giovedì 24 novembre 2022

Soccorsi in mare: l'Unione europea respinge la politica italiana



Articolo da Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

Dopo giorni di attacchi furibondi contro i soccorsi operati in acque internazionali dalle navi delle Organizzazioni umanitarie, il governo Meloni incassa una evidente sconfitta a livello europeo, anche se si cerca di fare credere che le proposte italiane di regolamentazione al fine di contrastare le attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale siano state accolte. Basta leggere la bozza del Piano di azione già disponibile on line per verificare come non sia stata accolta la proposta italiana di indicare lo stato di bandiera della nave soccorritrice come paese responsabile per la assegnazion di un porto di sbarco sicuro. Il comandante della nave soccorritrice, senza differenze tra navi del soccorso civili e navi commerciali, deve procedere alla massima velocità al soccorso informando i paesi costieri competenti o limitrofi, chiedendo il coordinamento dei relativi MRCC (centrali di coordinamento), ma solo nei limiti in cui questi possano ganatire interventi solleciti che salvaguardino la vita umana in mare e lo sbarco in un luogo sicuro. L’operazione di soccorso si conclude solo con lo sbarco a terra, come precisa anche l’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98, e come è ribadito dalle Convenzioni internazionali.

Nessun mezzo di informazione può continuare a diffondere informazioni false che darebbero per accolta la proposta italiana di un nuovo codice di regolamentazione dei soccorsi operati dalle ONG in acque internazionali. Continua intanto a venire alla luce la gravità delle mistificazioni diffuse dal Viminale sul comportamento delle ONG, che finalmente passano all’attacco e ristabiliscono il principio di realtà. In particolare, al punto 17 della bozza di Piano si esprimerebbe l’intenzione di promuovere una discussione in seno all’Organizzazione marittima internazionale (IMO) di Londra su un «quadro specifico e linee-guida per le imbarcazioni focalizzate nella ricerca e salvataggio», ma dificilmente l’IMO potrà adottare in tempi brevi risoluzioni che, su esclusiva solecitazione di alcui opaesi europei, modifichino il diritto internazionale, creando un regime discriminatorio che varrebbe soltanto per le ONG, con disposizioni prive di valenza normativa, che sarebbero poi certamente al centro di una serie di contestazioni nei tribunali nazionali ed internazionali.Nella sostanza si rimane nel solco della Raccomandazione della Commissione 2020/2365/UE del 23 settembre 2020, che non aveva avuto alcun effetto modificativo della vigente normativa europea ed internazionale sui soccorsi in mare.

Il documento elaborato dalla Commissione europea, e proposto come Piano di azione alla riunione del Consiglio dei ministri dell’interno in programma per venerdì 25 novembre, non accoglie nessuna delle richieste che il ministro dell’interno Piantedosi aveva rivolto ai partner europei, con argomenti che si rivelano in stretta adesione alle linee difensive del ministro Salvini, che nel processo di Palermo, sul caso Open Arms, cerca da tempo di criminalizzare le atività di soccorso e di chiamare in causa le responsabilità degli Stati di bandiera delle navi soccorritrici. Per liberarsi dalle responsabilità che gli vengono addebitate per avere impartito alla Open Arms nel 2019 un divieto di ingresso nel porto sicuro più vicino, divieto che venne poi contraddetto da una decisione del Tribunale ammistrativo del Lazio, e quindi dal provvedimento di sequestro della nave da parte della Procura di Agrigento, che ordinava lo sbarco immediato dei naufraghi. Come era, ed è tuttora previsto, dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dal Regolamento Frontex n.656 del 2014, atti normativi vincolanti per le autorità italiane in base al richiamo al dirito sovranazionale operato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione.

Numerosi comunicati della Commissione europea avevano respinto la tesi italiana che giustificava, soltanto nei confronti delle ONG, la mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, da raggiungere nel tempo più breve ragionevolmente possibile, come dettato dalle Convenzioni internazionali, dagli emendamenti e dalle Linee guida approvate dall’IMO, in favore della competenza prevalente dello Stato di bandiera (Flag State). E già nel 2020 la Raccomandazione della Commissione europea sui soccorsi in mare operati dalle ONG escludeva qualsiasi competenza primaria dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, richiamando al contrario senza alcuna differenziazione per le navi umanitarie, le regole generalmente riconosciute sui soccorsi delle imbarcazioni in situazione di di distress (pericolo) in alto mare, L’assistenza richiesta dalle Convenzioni internazionali agli Stati di bandiera non può estendersi dunque fino alla indicazione del porto di sbarco. In passato la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, e la Germania avevano respinto le richieste italiane di assumere la responsabilità di coordinamento dei soccorsi per garantire lo sbarco a terra dei naufraghi in un porto indicato. dallo Stato di bandiera.

Dopo il respingimento collettivo adottato nei confronti dei naufraghi soccorsi dalla Ocean Viking, ai quaali per giorni è stato negata l’indicazione di un POS ( place of safety) e dopo il loro sbarco a Tolone, la Norvegia, stato di bandiera, della nave ribadisce oggi che l’accoglienza che garantirà a qualche decina di persone sbarcate in Francia dalla nave di SOS Mediterraneé non significa in alcun modo che possa invocarsi la tesi della responsabilità promaria dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, per la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Con queste premesse sarà ben difficile che a livello europeo si possa trovare un intesa che vada oltre un generico rafforzamento di Frontex e dei rapporti di collaborazione con paesi terzi che non rispettano i diriti umani, come la Libia e l’Egitto.

In Italia la Corte di Cassazione ha riconosciuto che la Libia non può essere qualificata come “paese terzo sicuro”, ed il Tribunale di Napoli ha condannato un comandante di un rimorchaitore italiano (Asso 28) che aveva sbarcato in Libia naufraghi soccorsi in acque internazionali. Se si cercherà di modificare le linee guida dell’IMO sui soccorsi in mare, con disposizioni che risulterebbero mirate esclusivamente contro le navi delle ONG si andrebbe contro il costante orientamento della Commissione europea e contro la recente decisione della Corte di Giustizia del’Unione Europea, sui limiti ben precisi apposti ai fermi amministrativi delle navi umanitarie. Si aprirebbero continue occasioni di contenzioso davanti ai Tribunali nazionali ed internazionali con possibili gravi ripercussioni sull’intero traffico commerciale via mare e sulla questione ancora controversa della suddivisione dei mari in zone SAR ( di ricerca e di salvataggio) di competenza, ma non rientranti nella giurisdizione esclusiva, degli Stati costieri. E’ tempo, comunque, che la finzione della zona SAR libica salti, dopo essere servita per criminalizzare i soccorsi delle ONG che non si piegavano ai comandi delle motovedette libiche, ed alla delega di decine di migliaia di respingimenti alla sedicente Guardia costiera libica, coordinata prima da assetti italiani, e poi da Frontex in concorso con le autorità maltesi ed italiane. Di certo la Libia non ha ancora oggi una Centrale unica di coordinamento dei soccorsi (MRCC), che secondo le Convenzioni internazionali dovrebbe essere la prima condizione per il riconoscimento di una zona SAR (di ricerca e salvataggio).

Preoccupa poi sul piano interno l’impatto che potrà avere l’attacco portato dal governo contro i soccorsi umanitari, soprattutto per il conflitto che si può preventivare con la magistratura che, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, ha ritenuto la legittimità dei soccorsi umanitari in acque internazionale, che costituiscono adempimento di un dovere sancito da Convenzioni internazionali, ed ha respinto le decisioni governative, poi confluite come notizia di reato nei rapporti di polizia giudiziaria, che vietano l’ingresso nel porto sicuro più vicino o escludono la natura di evento di soccorso ( e la ricorrenza di un caso di distress) per trattare la situazione delle persone in attesa di soccorso in alto mare come un “evento migratorio”, facilmente qualificabile come illegale, e dunque tale da dismettere le responsabilità di coordinamento e gli obblighi di indicazione di un porto sicuro di sbarco. Rimane da augurarsi che le future scelte dei giudici non si facciano influenzare dagli indirizzi politici del governo in carica. Sarebbe una questione che potrebbe avere ricadute anche sul piano internazionale, con la possibile aperura di procedure di infrazione contro l’Italia da parte della Corte di Giustizia UE. Come si è già verificato nei confronti dell’Ungheria di Orban dopo violazioni sistenatiche del diritto dell’Unione Europea e dei diritti umani sanciti dalle Convenzioni internazionali.

Una pubblicazione periodica dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea (FRA) censisce annualmente lo stato dei procedimenti penali ed amministrativi intentati a raffica contro le ONG, a partire dal 2017 (caso Iuventa). Con poche eccezioni di procedimenti ancora aperti, a Ragusa ed a Trapani,che presentano peculiarità evidenti, sono tutti procedimenti archiviati, ed in nessun caso di è arrivati ad una sentenza di condanna dei comandanti o dei capo-missione delle navi umanitarie. La tesi diffamatoria dei “taxi del mare”, o quella più risalente delle collusioni con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico, nelle sue diverse formulazioni (dalle consegne concordate del procedimento Iuventa alla teoria del fattore di attrazione ancora oggi ripreso nei rapporti di Frontex), sono rimaste fino ad oggi prive di un qualsiasi riscontro processuale definitivo. Mentre le archiviazioni a favore delle ONG ormai non si contano più.

Sarebbe adesso auspicabile, mentre migliaia di migranti continuano ad arrivare nei porti italiani dopo traversate che sono sempre sul punto di concludersi in tragedia, che l’attenzione si sposti verso il ritorno delle navi militari e della guardia costiera in acque internazionali, magari con una missione europea di soccorso, e che le autorità italiane assumano quel ruolo di coordinamento dei soccorsi nel Mediterraneo centrale, che evidentemente Malta, la Libia o la Tunisia, per ragioni diverse, non sono in grado di assumere. Sarebbe questa assunzione di responsabilità che, a differenza di quanto sta avvenendo in queste settimane, potrebbe permettere al’Italia di ottenere un maggiore riconoscimento di ruolo negoziale a livello europeo, restando sul piano di una tutela effettiva dello Stato di diritto, che impone il pieno rispetto delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei approvati in passato dal nostro paese. Non è soltanto una questione di opportunità o di scelta politica, lo impone la nostra Carta Costituzionale.

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Fonte: Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

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Articolo tratto interamente da 
Associazione Diritti e Frontiere – ADIF


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