sabato 25 aprile 2020

La Resistenza vive nella lotta


Articolo da la Sinistra quotidiana

Buon 25 aprile! Cominciamo così, con un po’ di entusiasmo e ricordandoci che la parola “liberazione” in Italia si scrive prima di tutto come nome proprio di un evento straordinario che ha percorso la Penisola da Napoli a Roma, da Firenze a Bologna, Genova, Torino, Milano, Venezia, passando per tanti piccoli paesini che hanno ospitato le prime “repubbliche partigiane” e che sono state il preannuncio di un Paese libero dalla persecuzione fascista prima e nazi-fascista dopo, nella fase finale della Seconda guerra mondiale.

Liberazione e aprile sono sinonimi in Italia. Aprile comincia con gli scherzi sotto l’emblema di un pesce e finisce con una Festa nazionale che è il frutto di una Resistenza antifascista clandestina nei primi anni del regime instaurato da Mussolini, divenuta nuova lotta politica e militare subito dopo la caduta del fascismo in quel 25 luglio 1943 quando la monarchia e i gerarchi che avevano subodorato che, nonostante i proclami del duce, non sarebbe finita poi così bene viste le sconfitte tedesche nel Nord Africa e quella che è stata il principio della fine del terrore nazista in Europa: Stalingrado.

Stupisce sempre la capacità di adattamento del popolo italiano, o meglio dire la sua facile adesione a quel “trasformismo” che è storia del Regno d’Italia appena formatosi a fine ‘800 fino alle soglie della Grande guerra. Nelle mode linguistiche moderne e odierne, si direbbe che gli italiani sono facilmente “resilienti“. Il che non significa fregiarsi di qualche nuova forma di virtù che ci rende migliori davanti agli occhi del mondo: semmai vuol dire seguire il corso degli eventi e lasciare che altri lo modellino per noi e che chi ha visto per tempo le storture di una dittatura sia stato vilipeso nel migliore dei casi, picchiato a sangue e ucciso nel peggiore.

Confino ed esilio erano le altre alternative per chi avrebbe voluto esercitare il diritto molto liberale di critica verso il regime fascista e s’è reso conto ben presto che non vi era posto nell’Italia di Mussolini per l’opposizione, per un briciolo di dissenso, per qualunque manifestazione di stigmatizzazione tanto delle parole quanto dei fatti che la dittatura veniva facendo.

La Resistenza è durata tanto quanto il regime totalitario delle camicie nere. La Resistenza è divenuta evidente quando si è potuta manifestare al popolo italiano che in larga parte attendeva la fine del fascismo, soprattutto dopo l’emanazione, nel 1938, delle leggi razziali contro gli italiani di fede ebraica (rivendicate dal fascismo con parole che Mussolini aveva pronunciato fin dal 1919, come titolavano i principali quotidiani nazionali), controfirmate senza alcuna rimostranza da Vittorio Emanuele III. Quelle leggi furono anticipate di pochi mesi dal “Manifesto della Razza“: un preambolo assolutamente degno dell’infamia normativa seguente e conseguente.

Caduto il regime nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 sulla scia dell’Ordine del Giorno proposto dal gerarca Dino Grandi (e firmato, tra gli altri, anche da Galeazzo Ciano, conte, marito di Edda, la primogenita di Mussolini), il teatro del colpo di Stato si spostò da Palazzo Venezia a Villa Savoia dove il Re e Imperatore ebbe un colloquio molto poco cordiale col duce e ne accettò le dimissioni da capo del governo italiano.

Da quel momento, l’Italia scoprì d’un tratto d’essere non più fascista ma nuovamente monarchica e liberale. I ritratti di Badoglio e del Re vennero issati nei cortei, in tutte le piazze dove giacevano a terra i fasci littori scardinati dai palazzi, i busti di Mussolini presi a martellate e le bandiere nere del fascio bruciate. Tanto tempo era occorso all’ex-duce, quando ancora era un membro del Partito Socialista Italiano e direttore del prestigioso quotidiano “Avanti!“, per passare dalle posizioni pacifiste contro la strage di proletari mandati al fronte nella Prima guerra mondiale a quelle cosiddette “interventiste” proclamate sul nuovo quotidiano “Il Popolo d’Italia“. Ventiquattro ore al massimo.

Forse anche meno. Questo è il tempo in cui gli italiani maturano l’opposto delle precedenti convinzioni granitiche che avevano: le relegano nell’angolo di un dimenticatoio preparato a bella posta e dimenticano, non creano una coscienza dalla memoria, ma preferiscono non imparare dai loro errori e li riconvertono, di decennio in decennio, in nuovi macroscopici abbagli che hanno penalizzato e penalizzano tutt’ora le classi sociali più povere, indigenti e sfruttate.


A farsi turlupinare sono soprattutto coloro che sono privi di una adeguata difesa in termini culturali: non è una colpa, ma non è nemmeno una scusa per accampare il diritto di libertà di opinione quando si è letteralmente impossibilitati a formarsene una in base a dati che dovrebbero essere evidenze e non al sentito dire o alla propaganda dei moderni fascisti chiamati bellamente “sovranisti“.


Articolo tratto interamente da la Sinistra quotidiana 


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