Articolo da Sbilanciamoci.info
Rispetto all’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione, il Jobs Act si è rivelato fallimentare. Il tasso di disoccupazione è tornato nel 2016 a quasi il 12%, oltre due punti percentuali in più rispetto alla media europea. Non solo: il Jobs Act ha contribuito alla precarizzazione del lavoro con dell’estensione della platea di lavoratori pagati con i […]
È ormai chiaro che, rispetto all’obiettivo dichiarato (accrescere l’occupazione), il Jobs Act si è rivelato fallimentare. Il provvedimento, che ha introdotto contratti a tutele crescenti (frequentemente ed erroneamente definiti a tempo indeterminato) è stato accompagnato da ingenti sgravi contributivi a favore delle imprese per la ‘stabilizzazione’ dei contratti di lavoro. Secondo la propaganda governativa, si sarebbe fatta marcia indietro rispetto alle misure di precarizzazione del lavoro messe in atto con intensità crescente negli ultimi decenni. Nei fatti, si è trattato di un provvedimento che ha semmai reso le condizioni di lavoro ancora più precarie, sia per l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale (il contratto a tutele crescenti) che non stabilizza il rapporto di lavoro (ma rende più difficile e costoso il licenziamento al crescere dell’anzianità di servizio), sia per l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In più, contrariamente agli obiettivi dichiarati, si è accentuato il dualismo del mercato del lavoro italiano, inserendo una inedita cesura – datata 7 marzo 2015 – fra lavoratori assunti con veri contratti a tempo indeterminato e lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti.
Come da più parti previsto, si è trattato di un provvedimento del tutto inefficace, e per alcuni aspetti controproducente, per la crescita dell’occupazione. Dopo un aumento dell’occupazione ‘a tempo indeterminato’, evidentemente determinato dalla convenienza da parte delle imprese a riconvertire i contratti per avvalersi della detassazione, riducendosi i fondi pubblici per gli sgravi fiscali alle imprese, si è registrata una rapidissima inversione di tendenza: è aumentato il tasso di disoccupazione e i contratti sono diventati sempre più precari. In sostanza, si è trattato di un’operazione che ha temporaneamente “drogato” il mercato del lavoro italiano. Nulla più di questo, se non si fosse trattato di un vero e proprio spreco di risorse pubbliche per un obiettivo non raggiunto e verosimilmente non raggiungibile con gli strumenti utilizzati. Terminata questa fase, ci si ritrova in una condizione sotto molti aspetti peggiore della precedente, una triste eredità del Governo Renzi, per due ordini di ragioni.
1.Secondo le ultime rilevazioni ISTAT, il tasso di disoccupazione, in Italia, torna nel 2016 a quasi il 12%, dopo una leggera flessione nel 2015, attestandosi a oltre due punti percentuali in più rispetto alla media europea (11.9% a fronte del 9.8%). Si registra anche una significativa riduzione del numero di inattivi, fenomeno che, di norma, viene valutato positivamente come segnale di dinamismo del mercato del lavoro. Si tende, cioè, a ritenere che una maggiore partecipazione nel mercato del lavoro sia, di per sé, desiderabile.
E’ bene chiarire che è, questa, una valutazione che riflette una visione del funzionamento del mercato del lavoro interamente declinata ‘dal lato dell’offerta’: in altri termini, più forza-lavoro disponibile dovrebbe implicare maggiore occupazione. Il che non è nei fatti, né oggi in Italia né è quasi mai accaduto da quando il fenomeno è oggetto di rilevazione statistica.
La riduzione del numero di inattivi, se letta in chiave macroeconomica, può non essere affatto un segnale di vitalità del mercato del lavoro e, in più, può essere il segnale di un meccanismo niente affatto virtuoso. Ciò a ragione del fatto che la riduzione del numero di inattivi è associato a un fenomeno noto come ‘effetto del lavoratore aggiunto’: in fasi recessive e di caduta della domanda di lavoro, con conseguente riduzione dei salari reali, entrano nel mercato del lavoro altri componenti dell’unità familiare per provare a garantire all’unità familiare il livello di consumi considerato ‘normale’. Il che significa che la riduzione del numero di inattivi è innanzitutto un segnale di impoverimento dei lavoratori occupati e, al tempo stesso, di erosione dei risparmi delle famiglie (dal momento che una condizione di inattività è consentita solo attingendo a redditi non da lavoro).
Vi è poi da considerare che l’aumento del numero di individui alla ricerca di lavoro, accrescendo la concorrenza fra lavoratori, contribuisce a ridurre i salari, in una spirale perversa per la quale la domanda interna continua a contrarsi, così come la domanda di lavoro e dunque i salari e i consumi. In altri termini, l’aumento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro è l’effetto della caduta dei salari e, al tempo stesso, contribuisce a generarla.
2. Il Jobs Act ha contribuito alla precarizzazione del lavoro anche per mezzo dell’estensione della platea di lavoratori pagati con buoni lavoro (voucher), per ogni settore produttivo e committente. I buoni lavoro, già presenti nella c.d. Legge Biagi, erano stati pensati per remunerare mansioni accessorie e occasionali, spesso prestate in condizioni di illegalità. Tipicamente: lavori domestici saltuari, badanti. Occorre ricordare che il lavoro con voucher non configura un contratto di lavoro e, per questa ragione, non dà al lavoratore diritto a ferie, maternità, né, in caso di non rinnovo del rapporto, si configura un licenziamento1. Il risultato dell’estensione della platea di potenziali beneficiari è impressionante: nel corso del 2016, sono stati staccati 115 milioni di tagliandi, coinvolgendo circa 700 mila lavoratori (a fronte di 25mila nel 2008) per un importo complessivo stimato intorno agli 800 milioni di euro.
Continua la lettura su Sbilanciamoci.info
Fonte: Sbilanciamoci.info
Autore: Guglielmo Forges Davanzati
Licenza:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Italia.
Articolo tratto interamente da Sbilanciamoci.info
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Italia.
Articolo tratto interamente da Sbilanciamoci.info
Fallito sì. Che cosa infame. Decenni di lotte dei nostri padri spazzate via.
RispondiEliminaEra un fallimento annunciato , ma quel Governo doveva far credere di fare e soprattutto di fare bene e tanto, senza curarsi invece della reale efficacia dei provvedimenti posti in essere. Ed il job act non è l'unico caso purtroppo.
RispondiEliminaA presto!
Del Governo Renzi ricorderemmo positivamente la legge sui matrimoni tra persone dello stesso sesso e in misura minora gli 80€ che se pur criticati sono meglio di niente.Un po poco per uno che voleva cambiare l'Italia.
RispondiEliminaTemo che i politici di oggi sanno parlare troppo ma i fatti che danno dei risultati rimangono sempre solo promesse.
RispondiEliminaCiao e buona serata caro Vincenzo.
Tomaso