Articolo da Novecento.org
Sappiamo quanto lo sport in generale,
compreso il calcio, abbia contribuito al successo dell’immagine del
fascismo durante gli anni ’20 e ’30, attraverso l’accorta politica
propagandistica del regime, il pieno controllo degli organi della Figc,
del Coni, delle federazioni sportive, dei principali giornali sportivi
quali la Gazzetta e il Corriere dello Sport. Gli stadi in particolare
divennero veri e propri “teatri di massa”, dove si radunavano folle
oceaniche cui poteva facilmente rivolgersi la propaganda del regime, che
si esprimeva anche attraverso gesti simbolici come l’imposizione
dell’obbligo del saluto romano prima dell’inizio delle partite. Ma lo
sport ha combattuto anche la sua Resistenza e per averne delle prove
occorre ricercare le fonti documentarie, anche attraverso la
memorialistica, in grado di sottrarre dall’oblio atleti che hanno
onorato lo sport senza rinunciare alla propria dignità di uomini, che
hanno saputo compiere scelte coraggiose, pagandone fino in fondo le
conseguenze.
Il primo episodio assai eloquente che
vede protagonista il nostro calciatore è riassunto in una immagine
fotografica. Era il 10 settembre del 1931, a Firenze si inaugurava
l’avveniristico stadio progettato dall’ingegnere Pier Luigi Nervi,
intitolato alla squadrista Giovanni Berta. In campo per una amichevole
la squadra viola, in cui militava Bruno Neri, contro il Montevarchi.
Come si può vedere nell’istantanea, riportata nei documenti proposti, Neri è l’unico tra i giocatori allineati sul campo prima del fischio d’inizio a non fare il saluto fascista. Un bel coraggio, non c’è che dire.
Come si può vedere nell’istantanea, riportata nei documenti proposti, Neri è l’unico tra i giocatori allineati sul campo prima del fischio d’inizio a non fare il saluto fascista. Un bel coraggio, non c’è che dire.
Bruno Neri era passato due anni prima,
per diecimila lire, dal Faenza (sua città natale) alla società gigliata
del conte Ridolfi, che aveva finanziato la costruzione dello stadio di
Campo di Marte, oggi Artemio Franchi. A Firenze sarebbe rimasto fino
alla stagione 1935-36, collezionando circa duecento presenze e
realizzando un solo gol. In maglia viola le sue pregevoli doti da
mediano furono apprezzate anche da Vittorio Pozzo che lo volle prima
nella nazionale B e poi lo fece esordire in quella maggiore il 25
ottobre del 1935, in uno scontro con la Svizzera, valido per la Coppa
Internazionale e vinto dagli azzurri per 4-2. Nonostante fosse un ottimo
mediano di interdizione, Nerì collezionò solo tre presenze in
nazionale. Dopo la Fiorentina vestì per una sola stagione la casacca
rossonera della Lucchese, allenata dal grande tecnico ungherese Ernest
Erbstein, con il quale vivrà in seguito due esaltanti stagioni nel
Torino, dove giocherà per complessivi tre campionati, fino al 1940, per
poi far ritorno al suo Faenza. Andò molto peggio ad Erbstein, che
all’undicesima giornata del campionato 1938/1939, quando il suo Torino
era primo in classifica davanti ai campioni d’Italia dell’Ambrosiana
(come era stata autarchicamente rinominata Internazionale), venne
convocato in questura: era il 18 dicembre 1938, e le vergognose leggi
razziali fasciste imponevano ad un cittadino straniero di origine
ebraica l’abbandono del nostro Paese. Anche le sue figlie, pur
battezzate, furono costrette a lasciare la scuola, come migliaia di
altri studenti ebrei. Due mesi più tardi stessa sorte toccherà ad un
altro grande allenatore, Árpád Weisz, che aveva guidato il Bologna alla
vittoria di due scudetti consecutivi, tra il 1935 e il 1937. Due tecnici
che avevano riportato grandi risultati calcistici e che, come nel caso
di Weisz, avevano inventato gli “schemi”, rivoluzionando il modo di
giocare in senso moderno, sparirono letteralmente senza che nessuno in
Italia sentisse la necessità di difenderli o, almeno, ricordarli. Quando
poche settimane dopo l’allontanamento di Erbstein dal Torino, Vittorio
Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale osservò che la squadra
granata avrebbe dovuto lavorare ancora molto per tornare al gioco
brillante che le aveva dato il tecnico magiaro, non fece alcun
riferimento al motivo razziale che lo aveva costretto a lasciare la
guida della squadra[1].
L’indifferenza, ancor più che l’antisemitismo, fu il sentimento
prevalente con cui la maggior parte degli italiani, purtroppo,
assistette all’applicazione delle leggi razziali.[2]
Ma torniamo al nostro calciatore
faentino. Amante dell’arte e della poesia, Bruno Neri quando non era in
campo si dedicava a promuovere incontri culturali, oppure se ne andava
con gli amici poeti per mostre e musei. Durante gli anni in riva
all’Arno frequentò lo storico caffè letterario delle Giubbe Rosse in
piazza della Repubblica dove poteva incontrare Mario Luzi, Piero
Bigongiari, Alessandro Parronchi, Eugenio Montale. Dopo l’armistizio del
1943 e mentre disputava il campionato dell’Alta Italia col Faenza, Neri
scelse la militanza antifascista arruolandosi nella Brigata Ravenna con
il nome di battaglia Berni.
Così riassume la sua adesione alla lotta partigiana lo storico Sergio Giuntini:
Tramite il cugino Virgilio Neri, aderì all’«Organizzazione Resistenza Italiana» (ORI): un movimento che, sotto la spinta precipua dell’«azionista» Raimondo Craveri, si era costuito il 15 novembre 1943. In stretta connessione con l’OSS (Office of Strategic Service) americano e il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), l’ORI si poneva il compito di raccogliere informazioni e svolgere azioni di sabotaggio a favore dei resistenti e, in questo contesto, sorse per l’appunto il Battaglione «Ravenna», la formazione partigiana di Neri. Il «Ravenna» doveva posizionarsi e agire nella zona compresa tra il campo d’azione del gruppo comandato dal leggendario – anch’egli a suo tempo calciatore del Faenza – Silvio Corbari (Tradozio-Modigliana-San Valentino) e la trentaseiesima Brigata «Bianconcini» (Vallata della Sintria e Monte Faggiola); insomma assolvere a un ruolo strategico e combattente oltremodo significativo a ridosso della Linea Gotica. Del Battaglione «Ravenna» Neri, che per nome di battaglia assunse quello di «Berni», divenne il vicecapo lasciandone il comando al più militarmente esperto Vittorio Bellenghi («Nico»), un ex ufficiale del Regio esercito nato a Faenza il 7 marzo 1916. Due compagni inseparabili, accomunati anche nel sacrificio estremo. In particolare, il «Ravenna» si segnalò nel recupero di vari aviolanci alleati. Una prima volta, il 10 giugno 1944, sul Monte Castellaccio, quindi in un’analoga operazione il 23 giugno successivo e, infine, preparandosi per un lancio previsto tra il 16 e il 20 luglio ’44 sul Monte Lavane. Giusto in vista di quest’azione, il 10 luglio 1944, all’Eremo di Gamogna in prossimità di Marradi, perderà eroicamente la vita il partigiano-calciatore.
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Fonte: Novecento.org
Autore: Simone Campanozzi
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Articolo tratto interamente da Novecento.org
veramente interessante . Non conoscevo questo calciatore e questa sua travagliata storia.
RispondiEliminaGrazie come sempre Cavaliere mio, per regalarci queste preziosità!
Un abbraccio serale
Ricambio l'abbraccio.
EliminaConosco questa storia solo da alcune settimane: una bellissima persona.
RispondiEliminaUna storia che merita tanta attenzione.
EliminaCav, incredibile ma non conoscevo questo calciatore, né ovviamente la sua storia. Conosco invece bene la storia di Árpád Weisz. Grazie mille!
RispondiEliminaEra di Faenza, dove hanno intitolato anche lo stadio.
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