione (lo faccio in Oltre le banche centraliappena uscito per Luiss University Press). Qui basti dire che, coerentemente con l’interpretazione monetarista, dopo una encomiabile iniziale prudenza, le banche centrali si sono lanciate nella primavera del 2022 in una corsa alla restrizione che da noi in Europa ha portato i tassi di interesse ai massimi storici.

Il ritorno di un paradigma malconcio. La virata delle banche centrali (e di molti commentatori ed economisti) è in qualche modo sorprendente. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 ha infatti mostrato i limiti della visione, di cui l’enfasi sul carattere monetario dell’inflazione è uno degli elementi chiave, per cui i mercati sono il motore della convergenza verso l’equilibrio detto “naturale” e per cui lo strumento principale della politica economica sono le riforme strutturali volte ad eliminare gli ostacoli al funzionamento dei mercati stessi. Dopo la crisi, economisti e decisori politici hanno iniziato ad interrogarsi sulla solidità delle fondamenta teoriche del consenso. Dopo oltre trent’anni di enfasi sulla supremazia dei mercati nel garantire l’allocazione delle risorse, la crescita e l’innovazione, si è avviato un dibattito a tutto campo sulla necessità di rivalutare il ruolo della mano pubblica nel regolare il ciclo economico, nel regolamentare i mercati e nel correggerne le inefficienze. Il dibattito non risparmia nessun dogma del consenso, dalla politica industriale alla distribuzione del reddito, dalla tassazione al ruolo e alla natura delle riforme “strutturali”.

Gli ultimi tre lustri hanno insomma segnato il “Ritorno dello Stato”, in particolare delle politiche di bilancio. Questo ritorno si articola in tre fasi: all’inizio, in reazione alla crisi finanziaria, politiche di stabilizzazione keynesiane. Poi l’attenzione si sposta sulla necessità di rinnovare uno stock di capitale deteriorato dopo tre decenni di investimenti pubblici sottotono. Infine, con la pandemia emerge in modo lampante l’insufficienza di beni pubblici globali (sanità e istruzione ad esempio) per i quali non si può contare sui soli mercati. È quindi in qualche modo sorprendente la rapidità con cui questo dibattito è stato messo da parte per tornare, in Europa come negli Stati Uniti, a predicare da un lato la restrizione monetaria per combattere l’inflazione; dall’altro, la riduzione del debito pubblico che, come nel consenso precedente al 2007, è visto come un ostacolo all’operare di mercati supposti efficienti.

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Fonte: Il Menabò di Etica ed Economia


Autore: 
Francesco Saraceno

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Articolo tratto interamente da 
Il Menabò di Etica ed Economia


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