Esattamente un anno fa, nella notte tra il 5 e il 6 febbraio, la vasta regione del sud-est della Turchia e nord della Siria veniva colpita da due violente scosse di terremoto che avrebbero causato migliaia di morti, feriti e sfollati. Nei giorni e nelle settimane successive abbiamo dato copertura delle notizie dalla zona concentrandoci soprattutto su Antakya, una delle province maggiormente colpite. Una delle testimonianze che abbiamo accolto è stata quella di Cristina*, che si trovava ad Antakya per svolgere il Servizio civile universale. Costretta dalle circostanze ad abbandonare la città all’indomani dei terremoti, nei mesi successivi Cristina è tornata nella regione e nella città, ritrovando persone che non se ne sono mai andate, ed altre che hanno cominciato a tornare. Accogliamo questa sua nuova testimonianza della lenta, difficile ma nondimeno coraggiosa ripresa di Antakya a un anno dal sisma.
*il nome dell’autrice e di tutte le persone citate è stato modificato per questioni di riservatezza
Centro importante in epoca romana tanto da essere ribattezzata Fiera Corona d’Oriente; città di confine in cui convivono diversi gruppi etnici e religiosi, per cui è possibile trovare su una stessa strada una moschea, una chiesa e una sinagoga; destinazione ideale per gustare prelibatezze culinarie… Queste sono solo alcune delle immagini che fino all’anno scorso venivano tipicamente evocate in Turchia alla menzione di Antakya e che i suoi abitanti erano soliti riproporre con orgoglio. Oggi, invece, l’immagine che viene immediatamente associata alla città è quella di distruzione. Di tutto ciò per cui era famosa questa antichissima città rimane ben poco, spazzato via dai terremoti del 6 febbraio 2023.
Subito dopo quella notte lasciai Antakya. Ho avuto modo di tornarvi a maggio e vedere come, mentre la tragedia sembrava scomparsa dall’agenda mediatica, lì non lo era affatto. La città era quasi irriconoscibile. Gli edifici dall’alto valore storico culturale erano stati rasi al suolo. Le rovine, le nuvole di polvere che si sollevavano dai detriti, l’inquinamento ambientale, la mancanza di lavoro e di abitazioni sicure, insieme a diverse altre criticità, dipingevano un quadro profondamente tragico.
Oggi, nell’anniversario di quello che era stato prontamente definito come “disastro del secolo”, non stupisce che le fantasmagoriche promesse governative di ricostruire le città devastate nell’arco di un anno non siano state mantenute. Non pochi vivono, ancora, in tende o container fuori dalle proprie case danneggiate o nei campi allestiti. Così, gli enormi vuoti che continuano a espandersi con i lavori di rimozione delle macerie sembrano rappresentare il vuoto interiore di moltissimi dei sopravvissuti.
Accanto a questa forte immagine di distruzione, però, se ne impone un’altra, ugualmente potente: un’immagine di resilienza. Questa probabilmente non è conosciuta come le altre, eppure la resilienza è da sempre una caratteristica identificativa di questa città che nel corso dei secoli fu distrutta numerose volte da terremoti, guerre e saccheggi, ma che altrettante volte fu ricostruita dai suoi abitanti senza mai essere abbandonata.
Anche gli abitanti di Antakya di oggi si rifiutano di porsi come semplici vittime del destino; non intendono né abbandonare completamente la loro amata città, né lasciare il suo futuro nelle mani di un governo che in molti contestano apertamente. Si sono anzi resi protagonisti di diverse forme di riappropriazione dei suoi spazi e della sua memoria.
In nome di un dichiarato amore per Antakya i profili social di molti dei sopravvissuti si sono riempiti di video, fotografie e parole dedicate alla loro splendida città distrutta. Oltre allo spazio digitale, l’affetto si è materializzato anche sui muri, sui quali sono comparsi messaggi di nostalgia, promesse di ritorno e inviti a non dimenticare. Questo amore per la propria città è stato il motore di una “rinascita” visibile fin dall’immediato periodo post-terremoto e durante il mio soggiorno nel mese di maggio emergeva chiaramente la volontà – fisica e metaforica – degli abitanti di riportare vita e di ricostruire nel cuore della devastazione.
All’indomani dei terremoti del 6 febbraio, c’è chi non si è affatto allontanato da Antakya. Qualcuno non ha potuto per mancanza di mezzi, come i numerosi rifugiati siriani, ma c’è anche chi non lo ha fatto per scelta. Selim, 24 anni, insegnante in una scuola elementare, mi ha spiegato con un sorriso che lui e la sua famiglia non hanno mai abbandonato la zona. In un primo momento si sono riparati nella loro casa di Altınözü, distretto a sud di Antakya di cui sono originari. Quando anche quella è stata danneggiata, dal successivo terremoto del 20 febbraio, hanno vissuto in macchina e poi in tenda. Infine, a maggio sono riusciti a rientrare nella loro casa di Antakya, dopo che erano stati effettuati controlli e ristrutturazioni dell’edificio.
Nonostante questi casi, la maggior parte della popolazione inizialmente è stata sfollata in altre città e regioni. Dopo aver superato lo shock iniziale, però, già da aprile sempre più abitanti hanno cominciato a far ritorno ad Antakya: qualcuno temporaneamente, per contribuire alla ricostruzione o in vista delle elezioni di maggio, altri invece per rimanere. Nisa, 28 anni, insegnante in una scuola elementare e originaria di Adana, dove è tornata a vivere dopo il disastro, si reca spesso ad Antakya per fare volontariato con i bambini, giocando con loro e sostenendoli nell’affrontare i traumi subiti. Beka, insegnante di yoga di 35 anni, dopo aver trascorso un mese a Mersin, siccome “non poteva farcela in un’altra città”, è tornata ad Antakya per aiutare i terremotati e gli animali di strada, vivendo in una tenda fino a maggio, quando finalmente è riuscita a trovare una nuova casa nonostante l’insostenibile incremento del costo degli affitti.
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Fonte: Kaleydoskop
Autore: redazione Kaleydoskop
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Articolo tratto interamente da Kaleydoskop
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