sabato 24 febbraio 2024

Usciamo fuori dal capitalocene



Articolo da Rizomatica

Noi non difendiamo la natura, noi siamo la natura che si difende”

Youna Marette – Ecoattivista

Questa frase, pronunciata da un’attivista per l’ambiente di 17 anni nel corso di un convegno organizzato da Women 4 climate”, non è un gioco di parole né un semplice slogan. Essa indica invece l’indispensabile, radicale cambio di prospettiva con cui guardare in avanti. Essa ci rammenta come l’umanità sia parte integrante dell’ecosistema planetario che chiamiamo natura, che ci comprende e dal quale dipende la nostra stessa esistenza così come quella di tutte le altre forme di vita. E come parte della natura, una porzione sempre più cospicua dell’umanità, in particolare le nuove generazioni, reagisce in forma difensiva – autodifensiva alle devastazioni che il Capitalismo predatorio che domina il nostro tempo sta producendo. In questa svolta, in questo cambio di prospettiva, emerge in tutta la sua paradossalità il nucleo dell’ideologia liberista che vede il Capitalismo come uno stato-di-natura, una dimensione naturale (non costruita) in cui l’uomo, l’homo oeconomicus per la precisione, può muoversi con spontaneità seguendo la propria connaturata propensione all’utile individuale, senza alcuna necessità di costituire istituzioni di espressione e attuazione della volontà collettiva. In questa ottica, lo Stato stesso diviene pressoché superfluo: la sua utilità si riduce all’organizzazione della macchina repressiva (polizia, tribunali e carceri) e all’imposizione e alla gestione, per conto del grande capitale tecno-finanziario, delle continue emergenze attraverso le quali si producono rendite e profitti senza nessun beneficio per la società, anzi a suo danno, ad iniziare dalle guerre dilaganti. Questa visione “naturalistica” del Capitalismo (alla cui magistrale confutazione è dedicata l’intera opera dello storico dell’economia, sociologo e antropologo Karl Polanyi) si rovescia, attraverso il cambio di prospettiva prospettato dalla citazione, nella presa d’atto che ci troviamo a sopravvivere tra le spire soffocanti e in fine mortali del Capitalocene0.

La tesi di questo articolo, la necessità di avviare una nuova fase della storia della vita umana sulla Terra basata sulla sua reintegrazione nell’ecosistema complessivo, passa attraverso l’esigenza di costruire una dimensione politica del tutto nuova che potremmo definire come Democrazia diretta radicale e automatizzata. L’essere umano sociale e frugale, in contrapposizione all’individuo egoista e consumista, diviene il nuovo protagonista della Storia.

Nella prospettiva di radicale cambiamento del mondo che i tempi presenti ci costringono ad affrontare, in un sistema in cui la ricchezza socialmente prodotta è appropriata e tesaurizzata da un ristretto manipolo di soggetti ricchissimi che lasciano in una miseria prodotta artificialmente il resto dell’umanità e in condizioni sempre più critiche l’intera biosfera, si viene ben presto a cozzare su quella che definisco “questione del potere”. Una delle attuali sfide per il cambiamento, insieme a quella di pensare, sperimentare, mettere in atto forme di autodeterminazione collettiva nuove e all’altezza delle necessità, sta proprio nella capacità di individuare e attaccare eventuali punti critici dell’attuale sistema. Il venir meno della dimensione politica intesa come spazio pubblico e luogo del conflitto, del dibattito e della mediazione prodotto dal vigente regime di potere, che potremmo definire, come vedremo più avanti, “governamentalità algoritmica”1, mostra l’attuale assetto di dominio come inscalfibile, ineludibile e ineluttabile. Le sue barriere, i suoi muri difensivi si dematerializzano per dislocarsi già all’interno del soggetto, nella sua psiche; la dimensione molecolare dei processi algoritmici che reggono il mondo spunta e neutralizza all’origine pressoché ogni capacità critica e sovversiva di un potenziale nuovo soggetto collettivo: in questo stato di cose, è lecito chiedersi se abbiamo ormai varcato una soglia di non-ritorno. Domanda alla quale, guardando alla pressoché totale paralisi, teorica e pratica, in cui si trovano i movimenti sociali e politici oggi, viene da dare, con sgomento, una risposta affermativa.

LA VELLEITARIETÀ DELL’UTOPIA

Con il presente contributo si intende proseguire la riflessione programmaticamente orientata allo sviluppo di una “teoria del cambiamento possibile e necessario” cui si è dato inizio con l’articolo “Tecnopolitica per il comune – Red Stack vs. Automa capitalistico”, comparso nell’ultimo numero di Rizomatica. La tesi fondamentale che vi si sosteneva era che, per poter uscire dalle spire ipnotizzanti e paralizzanti della “governamentalità algoritmica”, è necessario immaginare, teorizzare, sperimentare un modo alternativo di utilizzo dell’infrastruttura globale rappresentata dalla rete Internet. È evidente come una simile proposta di azione abbia una natura fortemente utopica e come essa possa facilmente essere additata come velleitaria. Ma ogni utopia, rappresentando non una meta da raggiungere ma una mira verso cui direzionarsi, non può che essere velleitaria, spingendosi per forza di cose oltre i limiti dell’attuale possibile.

In “Tecnopolitica per il comune” si sosteneva come la colonizzazione del web ad opera delle piattaforme digitali proprietarie, siano esse social network veri e propri quanto piuttosto siti di vendita, di commercializzazione, di scambio e quant’altro, abbia costituito un elemento fondamentale nel processo di privatizzazione e messa a profitto della più importante infrastruttura tecnica e cognitiva del nostro tempo, minandone alla base la potenziale natura di spazio pubblico e di strumento di emancipazione. Le piattaforme digitali sono private e funzionano ed agiscono secondo la logica propria del capitale: massimizzare i profitti ed accumulare il capitale. Attribuire il valore di “spazio pubblico” a questi contesti virtuali/reali, come sembrano fare, forse più in passato che oggi, molti utenti “politicamente attivi” dei social network nel loro più o meno intenso attivismo digitale, non solo è un errore di valutazione ma porta ad una condotta inutile e controproducente. I social proprietari sono pensati e progettati per favorire la produzione gratuita e la messa on-line di contenuti da parte degli utenti, che diventano così dei prosumers. I contenuti si moltiplicano con un “effetto trascinamento”: tanto più numerosi sono i contenuti disponibili su di una determinata piattaforma, tanto più numerosi saranno i nuovi contributi: in altre parole, più e grande una piattaforma, quanti più iscritti può vantare, tanto più essa diventa attrattiva nei confronti dei nuovi utenti che intendano farne uso per diffondere il proprio messaggio, di qualsiasi natura esso sia. Si tratta di processi assimilabili a quelli di monopolizzazione industriale, economica e finanziaria. Come “denaro produce denaro”, così “utenti producono utenti” e contenuti altri contenuti. Se intendo dare massima visibilità ad un contenuto video e/o audio che voglio far conoscere, sarò praticamente costretto a pubblicarlo su YouTube; se usassi invece la piattaforma alternativa, libera e non proprietaria PeerTube, potrei raggiungere solo le poche migliaia di utenti che vi sono iscritte.

Se da un lato è necessario evidenziare il grande protagonismo del settore privato nell’accaparrarsi spazio virtuale sulla rete (la grande deriva privatistica che ha investito, così come l’economia reale e gli asset economici tradizionali, il settore digitale ed il web a partire dai primi anni Duemila), è altrettanto doveroso sottolineare la totale assenza degli Stati e dei soggetti pubblici in generale nell’intraprendere iniziative di interesse pubblico nel campo informatico, a dimostrazione che non saranno certo gli apparati di Stato ad arrestare la vorticosa deriva privatistica e monopolistica in corso. Non solo funzioni fondamentali, di evidente “pubblica utilità”, come per esempio la conoscenza della rete stradale o delle condizioni del traffico in tempo reale, non sono fornite dai rispettivi governi, anche locali, bensì proficuamente appropriate da Google, ma anche servizi di base come il cloud, fondamentale per l’ulteriore sviluppo della digitalizzazione, sono forniti a pagamento da soggetti privati, allargando ancor più il già enorme “digital divide”. Durante la pandemia, la Scuola italiana si è messa nelle mani dei monopoli globali adottando Google Suite per la didattica a distanza. Non solo le aziende ma gli Stati stessi si trovano in una condizione di dipendenza dai colossi informatici americani. Nel momento in cui l’identità digitale sta, nei fatti, se non ancora nel principio, integrando se non sostituendo l’identità personale tradizionale, la questione dei “diritti digitali”, pensati ovviamente in un contesto internet e sociopolitico del tutto nuovo, assurge a importanza primaria. Nel settore digitale, come in tutti gli altri, lo Stato non solo agisce come “capitalista generale”2 ma si restringe e minimizza per lasciare libero spazio alla speculazione privata. Mai come oggi gli Stati nazionali, a parte forse poche eccezioni caratterizzate da forme autoritarie di governo, appaiono superati e travolti da colossali soggetti privati in grado di controllare pressoché ogni aspetto del mondo e delle nostre vite. La vicenda in corso della commercializzazione di massa dell’Intelligenza artificiale, una tecnologia in grado di cambiare nel profondo i connotati della società umana, conferma pienamente il trend liberticida che caratterizza la storia degli ultimi quarant’anni: intanto portiamo a casa i soldi… e quel che sarà, sarà!

LE SOCIETÀ DI CONTROLLO

Prevedere il futuro, anticipare all’umanità il suo più o meno prossimo destino, non è certo cosa da poco né per tutti. Ciò richiede una grande intelligenza dello stato presente del mondo coniugata a una spiccata capacità di intuire quali saranno i processi di trasformazione prevalenti, i fattori di cambiamento che risulteranno determinanti nella formazione del futuro, più o meno prossimo.

Pochi autori hanno dimostrato, alla prova dei fatti, tale capacità di anticipare il futuro. Chi più di ogni altro ha saputo proiettarsi in avanti rispetto alla propria epoca è stato Karl Marx, nello specifico quello dei Grundrisse, alias Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica e, all’interno di quest’opera, del giustamente famoso cosiddetto “Frammento sulle macchine” nel quale il “nostro” arriva a prevedere nientemeno che il superamento della legge del valore classica e dello stato di miseria e penuria generalizzata in cui si è sviluppato il capitalismo fino ad oggi, prevedendo il costituirsi di condizioni di abbondanza e ricchezza per tutti. Egli scrive:

… omissis “Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro.” … omissis

Per un’analisi più approfondita di questo testo fondamentale e per le implicazioni, teoriche e pratiche, che esso porta con sé, rimando al mio articolo “Se le macchine di Marx siamo noi” pubblicato nel n° 1 di Rizomatica.

Se Marx con questo scritto riesce a preconizzare con 160 anni di anticipo delle possibilità di emancipazione che solo oggi, per effetto della digitalizzazione generalizzata della società, si stanno effettivamente concretizzando, Gilles Deleuze con il suo Poscritto alle società di controllo, scritto e pubblicato nel 1990, cioè prima della nascita del World Wide Web, riesce a prevedere con una precisione impressionante le pressoché esatte forme della società attuale. Potremmo, con i dovuti distinguo e un po’ scherzosamente, azzardare questa relazione che, in forma matematica, potremmo esprimere così:

Il Poscritto alle società di controllo : Gilles Deleuze = Il Frammento sulle macchine : Karl Marx

In entrambi i casi si tratta di testi brevi, concisi, densi di significato, oltre che sorprendentemente anticipatori rispetto al tempo in cui sono stati scritti. Nel “Poscritto” Deleuze, richiamandosi a precedenti lavori di Michel Foucault (1926 – 1984), riassume le diverse forme di società che si sono succedute nella modernità: le società di sovranità, basate ancora sul potere della nobiltà e sulla proprietà della terra, come retaggio del Medioevo e del Feudalesimo, erano orientate a “prelevare piuttosto che a organizzare la produzione”, a “decidere della morte piuttosto che organizzare la vita”. Esse si estingueranno progressivamente, a partire dall’Europa, con l’età napoleonica. Ad esse succederanno le società che Foucault chiamerà disciplinari, caratterizzate dal continuo passaggio dell’individuo da un un’ambiente chiuso ad un altro: dalla famiglia alla scuola, dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica, passando all’occorrenza per l’ospedale, eventualmente per il manicomio, il convento o la prigione, quest’ultimo luogo di internamento per antonomasia. In questo continuo passaggio dell’individuo attraverso questi luoghi di segregazione, definiti anche come “istituzioni totali”, la vita dei singoli è sottoposta ad un rigido e costante disciplinamento. Nel secondo dopoguerra si assiste ad una crisi verticale e generalizzata di tutti gli ambienti di internamento: anche se lo Stato non intende ammetterlo ed annuncia continue riforme, la famiglia, la scuola, la caserma, l’ospedale, per non parlare della fabbrica o del convento, sono tutte istituzioni in crisi, finite, a più o meno breve scadenza. La famiglia non si forma più e dove si forma spesso poi si disintegra; alla scuola si sostituisce la così detta “formazione permanente”; il servizio militare di leva, generalizzato, è sostituito dall’esercito di professionisti; l’ospedale è sostituito dal “day hospital”; la prigione dal braccialetto elettronico e così via. Soprattutto, la fabbrica, come luogo fisico dove veniva attuata la produzione di beni altrettanto fisici, è soppiantata dalla produzione snella, just in time, distribuita su filiere lunghe e ramificate; “nella società di controllo l’impresa ha sostituito la fabbrica e l’impresa è un’anima, un gas”3; inoltre, ormai da tempo, lo stock dei beni immateriali (fornitura di servizi) ha superato in valore quello dei beni materiali.

Scrive Deleuze nel Poscritto: “È facile far corrispondere a ogni società specifici tipi di macchine, e non perché le macchine siano determinanti, ma perché esprimono le forme sociali in grado di generarle e di servirsene. Le vecchie società di sovranità manovravano macchine semplici: leve, pulegge, orologi; mentre le recenti società disciplinari erano invece dotate di macchine energetiche, con il rischio passivo dell’entropia e il pericolo attivo del sabotaggio; le società di controllo operano con macchine di un terzo tipo, macchine informatiche e computer, il cui pericolo passivo è l’interferenza e quello attivo la pirateria e l’introduzione di virus. Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo, avvenga una mutazione del capitalismo.” E ancora: “… nella situazione attuale, il capitalismo non è più orientato alla produzione, … È un capitalismo dell’iperproduzione. … Non è più un capitalismo per la produzione ma un capitalismo per il prodotto, cioè per la vendita o per il mercato.” Da queste parole, vediamo bene come nell’attuale regime economico, la governamentalità algoritmica che sta prendendo il posto del neoliberalismo, in violento contrasto con quanto preconizzato da Marx nel “Frammento”, prenda ancor più il sopravvento il valore di scambio sul valore d’uso, il ricavato dalla vendita sull’utilità della produzione. “Il marketing è ora lo strumento del controllo sociale… L’uomo non è più l’uomo rinchiuso ma l’uomo indebitato4”.

Nel passaggio dalle società disciplinari alle società di controllo, il processo di astrazione5 non solo non si attenua ma prende il volo: se nell’epoca industriale la produzione rispondeva ancora all’esigenza di dare riscontro a ben determinati bisogni riproduttivi, per quanto anch’essi indirettamente indotti dall’industrializzazione stessa: l’attività edilizia all’esigenza di alloggi connessa al grande processo di urbanizzazione di massa, l’automobile a quello crescente di mobilità individuale dei lavoratori, gli elettrodomestici a quello di ridurre il lavoro domestico per favorire lo sfruttamento anche delle donne nel processo produttivo capitalistico, oggi la produzione non risponde più a bisogni materiali concreti ma a desideri istillati artificialmente attraverso l’attrazione feticistica esercitata dall’oggetto tecnologico e la proposta “culturale” personalizzata basata sulla profilazione personale. I big data non hanno altro scopo che questo: fornire la base dei dati necessari a indurre e alimentare i consumi. La produzione infatti, da un lato, si dematerializza, diviene produzione di “informazione”, di “contenuti semantici” piuttosto che di oggetti fisici, dall’altro, aderisce sempre più al soggetto, all’individuo per come è forgiato dal main-stream “culturale” e dal marketing strategico. Grazie a tecniche del controllo attenzionale sempre più sofisticate, il desiderio stesso, ciò che, a partire dalla psicanalisi freudiana e, in modo più preciso, da quella lacaniana, tutto il pensiero critico e alternativo pone a base del senso stesso della vita umana singolare, diviene calcolabile! Potremmo dire, usando la terminologia del filosofo Bernard Stiegler, al cui pensiero verremo tra breve, che il desiderio, esteriorizzato attraverso tecniche algoritmiche che si evolvono incessantemente, incorporando le più recenti risultanze della ricerca neuroscientifica e orientandone lo sviluppo, si re-interiorizza attraverso un processo di manipolazione subliminale e profonda finalizzato, ancora una volta, alla massimizzazione dell’utile economico. 

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Fonte: Rizomatica

Autore: V. Pellegrino



Articolo tratto interamente da 
Rizomatica 


2 commenti:

  1. Lavoriamo troppo quotidianamente e per troppi anni.
    Certo chi si arricchisce non concepisce questo dato di fatto.

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    Risposte
    1. Si lavora troppo e tanto, per arricchire il capitalista di turno, la vita è molto breve, bisogna ripensare a un nuovo sistema.

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