mercoledì 29 novembre 2023

Lo stress lavorativo



Articolo da Il Manifesto in rete

Chi in qualche modo si è occupato di sicurezza sul lavoro, o ha ricevuto la relativa formazione, si sarà imbattuto, specialmente se diciamo non più giovanissimo, in una elencazione dei possibili rischi lavorativi (diretti, o presenti nell’ambiente di lavoro anche se non toccanti tutti i lavoratori, cosiddetti rischi ambientali) quale quella seguente:

  • rischi fisici (es. da contatto con la corrente elettrica, rumori, temperature troppo alte o molto basse)
  • chimici (es. contatto con acidi, vapori, gas tossici)
  • biologici (virus, batteri, altri agenti morbigeni)
  • infortunistici (es. inciampare/scivolare sul pavimento, martellarsi un dito, tagliarsi con la motosega, essere investiti da un muletto)
  • da organizzazione del lavoro (ad esempio, turni, orari, modalità di svolgimento della prestazione, tempi di esecuzione e pause, rapporti con il pubblico)

Superata o meno che sia la suddetta elencazione, l’evoluzione tecnologica degli strumenti produttivi, e, parallelamente, quella organizzativa della produzione, hanno condotto ad una domanda di accrescimento qualitativo della prestazione lavorativa, cui sempre più richiede partecipazione, iniziativa, problem solving, esattezza, autodiagnosi e correzione degli errori, relazione con colleghe/i e/o clienti/utenti. Si può ben dire che aziende ed organizzazioni sempre più richiedono a chi lavora una prestazione non tanto fisica, ma sempre più psichica: se un tempo lavoratrici e lavoratori vendevano forza fisica in cambio della retribuzione, oggi sempre più vendono la loro intelligenza e le proprie capacità mentali, e le proprie capacità e competenze. Come conseguenza, l’attenzione al rischio da organizzazione del lavoro è cresciuta; peraltro, sia il D. Lgs. 626/1994, sia il vigente Testo Unico TU 81/2008, (articoli 17, 28 e 29) pongono esplicitamente in capo al datore di lavoro quello di valutare “tutti i rischi”.

Adempiere a un simile obbligo comporta valutare tutta una serie di rischi che solo in parte rientrano nella sfera di azione e responsabilità (magari non esclusiva) del datore di lavoro; si sono enucleati infatti concetti come lo stress lavoro correlato, la costrittività organizzativa, le varie figure del mobbing (verticale, orizzontale, inverso, cioè il cosiddetto bossing, cioè situazioni in cui il capo è oggetto di mobbing da parte di collaboratrici e collaboratori teoricamente subordinati, per quanto poco verosimile appaia tale possibilità), il burn out (letteralmente bruciare fino in fondo, fino ad estinguersi, traslato rovinarsi la salute) dalle professioni ad alto coinvolgimento emotivo, come assistenti sociali, sanitari, educatrici/educatori, a fronte del quotidiano spettacolo di dolore, disagi e sofferenze contro i quali il proprio lavoro non basta) .

Ma esistono rischi estranei al luogo di lavoro (e talvolta lo stesso luogo di lavoro è evanescente, si pensi allo smart working, o a fattorini, portalettere, corrieri), o comunque fuori dalla sfera di azione del datore di lavoro stesso, ed allora si passa alla nozione più ampia dei cosiddetti rischi psicosociali, che secondo alcuni si aggiungono ai precedenti, secondo altri li comprendono: a titolo meramente esemplificativo, poiché una definizione normativa non esiste (ed è un bene ….), possiamo citare il digital divide (cioè la capacità di usare strumenti informatici), le barriere linguistiche e culturali tra lavoratori di diversa origine, tutta la gig economy o economia delle piattaforme (riders, corrieri, autisti di Uber) nella quale il lavoratore non ha a che fare con altri soggetti fisici ma esclusivamente con algoritmi. E lo stesso smart working, o lavoro agile, che pure presenta l’indubbio vantaggio di eliminare il tempo impegnato per il tragitto casa lavoro e viceversa, e che permette un più elastica gestione dei tempi di vita e di lavoro, espone a rischi quali isolamento, desocializzazione, abnorme prolungamento della giornata lavorativa, venir meno del confine, temporale e fisico, quindi psicologico, tra vita lavorativa e vita privata.

Attenzione, tali rischi non hanno solo effetti nocivi dal punto di vista psichico (ad esempio ansia, depressione, insonnia, disturbi dell’appetito, dell’affettività, e via infierendo) ma anche fisico, perché aumentano le possibilità di subire gli effetti degli altri rischi chiamiamoli tradizionali, quindi di infortunarsi o contrarre una malattia professionale con danni all’integrità anche fisica e non solo psichica: è indubbio che stanchezza, frustrazione, isolamento, difficoltà cognitive, in sintesi tutto ciò che provoca malessere, fa diminuire l’attenzione, e può indurre comportamenti errati e rischiosi: e ricordo ancora (e chiedo scusa, ma il concetto non verrà mai ribadito a sufficienza) che un infortunio è SEMPRE evitabile, e che la  maggior parte degli infortuni (gli studi indicano percentuali tra il 60% e l’80%) è causata da comportamenti errati, omissivi o commissivi che siano.

Per altro verso, tale malessere incide negativamente anche su qualità e quantità della prestazione lavorativa: e le aziende, o almeno quelle che in cui la forza lavoro non è adibita a compiti meramente elementari, sono ben consapevoli che il benessere sul luogo di lavoro aumenta la produttività, riduce l’assenteismo, fidelizza e motiva chi lavora (così magari si farà sfruttare meglio, direbbe qualche malalingua, e ne sarà anche contenta/o); e il perseguimento del benessere lavorativo diventa uno degli obiettivi di una moderna gestione delle risorse umane (quanto poi ciò si riduca in chiacchiere o dichiarazioni d’intenti,  e quanto invece in interventi efficaci, è tutto da indagare). Esistono ovviamente limiti economici e fattuali, interni alle aziende ed organizzazioni, che ostacolano il perseguimento di tale benessere lavorativo: estremizzando, e solo come esempi, anche l’azienda o l’organizzazione meglio intenzionata avrà possibilità limitate di accrescere il benessere lavorativo di chi estrae minerali in una miniera, smaltisce deiezioni animali, si occupa di persone non autosufficienti e non coscienti psichicamente, o semplicemente scarica colli e riempie scaffali in un supermercato o lavora in un call center pagato a cottimo, e magari collocato in altro paese con chi lavora che deve parlare una lingua diversa dalla propria. Operano infatti quei fattori esterni cui si è accennato sopra parlando dei rischi psicosociali, ma ne esistono anche altri, benché non sempre presi in considerazione, che rimandano all’organizzazione sociale complessiva.

Uno di questi è la mobilità casa lavoro: tragitti lunghi, scarsa qualità, frequenza e magari rigidità/inappropriatezza degli orari del trasporto pubblico ove esistente, oppure necessità del mezzo privato con relativi tempi, fatica e rischi alla guida di mezzi motorizzati, connessi ai volumi di traffico e lo stato della viabilità e la disponibilità/vicinanza di parcheggi, disagi atmosferici e rischi per chi usa mezzi a due ruote, fanno sì che chi lavora può essere stanco e stressato già all’inizio della giornata lavorativa …. Certo, una flessibilità di orari, e forme di telelavoro e smart working con tutte le possibili combinazioni con il lavoro in presenza possono mitigare il problema, ma non lo risolvono.

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Fonte: Il Manifesto in rete 

Autore: 
Maurizio Mazzetti

Licenza: Creative Commons (non specificata la versione

Articolo tratto interamente da Il Manifesto in rete


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