domenica 20 novembre 2022

La misoginia online





Articolo da InGenere.it 

Misoginia, sessismo e molestie online. Con il diffondersi dei nuovi strumenti di comunicazione la violenza digitale è ovunque e molto spesso colpisce le giovanissime o le donne adulte con una spiccata visibilità pubblica. Ma i mezzi a disposizione per arginarla sono ancora inadeguati. Una ricognizione a partire dai dati disponibili

Ormai lo sappiamo perché lo sperimentiamo sulle nostre vite: Internet è una rete immateriale fruibile da chiunque, che consente la rapida creazione di contatti e un notevole scambio di informazioni, e se pure da una parte può essere un mezzo efficace per sfidare il perpetuarsi delle disuguaglianze, ha determinato in questi anni profondi cambiamenti rispetto alla partecipazione alla vita pubblica delle persone, facilitando l’insorgere e il moltiplicarsi di una serie di comportamenti abusanti nei confronti soprattutto delle donne e dei soggetti non conformi a quella che è ritenuta essere la 'norma'.

Quando al centro di questi attacchi c'è una donna parliamo di “misoginia online”, ossia una forma di hate speech consistente in una serie di comportamenti di costante denigrazione delle donne in quanto tali.

Non si tratta di casi isolati. In base a un’indagine globale 2020 condotta dalla Fondazione World Wide Web, è stato rilevato che il 52% delle giovani donne ha subito abusi online; il 64% delle persone intervistate conosce qualcuno che ha subito molestie, abusi o violenze online.

Secondo il rapporto TeEn di Chayn Italia intitolato Prevenire la violenza digitale nei confronti di ragazze e adolescenti, la misoginia online si manifesta attraverso varie forme: violazione della privacy, sorveglianza e monitoraggio dell’uso di internet, diffusione non consensuale di immagini intime, cyberstalking, danneggiamento della reputazione e della credibilità di una donna.

Le radici di questi comportamenti sono rintracciabili in primo luogo nelle strutture sociali, e nel cosiddetto “doppio standard” per cui gli stessi comportamenti sono valutati in maniera più negativa se adottati da donne; in secondo luogo nell’approvazione da parte di un gruppo di pari, che può spingere ad adottare determinati comportamenti violenti o discriminatori; in terzo luogo, come mostra la Mappa dell'intolleranza redatta da Vox nel 2021, alla persistenza di una cultura ancora profondamente patriarcale; in quarto luogo della normalizzazione di un linguaggio violento.

Tre elementi fondamentali sono inoltre da prendere in considerazione nell’analisi del fenomeno: l’illusione dell’anonimato, la mancata percezione del pubblico di riferimento, l’assenza di consapevolezza sulle conseguenze dell’agire in rete.

In relazione al primo elemento, l’anonimato in rete è pressoché impossibile, in quanto servirebbero conoscenze sconosciute alla maggior parte degli utenti, pertanto non è realmente possibile nascondere la propria identità dietro uno schermo. Con riferimento al secondo aspetto, l’interazione con una platea digitale, di cui non si ha reale contezza, ha portato nel corso del tempo al paradosso per cui si sviluppa al contrario negli users un senso di libertà e di sicurezza maggiore rispetto al mondo reale. Da ultimo, non avendo effettiva percezione del pubblico di riferimento, persiste la convinzione di un’assenza di responsabilità nel mondo digitale, che legittima ancor più la diffusione del fenomeno.

Diversi sono i target interessati. In primo luogo, considerata la tipologia di utenti dei social media e la mancanza di una completa alfabetizzazione digitale, questo tipo di violenza si riversa principalmente nei confronti delle donne giovani. In secondo luogo, la misoginia online si rivolge spesso alle donne che hanno particolare visibilità nello spazio pubblico - e così si parla di “discriminazioni multiple” quando le donne sono maggiormente discriminate sulla base di fattori diversi che, agendo contemporaneamente, creano una situazione che amplifica una condizione di disagio.

La misoginia online comporta purtroppo rilevanti conseguenze per chi la subisce, che vivrà vive in un maggiore stato di ansia e paura, a maggior ragione se ha già alle spalle una storia di violenza "nella realtà". Come ulteriore effetto, la persona in questione tenderà a rimproverare se stessa per un uso eccessivo dei social media, normalizzando la violenza come una prassi accettabile o minimizzandone la portata.

In aggiunta, nella maggior parte dei casi, la persona che subisce violenza digitale si sentirà costretta ad abbandonare lo spazio online o a non prendere parola per un determinato periodo di tempo. Si parla di shadow ban o dello shut down, quando i profili di queste donne vengono chiusi o cancellati per motivi di violenza, determinando di fatto una perdita di visibilità pubblica, e quindi anche opportunità di lavoro e occasioni di partecipazione alla vita pubblica, e minando alcuni valori fondamentali del vivere civile quali la parità e la partecipazione democratica.

Considerando quanto detto finora, sono necessarie almeno due osservazioni. La prima, che le piattaforme online sono state progettate e costruite da maschi e per i maschi, e questo sicuramente ha costituito un ostacolo al fatto che le donne potessero trovarvi una dimensione di agio. Pensiamo a Facebook, che è stato da Mark Zuckerberg traendo ispirazione da un sito che permetteva agli utenti di scegliere tra due foto di donne e votare la più attraente.

Oggi sappiamo che la misoginia si manifesta prevalentemente attraverso i social, e sappiamo che questi sono dotati di standard minimi relativi a termini e condizioni vincolanti sui comportamenti ritenuti accettabili sulle piattaforme. Quando sono condivisi contenuti che violino i detti standard, esse dovrebbero quindi responsabilizzarsi, introducendo meccanismi di segnalazione per la rimozione dei contenuti dannosi.

Questo passaggio ci conduce alla seconda osservazione, che riguarda l’inadeguatezza dei rimedi a disposizione contro la violenza online. Anzitutto, nelle piattaforme non vi è ancora una categoria specifica disponibile per l’odio indirizzato nei confronti delle donne, ma questo è tuttalpiù considerato nella categoria di “contenuto dannoso per gli adulti”.

Su Facebook il genere non è presente come categoria, al di là della politica di Hate Speech e degli Standard Comunitari – dove compare nei “termini imprecatori di genere femminile” all’interno della politica di bullismo e molestie. Su Twitter è possibile solo effettuare una segnalazione per abuso/molestia. Instagram nelle sue policy proibisce l’hate speech, gli insulti misogini, ma, in una ricerca recente del Center for countering digital hate del 2022, è emerso che su 8.717 messaggi indirizzati a cinque volontarie, sono stati individuati 125 casi di abusi sessuali per immagini, e su circa 253 account che avevano inviato messaggi violenti, segnalati alla piattaforma, questi 9 volte su 10 risultavano ancora attivi.

Nella maggior parte dei casi in cui si segnala il messaggio o il contenuto abusante, la piattaforma o non predispone alcuna sanzione nei confronti dell’utente violento, o la risposta è troppo lenta. A volte, alla segnalazione non segue nessuna azione in quanto il contenuto è visto come isolato e innocuo. In altri casi, le violenze sono perpetrate con messaggi in modalità scomparsa, per cui una volta aperti non è possibile rintracciarne gli autori. In altri ancora le molestie sono compiute in chat privata ovvero vengono compiute da account falsi.

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Fonte: InGenere.it 

Autore: 
Chiara Alberta Parisse

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Articolo tratto interamente da 
InGenere.it 


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