Il 9 marzo 2020 – in ottemperanza di un decreto del presidente del Consiglio dei ministri del giorno prima – l’Italia entra in lockdown. E ci sarebbe rimasta fino al 18 maggio. Scuole, teatri, cinema, ristoranti e negozi chiusi. La decisione di sancire una zona rossa nazionale arriva diciotto giorni dopo la scoperta del primo cittadino italiano, accertato, ad aver contratto il nuovo Coronavirus: Mattia Maestri, 38 anni, ricoverato nell’Ospedale Civico di Codogno, in provincia di Lodi. A darne notizia fu l’Ansa. Il virus, tuttavia, già da diversi mesi circola in Lombardia, nel bergamasco, e in Veneto, a Vo’ Euganeo, comune di poco più di 3.000 abitanti in provincia di Padova. Dal 10 febbraio, infatti, la casa di riposo Guarreschi, in provincia di Cremona, inizia un isolamento preventivo per gli ospiti. Un centro anziani di Pomezia, nel Lazio, di lì a poco avrebbe invece organizzato una festa di carnevale. In Trentino, poi, in alcune Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) si registrano i primi casi di Covid-19. Forse i primi in Italia. Episodi, questi, purtroppo non isolati che furono il preludio di un problema molto più ampio: le Rsa di mezza Italia al centro dell’emergenza Covid.
IL CAVALLO DI TROIA IN LOMBARDIA
L’8 marzo 2020, mentre il Paese si prepara a trincerarsi in casa per arginare la curva esponenziale dei contagi, la Regione Lombardia
emana la delibera XI-2906, con la quale si chiede alle residenze per
anziani di accogliere i pazienti Covid dimessi. Fiammiferi inconsapevoli
gettati nei più fragili tra i pagliai.
Su un campione di 1.082 Residenze sanitarie assistenziali italiane, l’Istituto superiore di sanità (Iss),
nell’unico report sull’argomento, conta 6.773 anziani morti tra il
primo febbraio ed il 15 aprile: 3.045 nella sola Lombardia. Ma a
rispondere all’Iss sono state solamente 266 strutture lombarde delle 678
censite. Tenuto conto poi che, nella prima fase dell’emergenza, non
tutti i morti venivano sottoposti a tampone, le vittime nelle residenze
per anziani potrebbero essere almeno il triplo. Una scelta
apparentemente immotivata, quella della Regione Lombardia, che mostrerà
in brevissimo tempo la sua pericolosità con molte Rsa trasformate in
focolai letali. La sua genesi, però, potrebbe collocarsi nella crisi di
un sistema sanitario nazionale – a gestione regionale – andato a
sbattere improvvisamente contro una pandemia. Già nei primi giorni di
emergenza i posti letto negli ospedali fanno registrare il tutto
esaurito: soprattutto per le terapie intensive e subintensive. Una
saturazione figlia dei tagli alla sanità pubblica e dell’affermazione
del privato: una mole di fondi che la fondazione Gimbe
stima in 37 miliardi (di cui 25 solo tra il 2010 e il 2015), riversati
nelle casse delle società private, forti di prestazioni più
remunerative, perché numerose, ma inadatte a gestire un’emergenza
sanitaria. Di contro, i tagli al servizio pubblico che hanno portato
alla diminuzione dei posti letto. Per il Centro Studi Nebo,
nel 1981 i posti erano 530.000, nel 1992 erano 365.000, ridotti a
245.000 nel 2010 fino ai 191.000 del 2017. La cura dimagrante dei
governi Monti (2012) e Renzi (2015), guidati prima di tutto
dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, ha poi fatto
il resto, con la chiusura dei piccoli presidi ospedalieri. Risultato:
nella Lombardia di Roberto Formigoni e dei governatori leghisti, il
budget annuo per la sanità è di 19,5 miliardi, con i letti dimezzati e
gli introiti nelle strutture private, a partire dagli istituti San
Raffaele e Humanitas che, in questo anno di pandemia stanno facendo la
loro parte importante. Nelle altre regioni italiane, però, la situazione
non è più rosea: In Emilia-Romagna, dal 2000 al 2016, i posti letto
sono calati di 5.000 unità; in Piemonte, tra il 2012 e il 2018, hanno
chiuso 12 nosocomi. Di qui la decisione del Pirellone di investire 17,2
milioni di euro per un nuovo ospedale, concluso il 6 aprile 2020, in
area Fiera Milano, e l’investimento di 6 milioni di euro, stanziati da
Regione Emilia-Romagna e ministero della Salute,
per 34 terapie intensive all’ospedale Maggiore di Bologna. Ma,
dall’inizio della pandemia, è mancato anche il personale: per carenze
strutturali, malattie o decessi. Al punto che ai primi di marzo, un
decreto del presidente del Consiglio dei ministri ha dato il via libera
all’assunzione di 200 mila professionisti: la metà infermieri, il resto
diviso equamente tra specialisti e operatori socio-sanitari, distribuiti
tra le regioni più in difficoltà, Lombardia in testa. Questi i motivi
per cui, proprio l’8 marzo 2020, la giunta di Attilio Fontana e dell’assessore al Welfare, Giulio Gallera,
chiese aiuto alle residenze per anziani. I contagi salivano, i malati
aumentavano e non si sapeva, materialmente, dove metterli. E il cerchio
si chiudeva.
CHIAMATA ALLE ARMI
All’appello del governatore
Fontana rispondono molte strutture, ma non tutte. Fondazione Don
Gnocchi, Pio Albergo Trivulzio e la Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma
Luca Degani, presidente di Uneba, associazione che
riunisce più di 400 Rsa lombarde, si oppone. Con una lettera
all’assessore Gallera denuncia le criticità dell’operazione: personale
sanitario irreperibile, prosciugato dalle assunzioni pubbliche, e le
aree che dovevano garantire l’isolamento da riorganizzare. Inoltre,
l’età avanzata degli ospiti, spesso pluripatologici, li rendeva i
soggetti meno idonei per entrare in contatto con possibili positivi.
Però la missiva di Degani è senza risposta. Così come inascoltato è
stato l’avvertimento di Marco Agazzi, presidente dei medici di famiglia
di Bergamo, che denunciò gli spostamenti. La provincia bergamasca,
simbolo dell’epidemia con la foto dei camion militari carichi di bare,
subiva, già ai primi di febbraio, l’imposizione di lasciare aperte Rsa e
centri anziani, nonostante la richiesta dell’Associazione case di riposo bergamasche (Acrb),
presieduta da Cesare Maffeis, di interrompere le visite esterne.
Dall’Asl fecero però sapere che la chiusura poteva essere interpretata
come interruzione di pubblico servizio. Un’imposizione, revocata con un
repentino dietrofront dopo una settimana, che provocò probabilmente i
600 morti nelle strutture nei primi 20 giorni di marzo. E se era facile
entrare nelle Rsa, difficilissimo era raggiungere gli ospedali. Una
seconda ordinanza lombarda, la n.3108 del 30 marzo 2020, caldeggia alle
case di riposo di prestare le cure necessarie nelle strutture, o
comunque consultarsi sempre con i pronto soccorso prima delle
ospedalizzazioni. Non un’imposizione politica, come comunicato dal
Trivulzio, poiché l’ultima parola spettava sempre ai medici.
Un’indicazione, però, in grado di generare un clima che ha oltrepassato i
confini regionali, come ricorda Mauro Caffo, operatore socio-sanitario
di Parma: «Chiamavamo le ambulanze ma erano impegnate, c’era difficoltà anche solo a mettersi in contatto con gli ospedali».
Un caso emblematico è quello di una donna entrata in una Rsa il 20
febbraio 2020 per una terapia temporanea di un mese. Dopo aver contratto
il virus è dovuto intervenire il medico di base per ottenere il
ricovero in ospedale. «A mio nonno è stata negata l’ospedalizzazione ‒ ricorda invece Sanfelice ‒ dicendo
che il servizio nelle Rsa era lo stesso. Ma il medico non era nemmeno
presente in struttura. Ci riferivano che gli ospedali erano pieni e la
maggior parte delle nostre perdite è avvenuta proprio nelle strutture».
Non è stato semplice nemmeno trovarsi, improvvisamente, in prima linea. Emilia Tramelli, direttrice di Duemiglia, Cra piacentina appartenente al gruppo Sereni Orizzonti, riporta le misure adottate: «La
direttiva regionale prescriveva tre zone distinte. Quella rossa, per i
positivi, quella free, senza virus, e quella mista per i casi sospetti».
Molte strutture hanno quindi riorganizzato i plessi al pari degli
ospedali e, in questa fase, i pazienti positivi potevano essere
trasferiti all’interno di altre strutture: «E avveniva non solo a Piacenza, ma in tutta l’Emilia-Romagna».
Invece per Vittorio Pezzuto, responsabile delle relazioni esterne del
gruppo Sereni Orizzonti, il primo impatto con il virus è stato il 24
febbraio, «quando tutte le nostre strutture chiusero, con visite
contingentate di un solo parente. Fino al 4 marzo, quando la serrata è
stata totale». Con significativi vantaggi per le strutture appartenenti a grosse e strutturate realtà: «Già dall’8-9 marzo siamo riusciti a individuare mascherine, guanti e camici»,
rivendica Pezzuto. Il privato, infatti, poteva contare su un margine di
movimento maggiore rispetto al pubblico, permettendosi importanti
investimenti per i dispositivi di protezione. Poste le misure, comunque,
i mesi del lockdown hanno dimostrato la capacità del virus di
infiltrarsi nelle residenze. «Eppure – riflettono Pezzuto e Tramelli – abbiamo
mantenuto ovunque gli stessi protocolli. A nostro avviso il Covid è
entrato nelle strutture in due modi: con le ospedalizzazioni e con gli
operatori asintomatici». Vista l’anzianità degli ospiti, infatti, «le
Rsa vivono normalmente in sinergia con gli ospedali di riferimento, con
ricoveri temporanei e successivi ritorni. In questi casi, non sempre si
sapeva se il soggetto era positivo o meno, anche prima che il caso di
Codogno dimostrasse la presenza del Covid nel Nord Italia», riporta Pezzuto. Tramelli ricorda altresì la difficoltà nel rapportarsi con le aziende sanitarie: «Non sapevamo quando e quanti tamponi ci spettassero. Sono mancate le indicazioni in merito». Con l’impellente difficoltà nel sostituire il personale mancante: «Il
numero di queste professionalità è limitato, regolato da leggi dello
Stato. È una coperta corta, che durante l’emergenza è stata tirata dallo
Stato con l’incentivo di un contratto pubblico e tutte le relative
garanzie. Quando si doveva sostituire un infermiere malato non si
trovavano i curriculum nel cassetto».
Un imbuto che, in molti
casi, non ha lasciato scampo, ma ha portato alla formazione di numerosi
comitati dei parenti delle vittime. Animati dalla ricerca di verità i
primi esposti sono arrivati alle procure dalla metà di marzo fino ad
aprile, partendo da Milano, Bergamo, Lodi, Como, Varese, Cremona e
spingendosi fino a Bologna. Dove però i risultati non arrivano. Se a
Milano le inchieste hanno coinvolto le principali residenze, con il
sequestro dei documenti e delle cartelle cliniche, la Procura di Bologna
ha infatti chiesto l’archiviazione del primo esposto: la morte di una
97enne nella struttura Villa dei Ciliegi di Valsamoggia. Ma è
soprattutto la motivazione a scontentare i comitati: secondo il
procuratore Giuseppe Amato quella del Covid è stata «un’emergenza
epidemiologica eccezionale» che esclude, in questo caso, ogni profilo di
colpa. «È un pacchetto preconfezionato, senza una motivazione specifica, che finisce per assolvere tutti»,
si sfoga Sanfelice. Rabbia che sfocia in preoccupazione, pensando a
tutti i prossimi ricorsi nel capoluogo e nelle altre città. «Si rischia un effetto a catena, vanificando ogni ricerca della verità».
Perché per i comitati è ora imprescindibile capire cosa sia successo
nei mesi drammatici del lockdown, per un settore, quello della gestione
degli anziani, che muove interessi ed è gestito da enormi realtà
imprenditoriali. Sempre dal versante emiliano-romagnolo, Francesca
Sanfelice, presidente del comitato regionale parenti delle vittime,
spiega che in alcune strutture modenesi «si sono susseguiti casi di
dimissioni protette, confermate dalla dirigente dell’Asl locale. Oppure
trasferimenti tra residenze infette, con anziani che scendevano dagli
Appennini verso la pianura». L’Emilia-Romagna – che a differenza
del Piemonte di Alberto Cirio non ha replicato l’ordinanza lombarda –
aveva guadagnato, in termini percentuali, secondo un report dell’Iss
fermo al 14 aprile 2020, il primato nazionale per numero di morti nelle
Rsa in rapporto alla popolazione.
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Fonte: Terre di frontiera
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Articolo tratto interamente da Terre di frontiera
Il problema è che i sacrifici di quest'anno sembrano vani, visto che siamo ancora ad un livello vergognoso.
RispondiEliminaSiamo ancora in alta marea.
EliminaRicordo bene il primo lockdown, mi pesa molto di più quest'anno dove oltre a vedere poca chiarezza in certe decisioni, osservo molta censura in rete specie sui social.
RispondiEliminaLa situazione è ancora critica, con alcune decisioni non proprio brillanti.
EliminaPotrebbe riaccadere. Se non ci rendiamo conto della gravità.
RispondiEliminaSe continuano ad aumentare i ricoveri, c'è rischio di lockdown totale.
EliminaCiao,ci siamo illusi che il mostro avesse vita breve!
RispondiEliminaBuona serata
Rakel
La vedo ancora lunga.
EliminaMa quando finirà?Io sono stremata,ciao Vincenzo-
RispondiEliminaNon è facile fare previsioni.
EliminaLe responsabilità dell'amministrazione regionale lombarda durante tutta la prima fase dell'epidemia sono enormi. Non a caso poi a furor di popolo hanno dovuto recentemente sostituire l'assessore Gallera. Non era omunque il solo ad avere delle colpe, però ha pagato per tutti.
RispondiEliminaSi è pensato solo ai profitti economici, poco alla salute dei cittadini.
EliminaTriste rassegnazione da parte mia, oltre a essere stufo di aver rispettato le regole e dover ancora subire per colpa di incoscienti e strafottenti, oltre che di una politica che dove vuole fa di tutta l'erba un fascio, e altrove fa riaprire qualche attività facendone morire altre.
RispondiEliminaMolte persone, continuano a non rispettare le normali norme anti Covid.
EliminaCome dicevo stamani da Claudia, purtroppo cedo: sarei per un nuovo lockdown, totale e generalizzato, ma di 3 settimane, non un giorno di più, giusto per far rallentare i contagi..
RispondiEliminaIn primis chiudere le grandi attività, non toccate in questi mesi.
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