martedì 9 marzo 2021

Covid, un anno fa il primo lockdown



Articolo da Terre di frontiera

Il 9 marzo 2020 – in ottemperanza di un decreto del presidente del Consiglio dei ministri del giorno prima – l’Italia entra in lockdown. E ci sarebbe rimasta fino al 18 maggio. Scuole, teatri, cinema, ristoranti e negozi chiusi. La decisione di sancire una zona rossa nazionale arriva diciotto giorni dopo la scoperta del primo cittadino italiano, accertato, ad aver contratto il nuovo Coronavirus: Mattia Maestri, 38 anni, ricoverato nell’Ospedale Civico di Codogno, in provincia di Lodi. A darne notizia fu l’Ansa. Il virus, tuttavia, già da diversi mesi circola in Lombardia, nel bergamasco, e in Veneto, a Vo’ Euganeo, comune di poco più di 3.000 abitanti in provincia di Padova. Dal 10 febbraio, infatti, la casa di riposo Guarreschi, in provincia di Cremona, inizia un isolamento preventivo per gli ospiti. Un centro anziani di Pomezia, nel Lazio, di lì a poco avrebbe invece organizzato una festa di carnevale. In Trentino, poi, in alcune Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) si registrano i primi casi di Covid-19. Forse i primi in Italia. Episodi, questi, purtroppo non isolati che furono il preludio di un problema molto più ampio: le Rsa di mezza Italia al centro dell’emergenza Covid.

IL CAVALLO DI TROIA IN LOMBARDIA


L’8 marzo 2020, mentre il Paese si prepara a trincerarsi in casa per arginare la curva esponenziale dei contagi, la Regione Lombardia emana la delibera XI-2906, con la quale si chiede alle residenze per anziani di accogliere i pazienti Covid dimessi. Fiammiferi inconsapevoli gettati nei più fragili tra i pagliai.


Su un campione di 1.082 Residenze sanitarie assistenziali italiane, l’Istituto superiore di sanità (Iss), nell’unico report sull’argomento, conta 6.773 anziani morti tra il primo febbraio ed il 15 aprile: 3.045 nella sola Lombardia. Ma a rispondere all’Iss sono state solamente 266 strutture lombarde delle 678 censite. Tenuto conto poi che, nella prima fase dell’emergenza, non tutti i morti venivano sottoposti a tampone, le vittime nelle residenze per anziani potrebbero essere almeno il triplo. Una scelta apparentemente immotivata, quella della Regione Lombardia, che mostrerà in brevissimo tempo la sua pericolosità con molte Rsa trasformate in focolai letali. La sua genesi, però, potrebbe collocarsi nella crisi di un sistema sanitario nazionale – a gestione regionale – andato a sbattere improvvisamente contro una pandemia. Già nei primi giorni di emergenza i posti letto negli ospedali fanno registrare il tutto esaurito: soprattutto per le terapie intensive e subintensive. Una saturazione figlia dei tagli alla sanità pubblica e dell’affermazione del privato: una mole di fondi che la fondazione Gimbe stima in 37 miliardi (di cui 25 solo tra il 2010 e il 2015), riversati nelle casse delle società private, forti di prestazioni più remunerative, perché numerose, ma inadatte a gestire un’emergenza sanitaria. Di contro, i tagli al servizio pubblico che hanno portato alla diminuzione dei posti letto. Per il Centro Studi Nebo, nel 1981 i posti erano 530.000, nel 1992 erano 365.000, ridotti a 245.000 nel 2010 fino ai 191.000 del 2017. La cura dimagrante dei governi Monti (2012) e Renzi (2015), guidati prima di tutto dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, ha poi fatto il resto, con la chiusura dei piccoli presidi ospedalieri. Risultato: nella Lombardia di Roberto Formigoni e dei governatori leghisti, il budget annuo per la sanità è di 19,5 miliardi, con i letti dimezzati e gli introiti nelle strutture private, a partire dagli istituti San Raffaele e Humanitas che, in questo anno di pandemia stanno facendo la loro parte importante. Nelle altre regioni italiane, però, la situazione non è più rosea: In Emilia-Romagna, dal 2000 al 2016, i posti letto sono calati di 5.000 unità; in Piemonte, tra il 2012 e il 2018, hanno chiuso 12 nosocomi. Di qui la decisione del Pirellone di investire 17,2 milioni di euro per un nuovo ospedale, concluso il 6 aprile 2020, in area Fiera Milano, e l’investimento di 6 milioni di euro, stanziati da Regione Emilia-Romagna e ministero della Salute, per 34 terapie intensive all’ospedale Maggiore di Bologna. Ma, dall’inizio della pandemia, è mancato anche il personale: per carenze strutturali, malattie o decessi. Al punto che ai primi di marzo, un decreto del presidente del Consiglio dei ministri ha dato il via libera all’assunzione di 200 mila professionisti: la metà infermieri, il resto diviso equamente tra specialisti e operatori socio-sanitari, distribuiti tra le regioni più in difficoltà, Lombardia in testa. Questi i motivi per cui, proprio l’8 marzo 2020, la giunta di Attilio Fontana e dell’assessore al Welfare, Giulio Gallera, chiese aiuto alle residenze per anziani. I contagi salivano, i malati aumentavano e non si sapeva, materialmente, dove metterli. E il cerchio si chiudeva.

CHIAMATA ALLE ARMI


All’appello del governatore Fontana rispondono molte strutture, ma non tutte. Fondazione Don Gnocchi, Pio Albergo Trivulzio e la Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma Luca Degani, presidente di Uneba, associazione che riunisce più di 400 Rsa lombarde, si oppone. Con una lettera all’assessore Gallera denuncia le criticità dell’operazione: personale sanitario irreperibile, prosciugato dalle assunzioni pubbliche, e le aree che dovevano garantire l’isolamento da riorganizzare. Inoltre, l’età avanzata degli ospiti, spesso pluripatologici, li rendeva i soggetti meno idonei per entrare in contatto con possibili positivi. Però la missiva di Degani è senza risposta. Così come inascoltato è stato l’avvertimento di Marco Agazzi, presidente dei medici di famiglia di Bergamo, che denunciò gli spostamenti. La provincia bergamasca, simbolo dell’epidemia con la foto dei camion militari carichi di bare, subiva, già ai primi di febbraio, l’imposizione di lasciare aperte Rsa e centri anziani, nonostante la richiesta dell’Associazione case di riposo bergamasche (Acrb), presieduta da Cesare Maffeis, di interrompere le visite esterne. Dall’Asl fecero però sapere che la chiusura poteva essere interpretata come interruzione di pubblico servizio. Un’imposizione, revocata con un repentino dietrofront dopo una settimana, che provocò probabilmente i 600 morti nelle strutture nei primi 20 giorni di marzo. E se era facile entrare nelle Rsa, difficilissimo era raggiungere gli ospedali. Una seconda ordinanza lombarda, la n.3108 del 30 marzo 2020, caldeggia alle case di riposo di prestare le cure necessarie nelle strutture, o comunque consultarsi sempre con i pronto soccorso prima delle ospedalizzazioni. Non un’imposizione politica, come comunicato dal Trivulzio, poiché l’ultima parola spettava sempre ai medici. Un’indicazione, però, in grado di generare un clima che ha oltrepassato i confini regionali, come ricorda Mauro Caffo, operatore socio-sanitario di Parma: «Chiamavamo le ambulanze ma erano impegnate, c’era difficoltà anche solo a mettersi in contatto con gli ospedali». Un caso emblematico è quello di una donna entrata in una Rsa il 20 febbraio 2020 per una terapia temporanea di un mese. Dopo aver contratto il virus è dovuto intervenire il medico di base per ottenere il ricovero in ospedale. «A mio nonno è stata negata l’ospedalizzazione ‒ ricorda invece Sanfelice ‒ dicendo che il servizio nelle Rsa era lo stesso. Ma il medico non era nemmeno presente in struttura. Ci riferivano che gli ospedali erano pieni e la maggior parte delle nostre perdite è avvenuta proprio nelle strutture».
Non è stato semplice nemmeno trovarsi, improvvisamente, in prima linea. Emilia Tramelli, direttrice di Duemiglia, Cra piacentina appartenente al gruppo Sereni Orizzonti, riporta le misure adottate: «La direttiva regionale prescriveva tre zone distinte. Quella rossa, per i positivi, quella free, senza virus, e quella mista per i casi sospetti». Molte strutture hanno quindi riorganizzato i plessi al pari degli ospedali e, in questa fase, i pazienti positivi potevano essere trasferiti all’interno di altre strutture: «E avveniva non solo a Piacenza, ma in tutta l’Emilia-Romagna». Invece per Vittorio Pezzuto, responsabile delle relazioni esterne del gruppo Sereni Orizzonti, il primo impatto con il virus è stato il 24 febbraio, «quando tutte le nostre strutture chiusero, con visite contingentate di un solo parente. Fino al 4 marzo, quando la serrata è stata totale». Con significativi vantaggi per le strutture appartenenti a grosse e strutturate realtà: «Già dall’8-9 marzo siamo riusciti a individuare mascherine, guanti e camici», rivendica Pezzuto. Il privato, infatti, poteva contare su un margine di movimento maggiore rispetto al pubblico, permettendosi importanti investimenti per i dispositivi di protezione. Poste le misure, comunque, i mesi del lockdown hanno dimostrato la capacità del virus di infiltrarsi nelle residenze. «Eppure – riflettono Pezzuto e Tramelli – abbiamo mantenuto ovunque gli stessi protocolli. A nostro avviso il Covid è entrato nelle strutture in due modi: con le ospedalizzazioni e con gli operatori asintomatici». Vista l’anzianità degli ospiti, infatti, «le Rsa vivono normalmente in sinergia con gli ospedali di riferimento, con ricoveri temporanei e successivi ritorni. In questi casi, non sempre si sapeva se il soggetto era positivo o meno, anche prima che il caso di Codogno dimostrasse la presenza del Covid nel Nord Italia», riporta Pezzuto. Tramelli ricorda altresì la difficoltà nel rapportarsi con le aziende sanitarie: «Non sapevamo quando e quanti tamponi ci spettassero. Sono mancate le indicazioni in merito». Con l’impellente difficoltà nel sostituire il personale mancante: «Il numero di queste professionalità è limitato, regolato da leggi dello Stato. È una coperta corta, che durante l’emergenza è stata tirata dallo Stato con l’incentivo di un contratto pubblico e tutte le relative garanzie. Quando si doveva sostituire un infermiere malato non si trovavano i curriculum nel cassetto».
Un imbuto che, in molti casi, non ha lasciato scampo, ma ha portato alla formazione di numerosi comitati dei parenti delle vittime. Animati dalla ricerca di verità i primi esposti sono arrivati alle procure dalla metà di marzo fino ad aprile, partendo da Milano, Bergamo, Lodi, Como, Varese, Cremona e spingendosi fino a Bologna. Dove però i risultati non arrivano. Se a Milano le inchieste hanno coinvolto le principali residenze, con il sequestro dei documenti e delle cartelle cliniche, la Procura di Bologna ha infatti chiesto l’archiviazione del primo esposto: la morte di una 97enne nella struttura Villa dei Ciliegi di Valsamoggia. Ma è soprattutto la motivazione a scontentare i comitati: secondo il procuratore Giuseppe Amato quella del Covid è stata «un’emergenza epidemiologica eccezionale» che esclude, in questo caso, ogni profilo di colpa. «È un pacchetto preconfezionato, senza una motivazione specifica, che finisce per assolvere tutti», si sfoga Sanfelice. Rabbia che sfocia in preoccupazione, pensando a tutti i prossimi ricorsi nel capoluogo e nelle altre città. «Si rischia un effetto a catena, vanificando ogni ricerca della verità». Perché per i comitati è ora imprescindibile capire cosa sia successo nei mesi drammatici del lockdown, per un settore, quello della gestione degli anziani, che muove interessi ed è gestito da enormi realtà imprenditoriali. Sempre dal versante emiliano-romagnolo, Francesca Sanfelice, presidente del comitato regionale parenti delle vittime, spiega che in alcune strutture modenesi «si sono susseguiti casi di dimissioni protette, confermate dalla dirigente dell’Asl locale. Oppure trasferimenti tra residenze infette, con anziani che scendevano dagli Appennini verso la pianura». L’Emilia-Romagna – che a differenza del Piemonte di Alberto Cirio non ha replicato l’ordinanza lombarda – aveva guadagnato, in termini percentuali, secondo un report dell’Iss fermo al 14 aprile 2020, il primato nazionale per numero di morti nelle Rsa in rapporto alla popolazione.

Continua la lettura su Terre di frontiera

Fonte: Terre di frontiera


Autore: 


Licenza: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.


Articolo tratto interamente da Terre di frontiera


16 commenti:

  1. Il problema è che i sacrifici di quest'anno sembrano vani, visto che siamo ancora ad un livello vergognoso.

    RispondiElimina
  2. Ricordo bene il primo lockdown, mi pesa molto di più quest'anno dove oltre a vedere poca chiarezza in certe decisioni, osservo molta censura in rete specie sui social.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. La situazione è ancora critica, con alcune decisioni non proprio brillanti.

      Elimina
  3. Potrebbe riaccadere. Se non ci rendiamo conto della gravità.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Se continuano ad aumentare i ricoveri, c'è rischio di lockdown totale.

      Elimina
  4. Ciao,ci siamo illusi che il mostro avesse vita breve!
    Buona serata
    Rakel

    RispondiElimina
  5. Ma quando finirà?Io sono stremata,ciao Vincenzo-

    RispondiElimina
  6. Le responsabilità dell'amministrazione regionale lombarda durante tutta la prima fase dell'epidemia sono enormi. Non a caso poi a furor di popolo hanno dovuto recentemente sostituire l'assessore Gallera. Non era omunque il solo ad avere delle colpe, però ha pagato per tutti.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Si è pensato solo ai profitti economici, poco alla salute dei cittadini.

      Elimina
  7. Triste rassegnazione da parte mia, oltre a essere stufo di aver rispettato le regole e dover ancora subire per colpa di incoscienti e strafottenti, oltre che di una politica che dove vuole fa di tutta l'erba un fascio, e altrove fa riaprire qualche attività facendone morire altre.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Molte persone, continuano a non rispettare le normali norme anti Covid.

      Elimina
  8. Come dicevo stamani da Claudia, purtroppo cedo: sarei per un nuovo lockdown, totale e generalizzato, ma di 3 settimane, non un giorno di più, giusto per far rallentare i contagi..

    RispondiElimina
    Risposte
    1. In primis chiudere le grandi attività, non toccate in questi mesi.

      Elimina

I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.