giovedì 30 aprile 2020

30 aprile 1950 - Eccidio di Celano


Articolo da Wikipedia, l'enciclopedia libera

L'eccidio di Celano è un duplice omicidio avvenuto in Italia la sera del 30 aprile 1950, quando furono esplosi alcuni colpi di arma da fuoco contro un gruppo di braccianti radunati in piazza IV Novembre a Celano, in provincia dell'Aquila; oltre ai morti ci furono diversi feriti. Il crimine rimase senza colpevoli.

La fine della seconda guerra mondiale pose l'Italia davanti allo sforzo della ricostruzione e della ripresa economica. Nella Marsica la situazione dei contadini e dei braccianti era disastrosa: il latifondo del Fucino apparve abbandonato dalla famiglia Torlonia nell'arretratezza economica e sociale così come denunciò nel romanzo Fontamara lo scrittore Ignazio Silone. Le risorse agricole e finanziarie venivano infatti perlopiù sfruttate per alimentare lo zuccherificio di Avezzano e la banca di proprietà del principe Alessandro Torlonia. Organizzati dalla CGIL e dai partiti della sinistra i braccianti portarono avanti una protesta iniziata decenni prima che puntò ad ottenere l'intervento del governo rivendicando l'imponibile di manodopera. Alla fine del 1949 venne fondato il "comitato centrale per la rinascita della Marsica" che presidiò tutti i comuni del Fucino. Il giornalista antifascista Franco Caiola fu tra i fautori dell'associazionismo contadino e tra i primi a raccontare le lotte contadine attraverso le pagine del giornale anarchico Umanità Nova. Il 6 febbraio 1950 i sindacati organizzarono lo "sciopero alla rovescia": i lavoratori scesero dai centri abitati alla piana iniziando a lavorare alle opere di manutenzione delle strade e dei canali di irrigazione. Alla lotta partecipò tutto il popolo marsicano, compresi i fittavoli e gli artigiani. Anche le donne e i bambini svolsero nella particolare protesta un ruolo logistico fondamentale. La sommossa ebbe successo tanto che l'amministrazione Torlonia fu costretta ad impegnarsi a pagare 350 000 giornate di lavoro per la manutenzione dei canali e delle arterie fucensi.

L'Italia nel 1950 era ancora un paese che faticava a riprendersi dalle ferite della guerra e di vent'anni di dittatura fascista. Erano gli anni del "doppio Stato", in cui formalmente si andava verso la costituzione dello stato di diritto, ma contemporaneamente con la forza si cercava di contenere il pericolo di sommosse popolari che si andavano alimentando tra le fasce più deboli della popolazione. L'economia italiana era in ripresa anche grazie alla riconversione di molte industrie belliche e la società si incamminava verso i nuovi consumi e i nuovi costumi del boom economico che arriverà dieci anni più tardi. Tuttavia ampie sacche di arretratezza, anche sociale e culturale, si registravano nelle aree agricole del centro Italia e del meridione. In Sicilia, in Calabria, in Puglia e in diverse altre regioni d'Italia i braccianti, coordinati dai partiti della sinistra, dai sindacati e dalle organizzazioni di categoria, invadevano e occupavano le terre dei latifondisti protetti prima dal fascismo e in seguito dalla Democrazia Cristiana. La reazione del governo risultava ferma e sanguinosa: il VI governo De Gasperi, per opera del ministro degli interni Mario Scelba e degli agenti della celere, inasprì la repressione contro ogni forma di agitazione politica organizzata. Fecero scalpore prima la strage di Portella della Ginestra, in cui la reazione agraria non esitò a usare la mafia contro i contadini, e poi, dalla fine del 1949, le stragi di Melissa, Torremaggiore e Montescaglioso.

Tuttavia la repressione non fermò la protesta e le rivendicazioni contadine che spinsero il governo a mettere in cantiere la riforma agraria nazionale che, varata nel 1950 (legge n. 841 del 21 ottobre 1950 detta Legge Stralcio), portò all'istituzione dell'ente per la colonizzazione della Maremma Tosco-Laziale e del territorio del Fucino avvenuta il 28 febbraio 1951[12] a cui seguì pochi mesi dopo l'espropriazione terriera fatta in anticipo ai danni dei Torlonia che a seguito del prosciugamento del lago, avvenuto nella seconda metà del XIX secolo, diventarono proprietari per 99 anni di circa 14000 ettari sugli oltre 16000 dei terreni emersi e successivamente bonificati.

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